Lezioni di afrosurrealismo

Capire cosa significa essere neri, oggi, in America, con tre piccoli capolavori cinematografici

Un video da 8 minuti e 46 secondi di interminabile agonia. Le piazze piene di pugni alzati. Lacrimogeni. Commissariati e camionette in fiamme. Gli spari sui manifestanti. Statue imbrattate e distrutte. L’assedio alla Casa Bianca. Il presidente in un bunker. 

Non è la trama di una distopia da episodio di Black Mirror, ma nient’altro che la realtà. Nel caso della vicenda di George Floyd e dell’esplosione a catena da essa innescata, la realtà supera di gran lunga le nostre capacità di categorizzarla, tanto che ci risulta difficile afferrarla totalmente. Un’osservazione lucida e distaccata del razzismo sistemico connaturato alla società americana, spesso non basta a farci comprendere a fondo il fenomeno. A volte per raccontare e comprendere la realtà, abbiamo bisogno di estraniarci totalmente da essa. E’ proprio questa l’idea dietro ad una tendenza espressiva che negli ultimi anni si è fatto strada nel dibattito culturale del cinema americano: l’afrosurrealismo. Il suo obiettivo è sviscerare in profondità la condizione dei neri in America attraverso elementi surreali, onirici, che deviano dalla normalità. E’ un modo alternativo di trattare la tematica razziale, che trova la sua controparte nel realismo quasi documentaristico di titoli come Prossima Fermata: Fruitvale Station di Ryan Coogler (2013) o la miniserie When They See Us di Ava DuVernay (2019). Si potrebbe pensare che il metodo realistico sia più efficace nel rappresentare un fenomeno sociale come il razzismo: abbiamo bisogno di vedere le cose come stanno, con una narrazione che non lasci spazio all’immaginazione. Ma il problema è che gli schemi di pensiero discriminatori sono così radicati nella nostra società, che osservarli normalmente non serve a farci interiorizzare i loro meccanismi malati. Serve un approccio che ci faccia guardare le cose con occhi diversi. L’afrosurrealismo è la ricerca di questo approccio, e nel suo canone rientrano tre grandi successi di critica: Get Out, horror di Jordan Peele (2017), Sorry To Bother You, film d’esordio di Boots Riley (2018), e Atlanta, serie tv ideata e interpretata dal poliedrico genio di Donald Glover, in arte Childish Gambino. 

Get Out inizia come una commedia romantica qualunque: Chris, afroamericano, va a passare il weekend nella casa di famiglia della fidanzata Rose, bianca, per conoscere i suoi genitori. La famiglia rispecchia lo stereotipo dei borghesi liberali americani, entusiasti di Obama, che vedevano nell’elezione del primo presidente nero l’avvento di un’era post-razziale in America. Proprio in questo ambiente apparentemente amichevole e aperto si annida la minaccia per Chris: in famiglia di Rose le persone nere vengono attirate, ipnotizzate, per poi impiantare in loro il cervello degli anziani della famiglia. La svolta propriamente horror del film avviene solo nella parte finale, mentre per più di metà si costruisce una tensione angosciante. I continui tentativi della famiglia di Rose di mostrare a Chris quanto non siano razzisti e quanto lo accettino non fanno che alienarlo ancora di più. Poi il protagonista percepisce il pericolo dalle prime anomalie: i parenti di Rose si mostrano fin troppo affascinati dalla prestanza fisica e sessuale del ragazzo, e si proclamano amanti della cultura “black”. Chris, come tutti i neri, non è più una persona, ma un oggetto da collezione, la cui identità è definita esclusivamente dalla percezione dei bianchi. Questo processo di silenziamento della propria identità per adattarsi all’ambiente, da psicologico diventa fisico quando Chris viene sottoposto all’ipnosi. La sua mente viene separata dal corpo ed è costretto a osservarsi vivere dall’esterno. L’effetto è terrificante, ma la via d’uscita c’è, altrimenti il titolo non sarebbe stato Get Out (Scappa): Chris si libera in una sequenza di scene estremamente simboliche. Ad esempio si tappa le orecchie con il cotone della poltrona, emblema dei secoli di schiavitù nei campi degli stati del Sud, e uccide il trapiantatore con una palla da bocce, il gioco preferito dagli anziani bianchi in pensione. La vita d’uscita è quindi l’affermazione fiera e senza compromessi della propria identità, che la cultura dominante tende a sopprimere. 

