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La lotta all’abilismo attraverso il DDL Zan
Esclusione sociale, disoccupazione, barriere architettoniche e narrazione disabilitante: come vivono le persone nonostante l’abilismo
Il 28 aprile scorso la Commissione di Giustizia del Senato ha calendarizzato il Disegno di Legge Zan, dopo una lunga sospensione della discussione a causa dell’opposizione politica portata avanti dai partiti di destra. La proposta di legge è stata infatti accusata di essere liberticida, ma omolesbotransfobia, misoginia e abilismo non sono opinioni bensì forme di oppressione. La libertà che la destra vorrebbe difendere non è la libertà di pensiero ed espressione ma la libertà di continuare ad usare i propri privilegi a discapito degli altri. Il valore fondamentale di ogni democrazia dovrebbe essere l’uguaglianza, la quale non mette a tacere nessun pluralismo di idee – garantito inoltre dall’art. 4 del Ddl stesso – ma tutela la libertà di ogni individuo fino a quando questa non lede la libertà altrui.
Cosa si intende per “abilismo”
Come approfondito in un recente articolo di Scomodo, il Disegno di Legge Zan estende le protezioni previste per i crimini d’odio alla comunità LGBTQIA+, alle donne e alle persone con disabilità. La proposta di legge introduce omobilesbotransfobia, misoginia e abilismo negli articoli del codice penale 604 bis e ter, che puniscono la propaganda e l’istigazione a delinquere, e nel decreto legge 122/1993 che prevede il carcere per chi incita a commettere o commette violenza. Ma perché è così importante inserire un’aggravante per discriminazioni come l’abilismo?
Con il termine “abilismo” si fa riferimento al comportamento discriminatorio nei confronti delle persone con un qualunque tipo di disabilità. La tendenza è quella di dare per scontato che ogni individuo sia dotato di quello che la società ritiene essere un corpo abile e ciò porta a ridurre totalmente la persona alla propria disabilità. Questa narrazione è pregiudizievole e funge da concime per le numerose violenze e discriminazioni che le persone con disabilità sono costrette a subire ogni giorno: stando al comunicato OSCE del 2019, i reati che hanno coinvolto persone con disabilità in quell’anno sono state in totale 207, tra cui 96 aggressioni fisiche. Etichette e categorie, che le persone temporaneamente abili attribuiscono a persone con disabilità, sono figlie di un sistema che va riscritto.
Il nuovo ambito accademico dei Disability Studies – apparso a partire dagli anni Ottanta negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Canada – cerca di essere protagonista di questa riscrittura, analizzando la disabilità come un fenomeno non solo biologico ma anche sociale, politico, storico e culturale. L’obiettivo principale è quello di smascherare le dinamiche sociali che portano a pensare che una diversità di qualsiasi tipo costituisca uno svantaggio e un difetto. Con i Disability Studies si vuole affermare finalmente che, citando gli accademici Sharon L. Snyder e David T. Mitchell, “Una volta per tutte, questa disabilità è parte integrante della condizione umana”. L’approccio multidisciplinare e intersezionale di questo ambito di studi fornisce un solido alleato all’interventismo politico, affiancando all’azione legislativa quella culturale. E’ importante agire su entrambi i livelli affinchè l’estensione delle norme volte a tutelare le persone dai crimini di odio prevista dal Ddl Zan rappresenti un buon punto di partenza per raggiungere l’obiettivo dei Disability Studies.
Legislazione italiana e abilismo
Il Ddl Zan si inserisce all’interno di un quadro legislativo nel quale la legge 67/2006 e l’articolo 36 della legge 104/1992 tutelano le persone con disabilità da discriminazioni e molestie causate dal pregiudizio abilista. Questa proposta di legge rappresenta un’integrazione necessaria in quanto riconosce l’abilismo come reato d’odio e lo affronta attraverso un’ottica intersezionale, accostandolo a omobilesbotransfobia e misoginia. Maria Chiara ed Elena Paolini, attiviste e formatrici che si occupano di contrasto all’abilismo, sottolineano quest’aspetto osservando che il Ddl Zan “mette insieme varie discriminazioni che di solito vengono – con poca lungimiranza – affrontate separatamente.” Riconosce quindi l’importanza di affrontare queste discriminazioni all’unisono perché, nel momento in cui il processo di emancipazione lascia indietro una minoranza, non sta portando all’affermazione di diritti ma all’estensione di privilegi.
