Achille Lauro, ti vogliamo bene ma non basta

Le performance del cantante a Sanremo tra celebrazioni e critiche

Il 2 Marzo, la prima sera di Sanremo, mentre tutta l’Italia è ferma, incollata ai divani come ai mondiali, a guardare il Festival. Achille Lauro scende le scale vestito glamour come gli artisti degli anni Settanta del glam rock. L’intenzione è quella di dare inizio a un viaggio artistico e personale della durata di cinque giorni, come spiegherà sui suoi profili social. L’idea è quella di presentare dei “tableaux vivants”, tesi a una rappresentazione di cinque diversi generi musicali personificati e uniti a scelte stilistiche particolari e alla recitazione di una poesia. Tra gli effetti avuti il principale è stato quello di far impazzire i social – si sono registrati due picchi di oltre cinquemila tweet in un minuto nella quarta serata, il primo al momento del bacio con Boss Doms e il secondo al termine della sua esibizione – e i media più tradizionali.

Molteplici sono i personaggi che si sono espressi sulla questione, dai mondi più disparati. Rodolfo Sganga, comandante dell’Accademia Militare di Modena, sostiene che l’artista abbia ‘’offeso il tricolore’’; l’Associazione internazionale esorcisti, guidata da padre Francesco Bamonte, dichiara che le “esibizioni hanno leso la sensibilità di milioni di italiani e fedeli di tutto il mondo (..) veicolando immagini dove al sacro si mischia il demoniaco”; il vescovo della città di Sanremo pronuncia un anatema; Paolo Brosio lo definisce dissacrante; dall’altra, però, Rolling Stone scrive che “tutti vogliono essere come lui”; Vanity Fair lo mette sulla sua ambita copertina, vestito da icona religiosa mentre afferma che “assume sembianze femminili perché la donna è l’estremo simbolo di libertà” e, last but not least, Gasparri decide di citarlo in giudizio per l’utilizzo della sua voce “in modo decontestualizzato”, avendo usato uno spezzone di una sua intervista in una delle performance.

Molto spesso le sue esibizioni vengono caritate di un ulteriore significato: viene dato un forte messaggio politico che non c’è. Alcune sue dichiarazioni come “sono la scossa nel perbenismo famigliare, promessa di piacere” o “sono sessualmente tutto e genericamente niente” sono pervase di ammiccamenti a tematiche politiche, però non vanno mai oltre l’uscita sensazionalistica. Criticare la “vaghezza” delle sue dichiarazioni non significa invalidare le identità fluide e/o non binarie. L’intento non è quello di tracciare una linea che limiti la libera definizione di ognuno, inclinazione che alcune persone bisessuali denunciano essere atteggiamento addirittura all’interno della stessa comunità LGBT, ma semplicemente sottolineare lo scarso significato della definizione quando viene posta senza una contestualizzazione.

