Le Alpi Apuane sono il nuovo grande affaire ambientale italiano

Sul marmo di Carrara si gioca una partita delicatissima

17/01/2022

Nel 2018, i registi Jennifer Baichwal, Nicolas de Pencier ed Edward Burtynsky hanno girato il film documentario “Antropocene – L’epoca umana”. Il film esplora ciò su cui gli scienziati sembrano concordare, cioè l’inizio di una nuova epoca geologica, l’antropocene, dove è la specie umana ad essere dominante e più invasiva della natura stessa. I registi traslano tale assunto sullo schermo, attraverso la visione di 43 disastri mondiali. Tra questi c’è proprio l’estrazione delle cave di marmo di Carrara. Tre anni dopo l’uscita del documentario, in particolare il 25 agosto del 2021, il Consiglio di Stato si è schierato a favore della Henraux Spa, società di estrazione del marmo con sede a Querceta (Lucca), rigettando l’appello delle associazioni ambientaliste che erano state sconfitte in primo grado davanti al Tar Toscana. La Henraux Spa, rappresentata dall’avvocato Cristina Carcelli, ha sempre portato avanti l’idea secondo la quale le cave di marmo non recano alcun danno ambientale. Il tribunale ora le ha dato ragione. Questo è solo l’ultimo svolgimento di una battaglia che continua da anni nella zona del Parco della Alpi Apuane, intorno ai comuni di Massa e Carrara, tra le società di estrazione del marmo e le associazioni ambientaliste locali. 

Potrebbe sembrare una questione marginale, da relegare ai giornali locali. In realtà non è così. Seppur meno noto al grande pubblico, si tratta di un affare del tutto paragonabile alle più famose cause ambientaliste del nostro Paese, come la Tav o l’Ilva. Le ragioni sono varie: in ballo ci sono tanti soldi, tanti posti di lavoro,  la salute di chi vive in quelle zone e un patrimonio ambientale e paesaggistico immenso. A conferma dell’importanza di tutto questo c’è un dossier. Stilato da Eros Tetti, fondatore dell’associazione ambientalista Salviamo le Apuane e dirigente regionale di Europa Verde, è arrivato a settembre scorso negli uffici della commissione Onu su Business e Diritti Umani. Il problema di fondo è, ancora una volta, l’apparente trade-off tra lavoro e ambiente.

Il settore lapideo nelle Alpi Apuane è davvero così importante?

Non esiste al mondo un marmo più famoso di quello di Carrara. Certo, la sua notorietà è dovuta soprattutto a Michelangelo e al suo celebre David. Secoli dopo, il suo utilizzo è decisamente meno legato all’arte. Oggi viene largamente impiegato nell’industria del carbonato di calcio, che serve principalmente alla produzione di dentifrici e cosmetici. Infatti, come scrive Fabio Balocco su “Il Fatto Quotidiano”, il 75% del materiale estratto dalle cave non è finalizzato al marmo in sé, bensì proprio alla produzione di questa sostanza. La filiera lapidea ha permesso a molte città della Versilia di sostenersi e di arricchirsi, anche se oggi i lavoratori sono sempre meno. Quanti di meno, in realtà, è difficile a dirsi. Non esistono stime univoche. Una delle possibili ragioni deriva dal fatto che si tratta di un settore trasversale: attività di escavazione, commercializzazione del marmo, sviluppo di tecnologie sono solo alcuni esempi dell’ampiezza di questa economia.

Un gruppo di lavoro del Censis, guidato da Francesco Benevolo, ha evidenziato come gli occupati nell’industria del marmo sono passati da 6047 a 5225 tra il 1951 e il 1971. Tale contrazione, come si legge nel rapporto del Censis, ha riguardato soprattutto l’attività di escavazione, che ha visto i suoi addetti diminuire del 65%. Sui dati più recenti invece c’è molta confusione. I numeri che vengono riportati nel dibattito pubblico sono spesso contrastanti: da una parte c’è la voce di Confindustria Livorno Massa Carrara, esemplificata nelle parole dell’ex presidente Erich Lucchetti. Da quanto emerge dalle parole di Lucchetti sembrerebbe che l’economia della Versilia e della zona delle Alpi Apuane sia ancora dipendente dal settore del marmo. In particolare, egli afferma che nel periodo tra il 2011 e il 2019 – periodo seguente alla crisi del mattone del 2008 – il settore edile ha subito una flessione del 45%. Una flessione di tale portata, invece, non ha interessato il settore lapideo, tradizionalmente collegato a quello edile. Le aziende iscritte al Fondo Marmo sarebbero scese solo dell’11% mentre i posti di lavoro sono calati appena dello 0,3%. Inoltre, per avere un quadro completo della filiera lapidea, bisogna considerare anche i settori dediti alla commercializzazione del marmo e allo sviluppo di tecnologie ad esso collegate. L’intera filiera, nelle parole dell’ex Presidente di Confindustria Livorno Massa Carrara, avrebbe inciso nel 2020 quasi del 24% sul PIL provinciale, con circa 2mila aziende interessate e oltre 12mila occupati. 

