L’impatto della guerra in Ucraina sull’agroalimentare italiano

23/03/2022

Tra le ripercussioni aspecifiche di una guerra, a fianco di intere popolazioni in fuga e alla ridefinizione dei confini, l’import e l’export di materie prime da e per altri stati gioca un ruolo fondamentale per compilare la lista dei vincitori e dei vinti. Se da un conflitto tanto esteso come quello russo-ucraino, poi, affiancato già dall’ombra del cambiamento climatico, del caro energia e della pandemia, si palesa una crisi da scarsità agroalimentare, allora un ripensamento della sovranità alimentare è d’obbligo.

L’agroalimentare italiano, una storia complessa

In questi giorni, sulla scia del conflitto nell’Europa dell’Est, si sta generando una corsa all’ultimo chicco in molti paesi, come l’Indonesia, che hanno troncato le esportazioni in previsione del collasso del sistema agricolo. Non è da meno, per restare più vicini a noi, l’Ungheria, da cui proviene il 35% del mais consumato in territorio italiano.

Il fenomeno, come si può immaginare, non tocca solo il Belpaese e non si potrebbe spiegare senza una panoramica a 360 gradi: Mosca e Kiev rispondono infatti al 30% della domanda globale di grano tenero, fino al 90% in Medio Oriente. Solo l’Ucraina rappresenta il 12% delle esportazioni mondiali di grano e il 16% di mais. Non è finita: prima dello scoppio del conflitto, Kiev copriva da sola il 50% della produzione di olio di girasole, chiave per le amate fritture. Ad ogni modo, il principale cliente delle esportazioni di agroalimentare ucraine rimane l’Europa, con un fatturato di 5,4 miliardi di euro nel 2020.

Dunque, la combinazione tra dipendenza globale delle materie prime russe e ucraine e l’instabilità dei mercati a seguito delle sanzioni hanno dato vita ad un severo rincaro dei prezzi.

L’Italia, in particolare, sconta oggi la dipendenza di grano tenero, duro e mais dagli approvvigionamenti esteri, rispettivamente circa 60%, 35% e 53%, “che espone particolarmente il nostro Paese alle turbolenze dei mercati internazionali” si legge in un rapporto dell’ISMEA (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare). Anche per l’olio di girasole, per esempio, dei 405 mln di euro importati dall’Italia nel 2020, ben 205 mln provenivano dall’Ucraina.

Da questa mancata sovranità alimentare l’effetto a cascata più visibile che consegue è il repentino aumento dei prezzi dei prodotti finiti come pane e pasta. Si cela tuttavia una seconda verità dentro l’armadio, che dovrebbe preoccuparci. L’approvvigionamento estero italiano rispetto alle materie prime, infatti, viene indirizzato in gran parte all’alimentazione animale: importiamo circa 3 milioni di tonnellate di mais per sostenere gli allevamenti intensivi, corrispondenti a circa 300 mila ettari in più di coltivazione in territorio italiano se volessimo soddisfare autonomamente tale domanda. Tutto questo si traduce non solo in un aumento dei prezzi, che pure sono gonfiati dal sistema speculativo della borsa e dei mercati, ma anche e soprattutto in uno scenario ben più critico.

Si prospetta un abbattimento di “8,5 milioni di maiali, 6,4 milioni di bovini, oltre 6 milioni di pecore e centinaia di milioni di polli e tacchini” avverte Ettore Prandini, presidente di Coldiretti. “È a rischio un allevamento su quattro”. Inoltre, l’allarme dell’Associazione Nazionale tra i Produttori di Alimenti Zootecnici (Assalzoo) su un potenziale “crollo delle produzioni alimentari di origine animale, come carni bovine, suine e avicole, latte, burro e formaggi, uova e pesce” scuote i già fragili equilibri interni del mondo agroalimentare italiano. 

Scavando nelle cause del fenomeno in questione emergono risultati allarmanti.

