Le minacce al diritto all’aborto in Occidente

17/06/2022

Era il 2016, e per protestare contro il divieto di aborto in Irlanda del Nord, Diana King, Colette Devlin and Kitty O’Kane, tre donne rispettivamente di 71, 68 e 69 anni, si presentarono alla stazione di polizia di Derry, dichiarando di aver acquistato farmaci abortivi su internet. Secondo le severe leggi del Paese, rischiavano l’ergastolo. Colette reggeva un cartello che recitava: le donne ricorreranno sempre all’aborto. Lo vogliamo sicuro e legale. All’epoca c’era stata un’ondata di attenzione mediatica internazionale non per la causa in sé, ma per la domanda faziosa: cosa può spingere tre signore nate negli anni quaranta del secolo scorso a battersi per un diritto che, prima di tutto per ragioni naturali, non spetta neanche più loro? Ma la risposta fu, ed è ancora, estremamente semplice e attuale: l’aborto è un diritto anche quando non siamo d’accordo con il motivo per cui viene scelto. E i diritti non invecchiano.

Il 3 maggio scorso il quotidiano americano Politico ha pubblicato la prima bozza di parere maggioritario della Corte Suprema scritta dal giudice Samuel Alito, per annullare la sentenza Roe v. Wade che, nel 1973, legalizzò l’aborto a livello federale nel paese. Roe v. Wade è una sentenza epocale che cambiò il corso della storia dei diritti civili negli Stati Uniti. Nella bozza, che è il primo leak nella storia della Corte, i giudici Alito, Thomas, Gorsuch, Kavanaugh, e Coney Barrett, gli ultimi tre eletti da Trump, si dichiarano a favore delle leggi antiabortiste del Mississippi, la cui costituzionalità era messa in discussione nel caso Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization. La ragione dietro questa decisione è che Roe v. Wade si basa sul diritto alla privacy, che, secondo loro, non è garantito dalla Costituzione. La maggioranza dei giudici conservatori della Corte segue la dottrina originalista, una dottrina legale conservatrice che sostiene sia necessario interpretare la Costituzione alla lettera. Questa giustificazione è importante anche perché sono molte le leggi negli Stati Uniti basate sul diritto alla privacy, come la legge sui matrimoni fra bianchi e non bianchi o quelli fra coppie omosessuali.

La Corte Suprema si dovrebbe pronunciare in via definitiva entro la fine di giugno, e se il parere dei giudici conservatori dovesse prevalere, come si evince dalla bozza, l’aborto non sarebbe più garantito a livello federale e la decisione verrebbe rimessa ai singoli stati. Sono almeno tredici quelli che hanno già approvato le cosiddette “trigger laws”, ossia leggi che, all’indomani della caduta di Roe v. Wade, renderebbero l’aborto illegale. Si stima che questa procedura diventerebbe impossibile da eseguire o fortemente limitata in 22 stati su 50, prevalentemente nel Sud e nel Midwest, dove vive il 42% delle donne in età fertile. Infatti, mentre oggi paesi come Argentina, Messico e Colombia compiono salti in avanti e legalizzano l’aborto, un’altra parte del mondo democratico rischia di arretrare bruscamente. Sin dall’emissione della sentenza, attivisti e politici che si definiscono “pro-life” hanno cercato di rovesciarla.

In alcuni stati come il Texas, forti restrizioni sul diritto all’aborto sono già in vigore: dal 1° settembre 2021, il cosiddetto “Heartbeat Act” vieta l’aborto dopo la sesta settimana di gravidanza (quindi dopo due settimane dal ritardo del ciclo) anche in caso di stupro e incesto e autorizza i privati cittadini – ad esclusione, in caso di stupro, dell’accusato, ma non ad esempio della sua famiglia – a denunciare coloro che hanno praticato la procedura, come i medici. Questa legge rende possibile, inoltre, denunciare anche chi ha aiutato la persona ad abortire, come ad esempio una madre che ha portato la figlia minorenne in una clinica. Nello Stato dell’Oklahoma, invece, il congresso ha appena approvato una legge che permette l’aborto solo per gravi motivi di salute e punisce le donne con pene fino a centomila dollari e dieci anni di reclusione, ma la legge sarà molto probabilmente resa nulla da una corte nazionale o federale perché al momento è in contrasto con Roe v. Wade. Anche molti altri stati, tra cui Georgia, Alabama, Ohio, Kentucky, Mississippi e Louisiana, hanno approvato leggi che proibiscono l’aborto dopo sei settimane, ma che sono state bloccate a livello federale perché non rientravano nei confini permessi dalla Roe v. Wade. In ogni caso, come denunciato da Amnesty International, in sei stati degli USA è presente una sola struttura medica dove poter abortire; 27 tra le principali città e buona parte dell’America rurale sono dei veri e propri “deserti dell’aborto” e la maggior parte delle donne che vi abitano devono percorrere oltre 150 chilometri per trovare una struttura dove poter abortire. 