Includendo l’abilismo tra le discriminazioni punibili per legge, il Ddl Zan riporta l’attenzione su un problema fortemente presente nella nostra società. Una ricerca svolta nel 2018 dalla Lega per i diritti delle persone con disabilità (LEDHA) presso i tribunali italiani mostra che la legge che vieta le discriminazioni abiliste (67/2006) rimane scarsamente applicata. I ricorsi presentati sulla base della tutela introdotta dalla legge sono stati appena 64, ma il Centro Antidiscriminazione Franco Bomprezzi (CAFB), punto di riferimento per le persone con disabilità, tra luglio 2015 e giugno 2018 ha ricevuto oltre tremila segnalazioni di casi di discriminazione. Dal momento che quasi tutti i provvedimenti giudiziali emessi sulla base dei ricorsi hanno accertato l’esistenza di una discriminazione, la legge si rivela uno strumento efficace ma ancora poco conosciuto e di conseguenza poco sfruttato. Maria Chiara e Elena Paolini pongono l’accento su quello che è “l’effettivo potere di utilizzo delle leggi da parte delle persone disabili: per usare le leggi ci vuole un certo vantaggio sociale, e molte persone disabili sono troppo impoverite e oppresse da problemi quotidiani (…) Mancano il tempo materiale, l’energia, e a volte anche la conoscenza della legge stessa.” Un altro fattore che incide sulla scarsa applicazione della legislazione esistente risiede nella cultura fortemente abilista nella quale siamo immersi e che, in modo consapevole o meno, interiorizziamo e riproduciamo: “certe consapevolezze non sono diffuse e questo fa sì che, molto banalmente, le decisioni dei giudici siano influenzate dall’abilismo”.
Il peso dell’abilismo nella nostra società
L’abilismo, al pari dell’omobilesbotransfobia e della misoginia, è una forma di oppressione sistemica, riscontrabile a livello economico, politico, sociale e culturale. Indicativo del livello di abilismo presente nel nostro paese è il fatto che, secondo una ricerca Eurostat (2019), in Italia il 29.5% delle persone con disabilità è a rischio di povertà o esclusione sociale, rispetto al 18.4% delle persone senza disabilità.
La stessa narrazione che la nostra società porta avanti intorno alla disabilità è abilista: la persona con disabilità viene presentata come una “tragedia vivente” e di conseguenza viene trattata come un individuo da compatire per la sfortuna subita e da ammirare per il fatto che riesca a vivere nonostante essa. Il cosiddetto “Inspiration Porn”, cioè giudicare una persona con disabilità come automaticamente coraggiosa o eroica, non è edificante bensì stigmatizzante, perché il presupposto è che quella persona devia da quella che è ritenuta essere la norma. Tale narrazione è il retaggio del paradigma medico-individualista, che considera la disabilità come una condizione individuale e intrinsecamente svantaggiosa. Tale paradigma è stato messo in discussione dai Disability Studies, che hanno tracciato una distinzione tra menomazione e disabilità, che precedentemente venivano sovrapposte. L’approccio biopsicosociale sviluppato nei Disability Studies definisce la disabilità come il prodotto dell’interazione tra le caratteristiche fisiche, intellettive, sensoriali di un individuo e il contesto in cui vive. In questo modo si riconosce che è la società a trasformare determinate caratteristiche in delle disabilità nel momento in cui costruisce un ambiente fatto a misura di alcuni corpi ma non di altri. Disabilitanti sono innanzitutto le barriere architettoniche e sensoriali, che impediscono l’accesso a informazioni, luoghi e mezzi di trasporto. Una ricerca ISTAT (2019) mostra che solo il 31,5% delle scuole risulta accessibile per le persone con disabilità motorie e appena il 17,5% è accessibile alle persone con disabilità sensoriali e percettive.