Il prezzo del grano tenero, grano duro e mais, rispettivamente fondamentali per pasta, pane e mangime per animali hanno raggiunto durante il conflitto in Ucraina un picco di prezzi superiore alla crisi del 2008. Tuttavia negli ultimi giorni, informa Coldiretti, il prezzo del grano è già risceso più dell’8%. Come è possibile un sali e scendi tanto rapido quanto caotico? Decisamente, si tratta di fluttuazioni non legate solo alla guerra. 

Sarebbe erroneo addebitare meramente ai conflitti geopolitici in corso la causa della crisi agricola, tralasciando il ruolo da protagonista che gioca la speculazione – a fianco di fattori congiunturali e strutturali. Inoltre, le ripercussioni variano da prodotto a prodotto, inserendo questa crisi agricola, in corso già dal 2007 secondo l’ISMEA, all’interno di un insieme complesso di fattori. Nel cuore dell’escalation dei prezzi, trovano ampio spazio le “operazioni speculative in derivati”. Ne sono un esempio i cosiddetti futures, dei contratti finanziari in cui le parti stipulano un prezzo di una commodity che venderanno/acquisteranno in futuro, una sorta di garanzia che gli evita il rischio di oscillazione dei prezzi. Ma in realtà, sempre più spesso questi titoli sono aperti e chiusi in pochi minuti, generando così un gap tra le materie prime e la bussola che ne orienta il prezzo, il borsista. Il gioco, non essendo più svolto nel classico campo fisico della domanda-offerta, diviene azionario e finanziario. Ne consegue, la paradossale capacità dei futures di influenzare direttamente l’economia reale e i prezzi delle materie prime, che iniziano a seguire i prezzi stabiliti in borsa – soprattutto a Chicago. Questa forma di speculazione non è nuova: già durante la crisi finanziaria del 2008 era stato coniato il termine “barili di carta” a spiegazione di come, per ogni barile di petrolio trattato con i prezzi reali, per almeno cento la decisione del prezzo avvenisse tramite strumenti speculativi. 

Tali dinamiche si stanno riproducendo soprattutto nel caso del frumento tenero, quotato sui mercati mondiali di futures che lo rendono da un lato l’ago della bilancia in grado di condizionare anche altre materie prime, dall’altro alimentano la sua instabilità in merito al prezzo. L’Italia necessita il 65% del grano tenero consumato da paesi terzi. 

L’Italia produce solo il 60% del grano duro che consuma, e subiva già la riduzione del 60% dell’export di grano canadese, dovuto all’enorme siccità registrata nel 2021. Per l’ennesima volta, questo ci dimostra quanto le conseguenze dei cambiamenti climatici siano devastanti su una filiera agroalimentare globale iperconnessa: la siccità canadese e la sua riduzione di export, ha fatto precipitare del 24,5% le scorte globali di frumento duro.

Per quanto riguarda il mais, principale cibo per gli allevamenti intensivi, l’Italia ne produce circa la metà della domanda. Il caso mais è deviato anche dall’epidemia di peste suina che ha aumentato la domanda di Pechino, oltre che, ovviamente, lo scoppio del conflitto a Kiev, con l’Ucraina che ci fornisce il 13% del nostro fabbisogno.

Aumento dei prezzi delle materie prime e cicatrici ancora aperte (principalmente dalla pandemia) ci portano indietro nel tempo fino al 2010-11, anni in cui le stesse circostanze generarono le Primavere arabe. Se l’autonomia delle scorte del Libano è di un mese, quella dell’Italia di 20 giorni, come si previene l’escalation della crisi? 

Ed ora? Le possibili alternative per l’agroalimentare

Il governo Zelensky ha promesso una spinta alle esportazioni pari a 33 tonnellate in più di mais e 23 di grano tenero. Data la situazione che coinvolge direttamente l’Ucraina al momento, nessuno Stato sembra credere in questa promessa e adotta misure tempestive, come si è detto.