Viene così a delinearsi una situazione discriminatoria, perché le persone con basso reddito, minorenni, non bianche, LGBT+, e quelle senza permesso di soggiorno, o che si trovano all’intersezione di due o più categorie, sono le più colpite dalle restrizioni sull’aborto poiché per loro è più difficile pagare, viaggiare o prendersi permessi dal lavoro.

Quando è praticato con l’assistenza di personale medico formato e in condizioni sanitarie idonee, l’aborto è una delle procedure mediche più sicure disponibili. Ma quando esso viene limitato o criminalizzato, le donne sono costrette a cercare modi non sicuri per interrompere la gravidanza. Si stima che nel mondo ogni anno cinque milioni di donne vengano ricoverate per curare complicazioni legate a un aborto non sicuro e che almeno 47.000 di esse muoiano. 

Da un sondaggio indipendente realizzato nel gennaio 2019 è emerso che due terzi degli americani ritengono che l’aborto dovrebbe essere legale “in tutti i casi” o “nella maggior parte dei casi” e il 73% del campione ritiene che la sentenza Roe v. Wade non dovrebbe essere annullata. Tuttavia, in un’ottica di futuro imminente, in stati come Minnesota, Wisconsin, Michigan e Kansas, i governatori Democratici, che convivono con un Congresso locale a maggioranza Repubblicana, risulteranno di riflesso poco interessati a collaborare per continuare a garantire il diritto all’aborto.

Nel resto dell’Occidente la situazione non è comunque delle migliori. In Unione Europea, nonostante esistano stati come la Francia dove l’aborto è sicuro e accessibile, stati dove l’obiezione di coscienza è illegale, come Svezia, Finlandia, Islanda e Cecoslovacchia, e stati come l’Irlanda dove la procedura è stata da poco legalizzata, molte sono le nazioni in cui questo diritto è ancora osteggiato. A Malta ad esempio, l’aborto è ancora illegale, e nell’Ungheria di Orban, l’IVG è legale, ma chi l richiede deve passare attraverso una lunga procedura burocratica che comprende un periodo di attesa obbligatorio e molteplici appuntamenti e visite con medici e assistenti sociali. In più, l’assistenza all’aborto non è coperta dall’assicurazione sanitaria pubblica. La mancanza di sovvenzioni pubbliche e tutti gli step obbligatori sono volti a far desistere le persone minorenni, quelle senza permesso di soggiorno, che vivono in una situazione di instabilità economica o LGBT+ dal portare a termine la procedura. A questa lista si aggiungono anche le donne all’interno di una relazione abusiva o che subiscono violenza domestica, e tutte coloro che hanno un partner contrario all’aborto. Fra gli stati in cui il diritto all’IVG è limitato troviamo anche l’Italia, dove è legale ma giudicato dalla Corte Europea dei Diritti Umani come impraticabile in certe regioni a causa dell’alto tasso di obiezione di coscienza, e la Polonia, che ha recentemente passato una legge che rende la procedura quasi completamente illegale. 

 

La solitudine dei non-obiettori in Italia

Grazie alla Legge n. 194, dal 1978 è legale abortire in Italia, ma far valere questo diritto è ancora difficile a causa dell’elevato numero di obiettori di coscienza tra il personale medico, una situazione che è stata ulteriormente aggravata dalla pandemia. Infatti, secondo l’ultimo rapporto ufficiale del governo italiano, nel 2020 sono state praticate 66mila interruzioni volontarie di gravidanza, il 9,3% in meno rispetto al 2019 e con un calo consistente fra le donne molto giovani e le donne straniere. Tuttavia, nonostante il trend generale sia in discesa, questo drastico calo è motivato dall’impossibilità di accedere all’IVG  nei mesi iniziali della pandemia, quando l’aborto non era stato inserito fra le procedure di emergenza da mantenere attive durante il lockdown. Anche dopo i primi mesi, molti reparti di ginecologia non erano stati riattivati poiché convertiti in “reparti Covid”.