In un saggio del 2013 pubblicato su “Italian Journal of Disability Studies”, Roberto Medeghini (professore, ricercatore e formatore che si occupa di inclusione sociale e scolastica) rileva che le politiche sociali ed istituzionali esistenti in Italia cercano di ovviare a questo problema prevalentemente attraverso l’inserimento delle persone con disabilità nelle strutture sociali preesistenti. L’inserimento diviene integrazione nel momento in cui si ragiona sul ruolo attivo che le persone con disabilità possono svolgere al loro interno e tuttavia i presupposti abilisti su cui queste strutture si basano non vengono messi in discussione. Inserimento e integrazione sono approcci che mirano a compensare quelle che vengono considerate mancanze individuali: si interviene cercando di rendere l’individuo adatto alla società in cui vive, quando è la società stessa che andrebbe ripensata. Roberto Medeghini propone di affrontare la questione attraverso un’ottica inclusiva, il cui “obiettivo è quello di modificare le diverse realtà e contesti economici, scolastici e sociali in modo che le differenze possano assumere un ruolo culturale fondante”. Il problema va affrontato alla radice: non sono le persone disabili a dover essere sottoposte ad un processo di normalizzazione perché l’unica norma esistente è quella costruita dalle categorie sociali che si trovano in una posizione privilegiata, è l’abilismo a dover essere decostruito e smantellato.
In Italia siamo ancora molto lontani dal raggiungere l’obiettivo dell’inclusione. Infatti, come osservano Elena e Maria Chiara Paolini, “moltissime risorse vengono indirizzate all’istituzionalizzazione invece che verso il vivere all’interno della comunità, cioè ad esempio verso l’assistenza personale. Vivere in struttura è ad oggi l’unico diritto esigibile in Italia per chi non è autosufficiente, e quindi l’unica opzione per chiunque non abbia una rete di sostegno o ingenti risorse personali.” Attraverso la rete Liberi di fare, di cui sono fondatrici, negli ultimi anni hanno avviato una campagna di sensibilizzazione e mobilitazione intorno al tema dell’assistenza personale per le persone non autosufficienti, denunciando la scarsità dei fondi ad essa destinati e la mancanza di una legge nazionale finanziata.
Le leggi sono dunque necessarie per andare nella direzione di una società inclusiva, ma da sole non sono sufficienti: riconoscere i diritti delle persone con disabilità a livello giuridico è un primo passo, ma deve essere seguito dalla loro messa in atto e questo diviene possibile solo nel momento in cui si agisce su molteplici livelli.
L’Italia verso gli obiettivi europei
Essendo però l’Italia un paese europeo, le leggi seguono programmi specifici e devono guardare a obiettivi comuni a tutta l’Unione. A partire dal “Programma di azione per l’integrazione occupazionale e sociale delle persone portatrici di handicap” del 1974, l’UE ha posto il primo tassello – evolutosi successivamente con il rifiuto e il superamento del termine “handicap” in quanto stigmatizzante – per il riconoscimento e la riduzione di discriminazioni sistematiche contro persone con disabilità in Europa. Da quel momento in poi, l’Unione ha intrapreso un percorso di creazione di un tessuto sociale in grado di conferire pari dignità e considerazione a persone con disabilità e non. Ad oggi, l’atto legislativo con più validità è la Direttiva 2000/78/CE del Consiglio europeo, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di impiego. L’Art. 5 della direttiva obbliga il datore di lavoro ad adottare, verso persone con disabilità, “provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione”.
Nonostante i nobili tentativi di intervento dell’UE, chiare sono le lacune di alcuni Paesi membri. Il fatto che il DDL Zan sia ancora un disegno di legge, ad esempio, è la cartina tornasole di un cammino verso l’inclusività che vede la meta ancora molto lontana.
Dalla ricerca Eurostat del 2019, citata sopra, emerge che ci sono paesi membri come la Bulgaria (50,7%) e la Lettonia (42,1%), che toccano punti percentuali che ci mostrano come il tentativo di migliorare la propria condizione economica si scontri con soffitti molto più bassi e opprimenti per alcune persone rispetto che per altre.
Per queste ragioni, l’Unione Europea ha deciso di investire attenzione e risorse economiche per porsi degli obiettivi in grado di rendere sempre più egualitarie le esistenze dei popoli che abitano i suoi Paesi membri. L’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG) sono due strumenti che l’UE sta impiegando per raggiungere questo scopo. L’Agenda racchiude 17 obiettivi di sviluppo sostenibile con l’intento di “non lasciare nessuno indietro”. All’interno di questi Obiettivi di Sviluppo del Millennio, ci sono undici riferimenti specifici a questioni che riguardano le disabilità. Lo scopo è quello di puntare una luce a occhio di bue sulle esigenze specifiche di persone con disabilità e incentivare i Paesi aderenti alla creazione di politiche e programmi sempre più inclusivi.
