Come l’accordo di pace in Afghanistan lascia indietro le donne

Dopo l’accordo del 29 febbraio tra i talebani e gli Stati Uniti, il progresso fatto nella tutela dei diritti delle donne in Afghanistan rischia di retrocedere. Le attiviste afgane stanno lottando per essere incluse nelle future trattative di ridefinizione dello Stato.

26/05/2020

“Le donne non hanno voce nel contratto originale attraverso cui gli uomini trasformano la loro libertà naturale nella sicurezza della libertà civile. Le donne sono l’oggetto del contratto” scrive Carole Pateman ne Il contratto sessuale del 1988. Secondo la filosofa, alla base del contratto sociale che dà vita allo Stato vi è un contratto sessuale che priva le donne dei diritti politici. L’affermazione a primo impatto risulta obsoleta; andando però ad analizzare le condizioni per l’accordo di pace tra talebani e USA in Afghanistan ritroviamo la sua scottante attualità. La riuscita dei negoziati tra le due parti regge su un (implicito) contratto sessuale, che esclude le donne dal processo di pace e dalla vita politica. I talebani hanno intenzione di instaurare un regime islamico, in cui le donne sono cittadine di seconda classe, e gli Americani acconsentono pur di soddisfare i propri obiettivi, dopo aver per anni fatto della promozione dei diritti delle donne la giustificazione per i loro interventi militari in politica estera.

Accordo di pace

L’accordo di pace tra talebani e Stati Uniti è stato raggiunto lo scorso 29 febbraio a Doha, in Qatar, dopo quasi 20 anni di guerra. Come recita il documento ufficiale, l’“Accordo per portare pace all’Afghanistan tra l’Emirato Islamico dell’Afghanistan (i talebani) e gli USA” prevede innanzitutto l’estensione del periodo di “riduzione di violenza” iniziato il 22 febbraio per giungere ad un “cessate il fuoco” totale tra le parti. La Casa Bianca si impegna inoltre a ritirare le truppe americane dall’Afghanistan entro i 14 mesi successivi all’accordo, a patto che i talebani non offrano ospitalità a gruppi stranieri terroristici. L’Emirato Islamico dei talebani ha anche assicurato la sua intenzione a dialogare con la Repubblica Islamica presieduta da Ashraf Ghani, riconosciuta dagli Stati Uniti e i suoi alleati. Il governo afgano ufficiale è stato infatti escluso dai negoziati su richiesta dei ribelli islamici.

La Repubblica Islamica, definita dai talebani “burattino americano”, che fa capo ai cosiddetti “signori della guerra”, si è insediata in Afghanistan con l’occupazione americana del 2001. Sotto la spinta della NATO, i presidenti che si sono susseguiti al governo hanno cercato di avviare un processo di democratizzazione del Paese e garantire i diritti umani inscritti nella Costituzione del 2004 alla popolazione. I talebani non si sono mai mostrati aperti ad un dialogo con la Repubblica e hanno più volte tentato di boicottare le elezioni democratiche. La preoccupazione ora, dopo l’accordo con gli Stati Uniti, è che il controllo del gruppo terroristico sul territorio afgano, stimato al 45%, aumenti. “Concretamente, i talebani controllano tutto il paese. Basta pensare che oggi a Kabul si sentono liberi di camminare per le strade.” dichiara Luca Lo Presti a Scomodo, presidente di Pangea Onlus, organizzazione no-profit solidale nei confronti delle donne afgane. Gli esperti sostengono che il gruppo terroristico è oggi più potente che mai, anche per un maggiore logoramento. Come ribadisce a Scomodo il giornalista Emanuele Giordana, esperto di politica internazionale e di Afghanistan, “è chiaro che in periodi di guerra la possibilità di affermare i diritti diventa sempre relativa perché va in secondo piano al primo diritto, che è quello di sopravvivere. Se non ci fossero stati quarant’anni di guerra, forse i diritti delle donne sarebbero andati più avanti di dove si trovano ora.” Molti Afgani, infatti, stanchi di rischiare la vita ogni giorno da vent’anni, sono disposti a sacrificare le proprie libertà in cambio di una parziale tranquillità.