Dall’altra parte Eros Tetti, intervistato da Scomodo, è di tutta un’altra opinione: “A nostro avviso ci sono meno di mille lavoratori, ma pensiamo a molti meno. Una delle grosse difficoltà è quella di reperire dati certi, che vengo ovviamente sempre celati perché sono imbarazzanti, e così consentono ogni volta di far urlare al politico di turno che ci sono 10mila posti di lavoro nel settore lapideo, ma nessuno sa realmente qual è la percezione reale”. Ma al di là del numero reale di occupati, Tetti menziona anche un secondo problema: “l’economia del marmo ha dei fatturati enormi ma con bassissime ricadute sul territorio, creando conflitto sociale. Molto raramente il marmo estratto in Versilia e nelle Alpi Apuane viene lavorato in zona, come nei laboratori che esistevano un tempo a Pietrasanta, ora quasi tutti chiusi”. Anche tvsvizzera.it conferma le parole di Eros Tetti denunciando come molto del marmo estratto venga lavorato in paesi in cui la manodopera costa meno. 

Per quanto sia un fenomeno abbastanza riconosciuto da molte testate giornalistiche, non esistono dati certi in grado di quantificare quanto marmo venga lavorato all’estero e quanto ciò danneggi l’economia locale. Il fatto però che l’esportazione di marmo in Italia sia una filiera molto importante non è un mistero. Secondo i dati del UNSD Commodity Trade, l’Italia è stata dal 1994 al 2020 sempre la prima o la seconda nazione al mondo  – in competizione continua con la Turchia – nell’esportazione di blocchi di marmo, travertino e alabastro non lavorato (la categoria utilizzata dal database è Marble, travertine and alabaster; simply cut or sawn, with a flat or even surface). Infine, un ulteriore colpo che permette di rendersi conto di quanto l’attività di estrazione abbia scarse ricadute economiche sulla zona sta nel fatto che la multinazionale che guadagna di più dall’estrazione e dalla lavorazione del carbonato di calcio in Toscana è un’impresa svizzera che ha 180 stabilimenti in 55 paesi: la Omya Schweiz. Se quindi dal punto di vista economico esistono già diverse ambiguità, è ovviamente dall’altro lato del trade-off che si trovano i problemi maggiori. Le conseguenze ambientali dell’attività di estrazioni sono difficilmente trascurabili.

Acque sporche

L’evoluzione tecnica degli strumenti e delle macchine per l’estrazione del marmo ha influenzato positivamente solo la produzione, che di fatto è stata velocizzata. Come riporta Greenme, nel 1920 dalle cave della Versilia venivano estratte meno di centomila tonnellate all’anno. Oggi si arriva anche 1,2 milioni di tonnellate annue, come spiega il paper Marble Slurry’s Impact on Groundwater: The Case Study of the Apuan Alps Karst Aquifers, scritto dal professore Leonardo Piccini, Tiziana Di Lorenzo, Pilario Costagliola e Diana Galassi. D’altra parte, però l’introduzione di nuove tecnologie ha comportato un peggioramento della situazione ambientale. La principale fonte di inquinamento è la marmettola, cioè una polvere finissima che deriva dal taglio del marmo. La marmettola, attraverso fratture e anfratti, riesce ad arrivare alle sorgenti acquifere, inquinandole. La polvere di marmo, depositandosi sul letto dei fiumi, distrugge microsistemi e mette a rischio l’esistenza di alcune specie animali. 

Sempre nell’articolo scientifico già citato viene spiegato in che modo l’estrazione del marmo incida sul bacino idrogeografico toscano, che nelle parole del fondatore dell’associazione Salviamo le Apuane è il più importante bacino del centro Italia. I ricercatori e le ricercatrici scrivono che la polvere di marmo, mescolata con l’acqua, produce un fango fluido che si disperde rapidamente attraverso la rete idrica. Uno dei modi più efficaci per verificare l’inquinamento derivante dalla polvere di marmo è il livello di torbidità della sorgente. Così, emerge nel paper come i bacini idrografici lontani dalle cave hanno generalmente acque più limpide. Gli effetti che questo tipo di inquinamento può avere sull’uomo, dal momento che tali sorgenti sono destinate proprio al consumo umano, non sono ancora noti nel dettaglio. Tuttavia, i problemi della marmettola non si esauriscono qui. Essa è in grado di produrre una contaminazione chimica delle falde acquifere che influenza la distribuzione delle specie all’interno della rete carsica: ad esempio, scrivono i ricercatori e le ricercatrici, può favorire la presenza di specie epigee, che avendo alti tassi metabolici mettono a rischio l’esistenza di altre specie. Nella conclusione del paper, i ricercatori e le ricercatrici sostengono che l’impronta inquinante delle attività estrattive è maggiore di quella indicata sulle mappe. Per questa ragione, proseguono, è necessario favorire la partecipazione di attori economici e ambientali, ma soprattutto di speleologi che sono spesso i più informati sulle condizioni dei bacini idrogeografici. 