Si aprono allora le danze della discussione sulle performance di Achille Lauro. Pillon, senatore della Lega, definisce il festival come ‘’un ossessivo gay pride invaso da baci omosex, sermoni sulla bellezza della transizione sessuale, continuo ammiccamento LGBT, divetti trash che si impiumano e bestemmiano la religione cristiana’’, addirittura un ‘’megafono per le follie gender’’- praticamente – un festival da sogno, in linea con i migliori festival europei. Peccato che non sia stato così. Innumerevoli sono stati invece gli ormai rinomati “scivoloni” sessisti del Festival: dal monologo di Barbara Palombelli che millanta un Paese meritocratico in cui solo le “vere donne” emergono, fingendo che il tetto di cristallo serva solo per specchiarsi e sistemarsi il filo di perle al collo, fino alle battutine sottili – e nemmeno troppo – di Ibrahimovic che avrebbe svuotato l’Ariston tranne che delle ragazze dell’orchestra, perché – si sa – le donne fanno atmosfera.
È in questo contesto che Achille Lauro, senza mai essersi espresso in merito alla cultura queer da cui trae evidentemente spunto, diventa per l’ala più conservatrice, e sfortunatamente non solo, un’icona di trasgressione, un pazzo paladino della comunità LGBT, addirittura pericoloso.
Per altri, invece, risulta all’inverso comodo, perché in fondo non fa male a nessuno e anzi va anche bene un po’ a tutti poiché, tanto, quando scende dal palco, la smette con queste rivendicazioni apparenti e lo si può trovare in camicia e cappellino a fare gli spot per la Maserati (pubblicati proprio lo stesso martedì della presentazione a Sanremo) e a scherzare con Ibrahimovic su chi avrebbe più successo ad una festa con le ragazze, così che tutto possa finire in una risata e riprendere il giorno dopo a Uno Mattina, descritto dalla stessa Rai come un programma di “intrattenimento leggero e coinvolgente”. Il carattere spensierato di Uno Mattina, infatti, riflette la natura delle performance dell’ospite, che non vogliono essere altro che leggere e coinvolgenti ma, al tempo stesso, tremendamente iconiche.

Achille Lauro diventa tutto questo senza portare avanti nessuna istanza, soltanto indossando dei vestiti Gucci, che invece di rivendicazioni con Alessandro Michele – direttore creativo – ne porta avanti. A partire dalla sezione genderless presente sul sito, che come dichiara ‘’è uno spazio pensato per tutte e tutti con capi indossati da modelli e modelli che hanno scelto di non definirsi’’, si pone come esito definitivo del percorso intrapreso da Gucci negli ultimi anni la fluidità di genere come priorità, e la mette al centro delle sue collezioni. Che questo possa essere definito come politico, rivoluzionario o rainbow washing, la strategia di marketing indirizzata a presentare una realtà come gay-friendly allo scopo di aumentarne il consenso presso il pubblico, è almeno definibile qualcosa di esposto e preciso, che può trovare consensi o meno, ma che a differenza di Achille Lauro si pone in un discorso autonomo e non è posto da qualcun altro a fare da icona. Lauro piace e le sue performance sono belle quando restano performance ma problematiche quando vogliono significare quello che, senza un discorso che crei contenuto, non può significare. Non basta indossare “occhiali da donna” per essere una donna; basta forse per essere trasgressivo o vendersi come un artista libero da tutto quello che comporta la mascolinità tossica, ma fare di questo un’identità è un passo oltre, che per Achille Lauro è più semplice non fare.

 

Queerbaiting?


Uno dei primi magazine ad aprire il dibattito è Quid, piattaforma di informazione LGBT, che scrive: ‘’(Achille Lauro) non ha inventato niente, anzi condensa nelle sue performance anni di sottocultura ed estetiche queer, con il primato, certo, di aver fatto breccia in un certo tipo di intrattenimento nazionalpopolare, di essersi ritagliato la possibilità di coprire la quota queer (o freak?) della serata tv più vista dell’anno’’. L’identità, perché quando si parla di mondo queer si parla di identità e non di vestiti da usare per una serata, rischia così di essere ridotta a un gioco, un’esibizione, un abito che ‘’un artista folle e geniale’’, come Lauro è stato più volte definito dalla stampa, può utilizzare per esprimersi a suo piacimento per poi posare nell’armadio, a discapito di chi l’identità se la porta addosso ogni giorno e non ha il privilegio di non potersi definire, o di definirsi solo quando il suo intrattenimento o il suo scalpore porta a un guadagno economico.