La rinuncia all’autenticità è anche il tema di Sorry To Bother You: “Scusi il disturbo” è la frase pronunciata da Cassius, giovane afroamericano, all’inizio delle sue chiamate. Lavora in un call centre, e riesce a fare carriera solamente imitando la voce dei bianchi, l’unica che gli permette di non farsi attaccare in faccia. Accede ai vertici della società, ma compromettendosi moralmente: recluta forza lavoro per la WorryFree, azienda che di fatto schiavizza i suoi dipendenti promettendogli vitto e alloggio in cambio di un contratto a vita. Cassius è drogato dalla scalata sociale fine a se stessa, pur credendo di fare ciò che fa per avere una vita più agiata. Se fin qui siamo nei canoni di una commedia, la pellicola sfocia nel grottesco quando Cassius scopre che la WorryFree sta trasformando geneticamente i suoi dipendenti in ibridi uomo-cavallo, gli “equisapiens”, per renderli più produttivi e obbedienti. La comicità demenziale, e la piega sci-fi che prende il film, sono il personalissimo linguaggio sopra le righe che il regista si costruisce per scagliare la sua critica contro le derive assurde del capitalismo del terzo millennio, la cui realtà spesso ci lascia più interdetti di quanto non faccia un uomo-cavallo. 

Atlanta invece racconta la vita quotidiana di Earn (interpretato da Glover) espulso dall’università di Princeton, rimasto al verde e senza una casa, che cerca di svoltare reinventandosi come manager di suo cugino, un rapper emergente. Glover ha definito la serie “Twin Peaks coi rapper”: infatti, come le migliori opere lynchiane, Atlanta è un susseguirsi di situazioni assurde, sovrannaturali o personaggi improbabili. E’ il caso dell’episodio Nessuno Batte Bieber, in cui ad una partita di basket fra celebrità si presenta Justin Bieber, che si comporta esattamente come Justin Bieber, solo che è nero. Dopo aver scatenato una rissa sul campo, si scusa pubblicamente cantando una canzone: un evidente riferimento a ciò che è realmente accaduto con la canzone Sorry. Dopo la risata iniziale, arriva la riflessione: la nostra cultura perdona il comportamento negativo delle celebrità bianche e demonizza quello dei neri? Nello stesso episodio Darius, amico di Earn, il più surreale tra i personaggi, si reca al poligono di tiro e spara a un bersaglio che raffigura un cane. Accusato di essere un depravato, viene cacciato, lasciando gli altri tiratori liberi di sparare ai loro bersagli umani senza la disturbante immagine dell’uccisione di un cucciolo. O ancora, ne Il Talk Show si racconta la storia di un ragazzo nero convinto di essere un trentenne bianco, e determinato a fare un’operazione di riassegnamento della razza, trattando quest’ultima come il gender nel dibattito contemporaneo. Tutto ciò diventa ancora più assurdo quando il ragazzo si dichiara nettamente contrario ai diritti degli omosessuali. La storia è ispirata alla vicenda reale, ma opposta, di Rachel Dolezal, una signora bianca che si identificava come nera. Se in Get Out e Sorry To Bother You, l’assurdo crea un’atmosfera inquietante, in Atlanta spesso si carica di humor. Un umorismo particolare, quello tipico della observational comedy, in cui il surreale non è altro che una versione distorta della nostra realtà, uno strumento per osservarla con occhio critico. Lo spettatore è catturato e divertito dalla stranezza che diverge dalle nostre aspettative logiche, ma allo stesso tempo arriva anche altro: dopo l’ironia c’è il cinismo, la verità nuda, cruda e fastidiosa. La risata, in molti casi, è accompagnata da un retrogusto amaro, come nel finale della seconda stagione: l’episodio Granchi Nel Secchio. Prima di lasciare gli Stati Uniti verso un tour europeo, Earn dimentica di rimuovere una pistola dal suo zaino. Ne va del suo lavoro e del benessere della sua famiglia; al check-in in aeroporto decide di nasconderla nella borsa di un altro rapper, Clark Country, che a sua volta la sposta nel bagaglio del suo manager, fermato ai controlli. La morale? Un nero per emergere deve affondare gli altri, come fanno i granchi intrappolati nel secchio. Mors tua, vita mea. Ecco allora che la situazione assurda manifesta un nesso diretto con il nostro mondo, in tutte le sue brutture. 

Proprio questo uso del surrealismo è il denominatore comune di questi titoli. Per comprenderlo a fondo, si può fare ricorso a una definizione data da Andrè Bretòn, maggior teorico del surrealismo francese: il surrealismo è “automatismo psichico puro, volto a svelare il vero funzionamento del pensiero.” Un tale approccio, non è solo uno strumento artistico, ma anche politico. L’utilizzo di immagini che ricadono al di fuori delle nostre assunzioni sulla realtà, serve ad esporre cosa accade realmente al livello personale e sociale. Il nonsense, lo strano, ciò che è fuori dall’ordinario, interrompe il flusso abitudinario di pensieri attraverso cui incaselliamo la realtà, portandoci a riconsiderarla sotto una nuova luce. Dopo l’iniziale straniamento, lo stato confusionale si trasforma in una rivalutazione della nostra prospettiva: vediamo dunque il mondo da una diversa angolazione, superando i nostri filtri sociali o culturali e i pregiudizi. Donald Glover ha espresso in estrema sintesi questo concetto spiegando l’idea dietro la sua serie: “Lo scopo dello show era di mostrare alla gente come ci si sente a essere neri. Ed è difficile metterlo per iscritto… bisogna sentirlo.” E si sente forte e chiaro. 

 

 

Articolo di Davide De Gennaro