Sempre secondo il rapporto, nel 2020 il 64,6% dei ginecologi e il 44,6% degli anestesisti in Italia non voleva praticare l’interruzione volontaria di gravidanza. Queste percentuali variano molto sul territorio italiano, ma quella dei ginecologi obiettori supera il 70% in nove regioni su ventuno (Trento e Bolzano sono contate separatamente), con picchi dell’84,5% nella provincia autonoma di Bolzano, del 83,8% in Abruzzo e del 82,8 in Molise, dove si raggiungeva il 92,3% nel 2019. In Campania solo il 28% degli ospedali pratica aborti, mentre nel Lazio sono disponibili meno di due ospedali ogni 100.000 persone in età fertile e sono solo cinque i medici disposti a praticare l’aborto terapeutico a Roma. Nonostante questi numeri siano più bassi rispetto a quelli del 2019, la dott.ssa Silvana Agatone, ginecologa e presidente dell’associazione Laiga194, sottolinea che quello dell’obiezione sia un trend in crescita, dato che nel lungo periodo è stato identificato un aumento anche nel numero complessivo di ospedali che non effettuano la procedura (attualmente oltre il 60%).  Secondo l’Associazione Luca Coscioni che ha condotto nel 2021 l’indagine Mai Dati, i dati forniti dal rapporto ufficiale sono inferiori a quelle reali. Sulle 180 strutture che hanno fornito i dati richiesti da Chiara Lalli e Sonia Montegiove (molte non hanno risposto), sono 31 – 24 ospedali e 7 consultori – quelle con il 100% di obiettori di coscienza fra ginecologi, anestesisti, infermieri o OSS, quasi 50 quelle con una percentuale superiore al 90% e oltre 80 quelle con un tasso di obiezione superiore all’80%.

Agatone si dice molto preoccupata per il numero crescente di personale medico obiettore, poiché avere un medico non obiettore in ospedale non serve a niente se l’intero sistema che lo circonda lo è. “Essere non obiettore significa avere a che fare con infermieri che si rifiutano di spostare il letto dove giace la paziente da una stanza all’altra o di mettere le pillole abortive sul comodino. Significa anche lavorare con anestesisti che si rifiutano di fornire l’anestesia alla paziente.” Questo è ad esempio capitato a Francesca Tolino, portavoce della campagna Libera di Abortire, che ha deciso di avere un aborto terapeutico dopo aver scoperto che il suo feto presentava gravi malformazioni al cuore e una brevissima aspettativa di vita, ma non ha ricevuto nessuna anestesia.

Ancora meno strutture praticano aborti farmacologici, nonostante sia il tipo di IVG più comune in Europa. Questo perché, fino all’inizio del 2021, questa procedura poteva essere effettuata solo fino alla 7° settimana e richiedeva in molte regioni un ricovero di tre giorni. In più, tra il giorno della richiesta formale e il giorno in cui avviene l’aborto, la legge prevede anche una “settimana di riflessione” e, sebbene sia possibile l’esenzione in casi urgenti, ciò non è affatto facile da ottenere. “Le persone non sono informate dei loro diritti”, spiega Agatone, “recentemente, una donna con solo quindici giorni davanti a sé per interrompere la gravidanza ci ha chiamato da Napoli. Il personale del primo ospedale in cui è andata le ha detto ‘queste cose qui non le facciamo’, mentre quello del secondo ospedale l’ha rimandata a casa perché il dottore ‘non aveva tempo per lei’ e l’ha invitata a tornare dopo un paio di settimane.”

In teoria, la legge richiede che tutti gli ospedali eseguano aborti farmacologici, chirurgici e terapeutici, anche “prendendo in prestito” medici da altre strutture. In pratica, però, questo è molto raro e le persone che potrebbero ancora ottenere un aborto medico spesso finiscono per farne uno chirurgico perché perdono molto tempo a cercare un ospedale che offra il servizio.