Per scongiurare la crisi in Italia si fa avanti l’alternativa a lungo termine per eccellenza: una generale rilocalizzazione dei poli produttivi. In altre parole, un’occasione per rivalutare una minore dipendenza italiana da mercati agricoli terzi. Ridurre lo spostamento di materie prime interromperebbe gli ingranaggi dell’incontinente e dannosa competizione che negli ultimi decenni ha spinto paesi come il nostro a cercare all’estero il prezzo migliore: in 15 anni l’autosufficienza italiana dal mais si è ridotta del 50%, per esempio. Tra le molteplici proposte discusse a seguito dell’allarme dal mondo agroalimentare ovviamente risalta la riduzione degli ormai massicci allevamenti intensivi.

A breve termine, l’unico sentiero percorribile è girare lo sguardo verso l’altro lato del globo: gli Stati Uniti, tanto per cambiare. In ogni modo, non si tratta di una soluzione attuabile a strettissimo giro, date le tempistiche per il trasporto che oscillano dalle 3 alle 8 settimane. A ciò si aggiunge anche il vertiginoso aumento dei costi del trasporto stesso nella fornitura e nolo dei container a seguito della ridotta circolazione dei marittimi russi ed ucraini.

L’ingenua reazione italiana

Neanche una guerra, tuttavia, è bastata a Roma per comprendere ed accettare il valore dell’autosufficienza e la produzione locale. «La politica agricola europea – ha commentato Draghi durante un incontro con il Ministro delle Politiche Agricole Stefano Patuanelli – non consente di aumentare facilmente la superficie coltivabile e dovrà essere riconsiderata. Viviamo un periodo di emergenza e il contesto regolatorio che ci ha finora accompagnato va rivisto».

Stiamo quindi rischiando che lo stato accantoni gli obiettivi climatici al 2030, firmati e accettati in varie sedi, per buttarsi sulle stesse politiche miopi che ci hanno condotto per mano fin dentro questa situazione: dal comparto energetico fino a quello agroalimentare, passando per molti altri, l’Italia è diventata totalmente dipendente da potenze estere, tagliando tutta (o quasi) la produzione in proprio e adeguandosi, laddove qualcosa sul territorio rimane, a politiche che vanno solamente ad incrementare i guadagni di grandi lobby che producono ad un prezzo ambientale altissimo e lasciandoci un prodotto finito nemmeno lontanamente qualitativamente soddisfacente. Esattamente come per il caso di gas e carbone: l’Italia è il sesto paese per volumi di scambi con la Russia e il secondo più grande importatore di gas russo in Europa, e piuttosto che puntare tutto quello che ha sulle rinnovabili, assicurandosi una reale indipendenza energetica, sta dando il via alla costruzione di rigassificatori, per importare gas da altre rotte.

Per tornare all’agroalimentare, la tanto acclamata e richiesta “revisione” della PAC (Politica Agricola Comune Europea) stessa, altro non è che l’eliminazione dei vincoli ambientali in essa contenuti: l’eliminazione delle norme per la riduzione di pesticidi e fertilizzanti chimici e la totale eliminazione delle quote di superficie agricola da tenere “a riposo”, che già ad oggi ammontano drammaticamente ad un misero 3%.

Per avere qualche dato di riferimento, negli ultimi 40 anni abbiamo perso a livello mondiale un terzo delle terre produttive a causa dell’agricoltura intensiva, e per creare 2,5 centimetri di suolo nuovo, la natura impiega non meno di 500 anni.

Abbiamo uno spreco annuo dei soli produttori dell’agroalimentare – che lasciano i prodotti nei campi senza raccoglierli o scartano prodotti perfettamente commestibili, ma non conformi agli standard di dimensione ed estetica del mercato – pari, in controvalore, a 750 miliardi di dollari: il PIL svizzero

Abbiamo veramente bisogno che quelle pochissime terre lasciate a riposo, essenziali per specie selvatiche come uccelli, farfalle, api e altri insetti fondamentali per l’agricoltura e gli ecosistemi vengano totalmente eliminate?