Sia l’Agenda che gli SDG, però, non sono vincolanti. Entrambe possono aprire le porte a iniziative di social washing: interventi legislativi apparentemente indirizzati verso un futuro inclusivo, che in realtà non intervengono mai in modo pratico per renderlo tale. Fortunatamente, la Convenzione delle Nazioni unite sui diritti delle persone con disabilità (CRPD) fornisce un solido quadro giuridico per difendere i diritti delle persone con disabilità: i 33 articoli fondamentali che coprono tutti gli ambiti della vita devono essere implementati e monitorati, e gli Stati membri hanno l’obbligo legale di conformarsi a questi.
L’Italia sarà in grado di lavorare efficacemente per raggiungere gli obiettivi europei entro il 2030? Già nel 2013 il Tribunale europeo ha condannato il paese per non aver adottato regole che garantissero l’adeguato inserimento professionale di persone con disabilità. Effettivamente, solo il 16% di persone con disabilità aveva un lavoro, indice del fatto che non ci fossero politiche adeguate per rendere le assunzioni non discriminatorie. Dati ISTAT più recenti (2019) ci mostrano come questo 16% sia arrivato al 31,3% nella fascia compresa tra i 15 e i 64 anni. Nonostante sia indiscutibile un miglioramento, questa percentuale si contrappone comunque al 57,8% di persone della stessa fascia occupate, ma senza disabilità. Interessante è vedere come abilismo e discrimazione di genere siano intersecate nell’ambito occupazionale, come in tanti altri ambiti: solo il 26,7% delle donne con disabilità ha infatti un lavoro. Questi dati non solo ci dicono la grave situazione in cui si trovano persone con disabilità quando si vogliono affacciare al mondo del lavoro, ma anche quanto sia importante l’approccio intersezionale quando si tratta di discriminazioni sistemiche.
La legge Zan sarà sicuramente un passo importante per il raggiungimento di questi obiettivi: lavorare affinchè si sanzioni maggiormente una discriminazione o violenza contro persone con disabilità porterà, almeno in parte, all’abbattimento di alcune difficoltà sistemiche che alcune persone sono state fino ad ora costrette a subire. Rimane però il fatto che le sanzioni contro atti abilisti non sono specificati in alcuni articoli dove sarebbe necessario che lo fossero. In relazione agli obiettivi europei, di grande rilevanza sarebbe l’Art. 10 del disegno di legge, secondo il quale “L’istituto nazionale di statistica, nell’ambito delle proprie risorse e competenze istituzionali, sentito l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (OSCAD), assicura lo svolgimento di una rilevazione statistica con cadenza almeno triennale”. L’inserimento di questo articolo andrebbe a braccetto con l’obiettivo dell’UE di mappare l’inclusione della disabilità nello sviluppo e nell’aiuto umanitario degli Stati membri.
Ma la mappatura è riservata a violenze per “motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, oppure fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”. La ricerca statistica e la mappatura sono fondamentali per mostrare come i casi di violenza e discriminazioni nei confronti delle persone disabili non siano fenomeni isolati. Bisogna comprendere la sistematicità di questi eventi, in modo da poter intervenire a livello legislativo per tutelare una categoria sociale fortemente marginalizzata.
Inoltre, il DDL Zan si focalizza su “violenza” e “discriminazione” senza mai analizzare nello specifico le differenze che intercorrono tra i tipi di violenza che subiscono membri della comunità LGBTQIA+, donne e persone con disabilità. Categorie sociali differenti hanno bisogno di investimenti mirati affinché le proprie specificità non vengano rese un muro insormontabile per il raggiungimento di indipendenza economica e riconoscimento sociale. Attraverso il sistema European system of integrated social protection statistics, l’UE rileva annualmente quanto i paesi membri spendano per la protezione sociale e su quale categoria si concentrino maggiormente. In tutta l’UE la parte preponderante della spesa per la protezione sociale è destinata alle pensioni di vecchiaia (40,15%) e alla spesa sanitaria (29,48%) mentre il 25% delle risorse è destinato alla povertà e all’inclusione sociale, di cui solo il 7,37% per persone con disabilità. È molto chiaro dall’Agenda europea che gli interventi non possono limitarsi a tamponare le violenze subite, ma devono lavorare a tutti i livelli della società affinché si vadano a definire realmente delle istituzioni inclusive. È per questo motivo che il DDL Zan non sembra essere il punto di arrivo ma quello di partenza per il riconoscimento di alcuni diritti specifici che la comunità disabile necessita.
Articolo di Elena Allara, Valeria Ortolani, Cecilia Pellizzari