I non obiettori di coscienza, quindi, non hanno una vita facile: nel 2019, in Molise, l’unico ginecologo non obiettante ha interrotto una media di 6,6 gravidanze a settimana in 44 settimane lavorative (nel 2016 erano 9 a settimana). Inoltre, è molto difficile per loro essere promossi. Come sottolinea anche Agatone, è in aumento il numero di ginecologi che diventano obiettori di coscienza per “avanzare nella carriera” o per “stanchezza e stress.” Essere non-obiettori spesso significa rinunciare a importanti promozioni, in quanto molti primari sono obiettori provenienti da università cattoliche, che a volte arrivano al punto di far firmare ai propri studenti documenti in cui si afferma che non eseguiranno aborti. È successo al Campus Bio-Medico di Roma, un Ateneo privato ma accreditato dalla Regione Lazio che a gennaio 2020 è stato al centro di un dibattito pubblico per la sua Carta delle Finalità che affermava che “il personale docente e non, gli studenti e i frequentatori dell’Università considerano l’aborto procurato e l’eutanasia reati di diritto naturale” e che “si avvalgono del diritto all’obiezione di coscienza previsto dall’art. 9 della Legge n. 194.” Oggi l’esplicito divieto è stato sostituito da un più vago “impegno ad operare secondo il Magistero della Chiesa Cattolica” e l’Ateneo ha assicurato alla Regione Lazio che la sua “Scuola di Specializzazione in Ginecologia e Ostetricia segue il percorso formativo e professionalizzante previsto dalla normativa vigente e assicura una formazione completa ai propri studenti.”

L’abuso perpetrato nei confronti delle persone che decidono di abortire non si ferma alla procedura in sé, ma continua anche con la sepoltura dei feti abortiti senza il permesso dei genitori. Nel settembre 2020, Marta Loi ha pubblicato su Facebook un post che è diventato virale in cui dichiarava di aver trovato una tomba con sopra una croce e il suo nome nel Cimitero Flaminio di Roma, che in realtà era la tomba del feto che aveva abortito mesi prima. Secondo un decreto presidenziale del 1990, se una persona ha un aborto spontaneo o un aborto terapeutico tra la 20a e la 28a settimana, il feto deve essere seppellito da lei o dall’ospedale che l’ha assistita. Quando il genitore decide di non occuparsene, di solito viene seppellito con il numero presente sulla cartella clinica. A Roma, invece, l’AMA, la società che si occupa dello smaltimento dei rifiuti della città, e l’ASL Roma 1 hanno seppellito i feti con rito cattolico e scritto il nome della persona incinta sulle lapidi senza il suo consenso.

Questa scoperta ha portato Francesca Tolino, che ha scoperto di avere anche lei una tomba a suo nome, e i Radicali Italiani ad avviare un’azione popolare contro AMA, ASL Roma 1 e Ospedale San Giovanni Addolorata.

 

Polonia, dove l’aborto è più in pericolo

Prima dell’ottobre 2020, la Polonia aveva già una delle leggi sull’aborto più restrittive in Europa e la storia di questo diritto nel paese è lunga e travagliata.

Dal 1959, l’aborto in Polonia è stato per anni legale su richiesta, ma non è mai stato considerato un diritto umano, quanto un modo per abbassare gli alti tassi di mortalità fra le donne che tentavano di abortire illegalmente. Tuttavia, dopo la caduta del comunismo, già nel 1991, l’Assemblea Generale dei Medici adottò un Codice di Etica Medica a sostegno dell’aborto solo per motivi di salute e penali, ossia in seguito a stupro o incesto. Nel 1993, i membri conservatori e anticomunisti del nuovo parlamento, sostenuti dalla Chiesa cattolica romana, approvarono una legge sulla protezione degli embrioni umani e le condizioni di ammissibilità dell’aborto. La legge vietava la procedura per motivi sociali ed economici, ma rese quasi impossibile trovare medici nel settore pubblico che praticassero aborti terapeutici e aborti in caso di stupro, sebbene fossero ancora legali. Meno di 200 aborti venivano praticati ogni anno secondo i registri ufficiali. Nel 1997, grazie all’impegno dei parlamentari pro-choice e del presidente Aleksander Kwaśniewski, fu approvata una legge che consentiva l’aborto per motivi economici e sociali, ma fu subito impugnata davanti alla Corte Costituzionale, che la dichiarò incostituzionale perché incompatibile con l’articolo 1 della Costituzione sulla protezione della vita umana. Con l’elezione di un nuovo parlamento di destra nel 1997, la legge è stata nuovamente limitata.