Il testo dell’accordo di pace tra USA e talebani è stato criticato per il suo linguaggio ambiguo, che prevede un ritiro totale dei soldati stranieri senza imporre un “cessate il fuoco” intra-afgano. “L’accordo di pace è una farsa: riporta i talebani al potere, dopo aver fatto loro guerra per venti anni” sostiene Laura Quagliuolo, contattata dalla redazione di Scomodo, fondatrice del Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afgane (CISDA), onlus che dal 1999 opera in Afghanistan a supporto delle donne e dei bambini. Il ritorno dei soldati stranieri in patria non segna l’inizio di un periodo di pace, ma di una nuova guerra, combattuta tra il gruppo terroristico e i signori della guerra, per il controllo del territorio afghano.

L’inconsistenza dell’accordo di pace mette in luce l’ipocrisia della politica estera americana in maniera ancora più evidente in relazione alla mancata garanzia di conservazione dei diritti fondamentali delle donne, che i talebani non riconoscono. Nelle zone controllate il gruppo terroristico impone infatti un sistema di leggi derivante dal codice tribale pre-Islamico Pashtun e dalla sharia, che nega qualsiasi libertà e autonomia alle donne e le considera esseri inferiori adibiti alla procreazione.

Dopo aver per anni ribadito l’impegno degli Stati Uniti nella promozione dei diritti delle donne afgane, la Casa Bianca, sotto imposizione di Trump, ha deciso di cambiare rotta per far ritornare al più presto i soldati in patria. L’amministrazione Trump tratta infatti la questione delle donne afgane come affare interno all’Afghanistan, liberandosi di qualsiasi responsabilità. Gli Stati Uniti “supporteranno qualsiasi accordo gli afgani raggiungeranno riguardo le future organizzazioni politiche e governative”, ha dichiarato la rappresentante americana per la riconciliazione in Afghanistan Molly Phee durante un evento del think tank United States Institute of Peace.

Trump è interessato a riportare i soldati americani in patria in tempo per la futura campagna elettorale a qualunque costo, anche sacrificando i diritti delle donne. “Spero che le donne [afghane] faranno sentire le loro voci ai loro leader.” Le parole del segretario di Stato USA Mike Pompeo in risposta alla senatrice democratica Jeanne Shaheen rivelano il disinteresse della Casa Bianca, nascosto da un falso ottimismo, sulla questione. Basta osservare l’evoluzione delle condizioni delle donne a partire dall’ascesa dei talebani per rendersi conto dell’ipocrisia del governo USA, che, relegando la questione come interna all’Afghanistan, ha di fatto chiuso gli occhi davanti ad una grande minaccia per i diritti umani.

Le donne in Afghanistan

I talebani ottennero il controllo dell’Afghanistan durante la guerra civile in seguito alla caduta del governo filo-sovietico nel 1988. La loro influenza nel territorio venne ufficializzata nel 1996 con la creazione dell’Emirato Islamico. Sotto il governo dei talebani, le donne afgane vivevano in totale sottomissione. Uno dei primi mandati dell’Emirato Islamico fu infatti di vietare loro l’accesso all’assistenza sanitaria, alle scuole e al mercato del lavoro. Le condizioni non erano delle migliori neanche per gli uomini, che rischiavano il carcere per una barba troppo corta. Per i comunisti e gli omosessuali era prevista la pena di morte.

Fino alla metà degli anni ‘90 la questione dell’oppressione femminile in Afghanistan non venne presa in considerazione dall’opinione pubblica occidentale. Solo con la visita del 1997 di Emma Bonino e l’incontro nel 1998 tra l’attivista afgana Sima Samar e il desk officer americano per l’Afghanistan, il problema riscosse voce mediatica. La loro richiesta alle Nazioni Unite di “fare tutto ciò in loro potere per aiutare a ripristinare i diritti umani fondamentali delle donne in Afghanistan” venne ascoltata dagli Stati Uniti solo in seguito agli attacchi del 2001. L’allora first lady Laura Bush dichiarò in un discorso alla radio l’impegno degli USA per il miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti afgani. “Ci si spezza il cuore per le donne e i bambini in Afghanistan, ma anche perché in Afghanistan vediamo il mondo che i terroristi vorrebbero imporre su di noi”. Di fatto, però, la condizione delle donne in Afghanistan divenne un mero strumento politico per ottenere il supporto della popolazione statunitense nella dichiarazione di guerra ai talebani. “L’America ha ha voluto occupare l’Afghanistan solo per le risorse minerarie e per la sua posizione strategica” dichiara Laura Quagliuolo. Non è quindi un caso che durante i negoziati del 2020 la questione dei diritti umani non sia stata trattata come punto cardine per la pace.