La revisione richiesta alla politica agricola europea è totalmente sconsiderata e distante dall’idea iniziale per la PAC (ovvero un insieme di regolamenti che avrebbe dovuto garantire la messa in atto delle strategie Farm to Fork e Biodiversità), che per rincorrere lo spreco pare voler permettere qualsiasi cosa: a danno di quasi tutti, tra cui i piccoli produttori realmente ecologici, che escono dal mercato. Perché l’allevamento intensivo, tra le altre cose, alza il prezzo del cibo aumentando, come stiamo vedendo in questi ultimi giorni, il prezzo dei cereali (⅓ della produzione mondiale di cereali viene infatti destinata all’alimentazione del bestiame “industriale”).

Quella proposta dal consiglio straordinario dei Ministri dell’Agricoltura europei, è inoltre una politica che, nemmeno a dirlo, va a danno degli animali, dell’ambiente e del consumatore: che pur di comprare al minor prezzo, involontariamente (ricordiamo che ancora manca una reale regolamentazione comune sul tracciamento dei prodotti alimentari nelle etichette) acquista prodotti agricoli finiti che sono stati coltivati in modo altamente dannoso per la propria salute

E chi guadagnerebbe realmente su una deregolamentazione ulteriore della PAC? La potente lobby Copa-Cogeca ad esempio, che riunisce le associazioni agricole di categoria e le cooperative dell’agroalimentare dei 27 paesi europei. Che si era già opposta, per altro,  al vincolo iniziale della PAC del 10% di superficie agricola da lasciare incolta su ogni terreno arabile, e su cui infatti, l’EU ha retrocesso fino al 3%.

Nonostante questo, per quanto eticamente sbagliata, potrebbe sembrare necessaria una deregolamentazione ambientale a favore di una produzione maggiorata, in un momento problematico come quello creato dall’invasione Russa del “Granaio d’Europa”. 

Non fosse che l’Ucraina tutto sommato non è affatto il granaio d’Europa, con il suo 6% di export di grano in EU: e soprattutto non è certo il granaio d’Italia, con un export di grano verso il nostro paese dell’1,68%.

Insomma, per quanto una guerra fratturi imprevedibilmente – o quasi – degli apparenti equilibri, lo stato emergenziale non può essere sufficiente per strozzare la transizione ecologica, già debole. 

Per certi versi il belpaese è già uscito dalla fase “meglio prevenire che curare”: la crisi nel settore agroalimentare è già in atto e non sarà facile risanarla. Ma molte carte sono ancora sul tavolo e sarebbe funzionale – soprattutto per le generazioni future – prospettare delle soluzioni che tengano in conto dell’errore commesso e degli evidenti limiti, messi in luce anche dalla pandemia, della globalizzazione. In altre parole, ci sarebbe bisogno di incentivare un livello di sovranità alimentare di tipo ecologico, locale, diversificato e su scala più ridotta. Per esempio, ridisegnando i tre quarti di superficie agricola destinata ai mangimi per gli allevamenti intensivi per produrre cibo.

Dunque, di fronte ad un problema politico tanto complesso e brutale come una guerra, con i suoi moventi e le sue ripercussioni, ci si aspetta dai tavoli di Bruxelles e di Roma una maturità politica innovativa, orientata al futuro e sostenibile per scongiurare ancora un altro fronte di conflitto, sofferenza e diseguaglianze. 

Per ora, il capitolo transizione ecologica in merito all’autosufficienza da mais rimane aperto e i prossimi giorni sono fondamentali per capire se l’indirizzo del governo ha finalmente intrapreso la rotta della sostenibilità: inizia la stagione delle semine del mais.

Articolo di Federica Rossi, Lavinia Ferrari