Nel XXI secolo, l’aborto è diventato un argomento ricorrente nel dibattito pubblico polacco, con continui scontri tra gruppi conservatori e cattolici che cercano di limitare ulteriormente la legge e attivisti e attiviste pro-choice che si battono per aborti sicuri e legali. Nel settembre 2015, 206 parlamentari del Sejm, la camera bassa polacca, hanno respinto un’iniziativa civile proposta dalla rete Stop Abortion per vietare completamente la pratica, che era però ancora sostenuta da 178 parlamentari. Tuttavia, una versione meno estrema del disegno di legge, che avrebbe consentito la pratica solo in casi di estremi rischi per la salute della donna e avrebbe aumentato la pena per chi pratica l’aborto da due a cinque anni, era stata presentata al parlamento dall’organizzazione Ordo Iuris Institute e passata al Sejm nel settembre 2016. Il voto ha rappresentato il momento di rottura per il dissenso popolare e ha portato ad un’ondata di proteste di massa nelle strade e attivismo online (le Czarny Protests o Proteste Nere). Il 3 ottobre 2016, il “lunedì nero”, il movimento All-Poland Women’s Strike ha indetto uno sciopero a livello nazionale e tra le 100.000 e le 150.000 persone si sono unite allo sciopero, scendendo in piazza in 147 città e paesi. In risposta, il vice premier Jaroslaw Gowin ha affermato che le proteste avevano fornito al governo “spunti di riflessione” e il 6 ottobre il disegno di legge era stato respinto con 352 voti contrari e 58 a favore.

Tuttavia, il 22 ottobre 2020, la Corte Costituzionale, composta principalmente da giudici conservatori nominati dal Partito Legge e Giustizia, ha dichiarato incostituzionale la legge del 1993 che permetteva l’aborto nei casi di “invalidità o malattia incurabile” del feto, che rappresentava il 98% dei circa 1000 aborti legali praticati ogni anno nel Paese. Questa sentenza è stata convertita in un disegno di legge presentato dal Presidente al Sejm il 30 ottobre 2020. Secondo la Corte, questa parte della legge del 1993 violava la tutela della dignità umana sancita dall’articolo 30 della Costituzione. La sentenza è stata accolta con una forte resistenza da una parte consistente della popolazione, che è stata coordinata da diverse ONG pro-choice come l’All-Poland Women’s Strike, nato nel 2015, e il partito Razem (Sinistra Insieme). Come era già successo qualche anno prima, la prima risposta ha preso la forma di proteste di massa e scioperi in diverse città polacche, oltre che di attivismo online. Inoltre, l’All-Poland Women’s Strike ha creato un consiglio consultivo per strutturare meglio le richieste dei manifestanti che all’inizio si limitavano al diritto all’aborto ma presto si sono ampliate per includere i diritti LGBT+ e la richiesta di reindirizzare i fondi stanziati alla chiesa e al governo polacco televisione al sistema sanitario. Tuttavia, dopo essere stata temporaneamente posticipata a novembre, la sentenza è entrata in vigore il 27 gennaio 2021.

Nel luglio 2021, tre cause contro il governo polacco sono state portate dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ed è cresciuta la rete di associazioni che aiutano le persone che desiderano abortire a farlo. Ciò avviene finanziando i viaggi all’estero che in pochi si possono permettere e provvedendo loro delle pillole abortive, fatte entrare illegalmente nei confini polacchi. Il governo contrasta attivamente questi sforzi. Nell’aprile 2022, è infatti cominciato il processo contro l’attivista di Abortion Dream Team Justyna Wydrzyńska che rischia fino a tre anni di carcere per aver fornito delle pillole abortive ad una donna in una relazione abusiva, il cui marito le aveva impedito di viaggiare in Germania per abortire, e che ha anche chiamato la polizia quando ha scoperto che la moglie aveva ingerito le pillole. Intanto, avere un aborto, anche nei casi in cui è legale, è sempre più difficile. Nel novembre 2021, Izabela, una donna di 30 anni alla 22esima settimana di gravidanza è morta per shock settico dopo che i medici avevano deciso di aspettare che il cuore del feto smettesse di battere, nonostante ci fossero le basi legali per procedere con una interruzione di gravidanza.

Articolo di Ginevra Falciani, Lorenza Ferraiuolo