Ugo, attivista napoletano del collettivo Assembramentah, dice: ‘’Penso che la sua funzione sia importante nella trasmissione di alcuni concetti che gli altri non si sarebbero posti, come la decostruzione dei ruoli di genere e la rivendicazione di un sentire se stessi che sfugga alle strutture’’. Come fa notare la professoressa di Gender Studies dell’Università di Bologna Ilaria Pitti, ‘’per capire quello che Lauro fa, lo spettatore sanremese, (penso a mia madre 70enne) non può contare su Amadeus (che non dice nulla), non può contare sui TG o i giornali (che non dicono nulla), non può contare sulle trasmissioni di commento (che non dicono quasi nulla)… non può, insomma, contare su nessun canale comunicativo immediato e accessibile. La mancanza di una spiegazione immediata e accessibile demanda allo spettatore il compito di cercare quella spiegazione, aumentando il rischio che non la cerchi proprio, non tanto perché necessariamente ostile, ma semplicemente perché “distratto”,“pigro” o distante dai canali comunicativi o dalle persone che potrebbero fornirgli quella spiegazione.’’ Ed è proprio in merito alla incompletezza del messaggio politico e artistico di Achille Lauro, che guadagna sulla fumosità delle sue messe in scena, che si esprime l’attivista Ugo a cui l’artista fa “storcere il naso”, perchè “la cultura queer che lotta per mettere in discussione la norma patriarcale non può sorridere quando le rivendicazioni sono svilite a mercificate per suscitare sdegno e biasimo. Le nostre esistenze non conformi non è giusto che siano né santificate né martirizzate’’.
Mattia Giuntini, artista e attivista milanese, spiega come già alle performance dell’anno scorso non si fosse proprio entusiasmato e di come diventa difficile dire la propria quando le proprie argomentazioni si devono calare in un contesto sociale in cui le critiche sono “siete troppo sensibili a questi argomenti”, come se per l’ennesima volta il passo indietro dovessero farlo chi è stereotipato e non chi perpetua lo stereotipo. Chi vuole esprimere la sua opinione da diretto interessato si trova di fronte a un “non vi va bene mai niente” reso più dolce, ma non per questo meno frustrante.

Biagio Ciccone, musicista e attivista, dice di ‘’essere contento perché Achille Lauro prepara un pubblico più vecchio a delle esibizioni che saranno sempre più presenti nelle scene italiane’’, ma anche che ‘’sta trattando l’identità come una provocazione. E allora se ne sta approfittando come di un costume. Perché un ragazzo eterosessuale che fa queste cose viene visto come provocatore e artista mentre un ragazzo gay che fa le stesse cose ‘’vo fa sul a femmena’’, vuole solo fare la ragazza?’’.

‘’Se un uomo cisgender decide di farsi carico di una battaglia culturale contro gli stereotipi di genere, siamo tutte e tutti felici’’, scrive sui suoi profili Pietro Turano, Consigliere Nazionale Arcigay, ‘’ma pensare che per attivare questi processi sia necessario appropriarsi di una cultura a cui non si appartiene diventa pericoloso: innanzitutto rafforza molti stereotipi anziché scardinarli, e nel frattempo sottrae impropriamente spazi a chi ha difficoltà nel prenderseli’’.
È bene notare, riferito a questo, come in due video di Achille Lauro, Bam Bam Twist e Maleducata, compaiono nei cast persone queer. Se di per sé potrebbe sembrare una cosa positiva, questa scelta nasconde un problema: in entrambi i video i personaggi in questione rimangono costantemente un elemento di sfondo, quasi per tutto il video fuori fuoco o inquadrati e inquadrate da dietro o al buio, scelte che sembrano tesse all’ennesimo occhiolino alla comunità LGBT, sfruttando la possibilità di arrivare a un pubblico più aperto e progressista, senza però mai dare reale visibilità ad artisti e artiste queer.

 

Grazie comunque?