La condizione delle donne nella Repubblica Islamica, anche grazie a vari progetti come Afghan Women and Children Relief e United Nations Assistance Mission in Afghanistan (UNAMA), ha vissuto un notevole miglioramento. “Oggi (con il governo sostenuto dagli USA, ndr) possiamo camminare tranquillamente, senza il burqa e senza un uomo che ci accompagni” dichiara Maty Akrami Sahak a Cordaid, direttrice dell’Afghan Women’s Network (AWN). “Prima non c’era nessuna scuola per le ragazze.” Oggi infatti milioni di ragazze hanno accesso all’educazione. “Nell’affermazione dei loro diritti, le donne afgane hanno fatto dei passi da giganti. Negli ultimi vent’anni abbiamo visto donne al parlamento, direttrici di radio e giornali. Questo processo sociale sarà lungo, ma sta avvenendo ed è irreversibile” sostiene Emanuele Giordana. Come fa notare il Time, però, “nonostante i tentativi da parte del governo afghano e degli aiuti internazionali per educare le bambine, si stima che i due terzi delle bambine afghane non vadano a scuola. L’87% delle donne è analfabeta e il 70/80% è obbligato a matrimoni forzati.” Secondo Luca Lo Presti, il motivo è che “con la guerra del 2001 il rafforzamento dei diritti delle donne è avvenuto solo laddove le condizioni dettate dai signori della guerra, che controllano i vari territori, lo hanno permesso. Non è possibile fare una fotografia nazionale, l’Afghanistan è un puzzle scomposto. Persino nella capitale Kabul, la libertà di movimento per le donne esiste solo in determinati distretti. Le città tra di loro, e gli stessi quartieri, sono gestite diversamente, perché non esiste il concetto di Stato centrale: da sempre l’Afghanistan è dominato dai signori della guerra.”

Con la ritirata delle truppe americane, le (insufficienti) libertà raggiunte durante la Repubblica Islamica dell’Afghanistan sono in pericolo. Le forze straniere hanno deciso di sacrificare i diritti umani in nome della convenienza politica. “La condizione delle donne afgane è già ora veramente drammatica. Non gioca soltanto il fondamentalismo, ma anche l’assetto tribale della società afgana. Nelle società tribali tutti sono sotto controllo, e le donne più degli altri. Sposandosi, la donna si trasferisce a casa del marito, dove deve obbedire a lui e a tutti componenti della famiglia, sennò si innesca il meccanismo della violenza domestica. L’accordo di pace sicuramente non aiuterà le donne afgane ad uscire da questa situazione” dichiara Laura Quagliuolo.

Molte attiviste si sono mosse per garantire la partecipazione delle donne alla vita politica del futuro Stato afgano. “Dopo il regno oppressivo dei Talebani dal 1996 al 2001, le donne dell’Afghanistan sono uscite dall’oscurità. Non torneremo mai indietro”, afferma la direttrice dell’Afghan Women’s Network. Come fa notare Emanuele Giordana, l’impegno delle donne potrebbe non essere vano. “Il 20 maggio il leader dei talebani ha promesso la protezione dei diritti delle donne, anche se sotto la legge della Shariah. La dichiarazione va presa con le pinze, ma è un buon segnale. I talebani dovranno giungere ad un compromesso”.

L’AWN ha rivendicato il contributo delle donne nel processo di pace con gli USA e stilato una serie di richieste alle due parti del dialogo intra-afgano per garantire la tutela dei diritti umani. Le attiviste pretendono in particolare che sia assicurata la partecipazione delle donne pari al 30% nei negoziati tra i talebani e la Repubblica Islamica. Finora, però, dei 21 membri incaricati dalla Repubblica Islamica di condurre i negoziati con i talebani solo 5 sono donne.

Negli incontri tenuti nell’ultima settimana in Afghanistan per discutere del processo di pace, la presenza femminile è stata invece nulla. Il processo di emancipazione delle donne afgane, escluse dalla vita politica, rischia quindi di regredire. Con il termine “contratto sessuale”, Carole Pateman intendeva proprio questa dinamica. Le donne non partecipano agli accordi come soggetti attivi, ma come meri oggetti di discussione.

Articolo di Elena D’Acunto