Rimane che Achille Lauro ha centrato l’obiettivo: intrattenere e far parlare di sé. E il suo modo libero di esprimere la propria identità, al di là degli stereotipi di genere, è apprezzato da moltissime persone, anche all’interno della comunità queer. Su un palco come quello dell’Ariston, da sempre fortemente tradizionalista, vedere messo in scena un matrimonio tra due uomini è liberatorio e dà speranza. Marika, ragazza lesbica di 17 anni, racconta, riferendosi a una delle performance di Achille Lauro durante il festival di Sanremo dell’anno scorso: “Ero seduta sul divano con la mia famiglia: mia madre, mio padre e mio fratello. Quando sul palco Achille Lauro ha baciato Boss Doms (produttore che collabora con Lauro, ndr), mia madre ha subito iniziato a dire che non capiva perché, se lui voleva baciare un altro uomo, dovesse farlo davanti a milioni di persone che non ne volevano saperne nulla. Da lì si è aperta una discussione molto più ampia e alla fine lei aveva un atteggiamento molto più aperto e ci ha ringraziati. Non avevamo mai parlato di quelle tematiche in famiglia. Averlo fatto mi ha permesso di affrontare con meno paura il coming out con loro qualche mese dopo”. Luca, ragazzo trans di 27 anni, dice: “Sono felice della presenza di Achille Lauro nella televisione italiana, secondo me ci sono troppi dibattiti inutili e controproducenti. Ci dobbiamo chiedere solo una cosa: la sua presenza aiuta nella lotta al patriarcato? E la risposta è sì. Basta divisioni e ricordiamoci che il nemico è uno solo e lo sconfiggeremo solamente se siamo tutti e tutte uniti”.

Al di là di tutte le polemiche e i linciaggi interni alla comunità che ci sono stati, è importante vedere come la comunità riesca a problematizzare determinati argomenti e “a far nascere dei momenti di riflessione che in fondo fanno bene a tutte e tutti, a priori delle personali opinioni’’, continua Mattia, ‘’momenti che rendono più semplice prendere posizione.’’

È innegabile che una carica rivoluzionaria in quello che Achille Lauro fa c’è, e si manifesta tutta nel suo smantellamento dei ruoli di genere. Il rischio, purtroppo, è che senza una presa di posizione politica, le sue performance rimangano confinate nel perimetro dello scalpore mediatico, senza che ci sia effettivamente un cambiamento di paradigma e che lui, approfittando del privilegio di potersi non definire, ricavi profitto sfruttando un’identità queer che non gli appartiene, o a cui, per ora, ha scelto di non associarsi pubblicamente. ‘’Il rischio che le performance di Achille Lauro possano rafforzare stereotipi o, semplicemente, essere interpretate come mera eccentricità da un pubblico disattento e/o non sensibilizzato alla prospettiva queer certamente esiste, ma il problema non è ovviamente Achille Lauro’’, spiega la professoressa Ilaria Pitti, ‘’Lauro, nella mia opinione, svolge in modo convincente il suo ruolo di artista; ruolo che, socialmente, non lo obbliga a dare una spiegazione. Il problema sta in tutto quello che c’è “intorno” ad Achille Lauro”.

E intorno ad Achille Lauro ci siamo noi, spettatori paganti di uno spettacolo che dobbiamo capire prima di giudicare. E sì, sono necessari degli strumenti per interpretare le performance di questo artista, per non rischiare di celebrarlo per qualcosa che vorremmo fosse o demonizzarlo per qualcosa che non è: un’icona queer. Mentre rimaniamo incollati al sangue finto che sgorga prima dai suoi occhi e infine dalle rose incollate al suo petto sulle note di “C’est la vie”, chiediamoci se alcune volte è impossibile scindere la musica dalla politica. E se, detto questo, non vada fatta nel bene e nel rispetto di tutte e tutti.

*Disclaimer: Stiamo facendo un percorso di inclusività linguistica che porterà presto all’utilizzo del fonema o di altro, ma vogliamo farne uso solo dopo una presa di posizione ufficiale da parte di Scomodo stesso. Speriamo di essere stati rispettosi di tutte le persone che abbiamo intervistato e che hanno contribuito alla realizzazione di questo articolo.
Articolo di Cecilia Pellizzari, Mafalda Maria Solza e Geremia Trinchese