Comunque sia qualcosa è stato fatto, come dimostra l’Agenzia regionale per la protezione ambientale della Toscana. Infatti, nel suo ultimo report ha segnalato un miglioramento della qualità dell’acqua di un torrente, il Frigido, che nel 2017 presentava un “ambiente molto alterato”. Oltre alla marmettola, lo sversamento di oli e gasoli – per alimentare i macchinari per l’estrazione del marmo – incide sulla salubrità del suolo e del sottosuolo. Un altro ordine di problemi che riguarda l’estrazione del marmo è l’abbassamento di alcune vette delle Alpi Apuane, come il caso del Picco di Falcovaia. Esso, nel corso del tempo a seguito dell’irresponsabile utilizzo di nuovi macchinari estrattivi, ha subito un abbassamento di 20 metri. Collegato ad esso, infine, c’è quello che viene definito inquinamento visivo, cioè l’alterazione di qualsiasi ambiente attraverso l’inserimento di elementi che per la loro estraneità risultano sgradevoli alla vista.

 Pare evidente, allora, che i siti estrattivi con le loro forme geometriche assolutamente artificiali, fuori luogo rispetto al resto delle vette, o i grandi macchinari per l’estrazione, come i caterpillar, siano delle fonti di inquinamento visivo. Questi ultimi due aspetti nonostante possano sembrare secondari sono molto importanti: se si vuole cercare di superare un’economia ancora troppo dipendente dal marmo, un buon punto di partenza sarebbe un turismo sostenibile, che poco si confà alle brutture delle cave. Come sostiene Eros Tetti è infatti “impossibile fare turismo in una zona altamente industrializzata come quella delle Alpi Apuane, dove a Carrara ci sono sette cave per chilometro quadrato e dove le aree contigue sono un abominio”.

Sicurezza sul lavoro e ultimi sviluppi

A rendere l’estrazione del marmo una questione di primo piano, si aggiunge anche l’argomento della sicurezza sul lavoro. Nonostante molte imprese dichiarino di essere all’avanguardia rispetto a tale argomento, la realtà sembra essere un’altra. Come testimoniano i dati dell’Inail, la provincia di Massa Carrara ha il primato negativo di incidenti mortali sul luogo di lavoro tra il 2015-2019 nelle attività estrattive: sette sono stati i decessi in tale settore, che da soli sono un terzo del totale delle vittime sul luogo di lavoro nella stessa provincia. Anche elaborando altri numeri dell’Inail – gli open data sulle denunce di malattie professionali – si arriva a conclusioni simili. La provincia di Massa Carrara è infatti la seconda provincia in Italia per numero di denunce di malattie professionali nel settore delle attività minerarie. 

Prima di giungere a conclusioni affrettate però bisogna notare che entrambi questi dati sono in numero assoluto. Questo vuol dire che potrebbero essere sintomo semplicemente di una alta quantità di lavoratori e non per forza di violazioni delle norme di sicurezza. Non sono state trovate dati ufficiali in percentuale su questo fenomeno. Resta il fatto però che diverse testate giornalistiche negli anni hanno denunciato una scarsa attenzione verso la sicurezza dei lavoratori. Le ultime notizie a questo proposito risalgono a dicembre 2021 e spiegano che su 400 ispezioni compiute nelle cave della zona, nel 10% dei casi sono state accertate delle violazioni.

Attualmente le cave attive nella Versilia e nella provincia di Carrara sono 165, di cui 80 situate nel Parco delle Alpi Apuane. Proprio il Parco delle Alpi Apuane ha definito una bozza che prevede un’estensione delle aree tutelate, portando alla chiusura delle zone contigue di cava. Queste zone, pur rientrando nel perimetro del Parco, hanno un ruolo centrale negli interessi delle ditte di marmo, perché rappresentano ulteriori siti in cui è possibile scavare. Proprio riguardo alle aree contigue di cava, come abbiamo già detto, si è espresso il Consiglio di Stato, con una sentenza definitiva nell’agosto del 2021, affermando che tali zone non sono da considerare aree protette e che non vi è una lesione dei valori di tutela del paesaggio, dell’ambiente e della salute. Questo significa che nelle aree contigue di cava si può continuare a scavare. Questa decisione arriva a seguito dell’impugnazione da parte di alcune associazioni ambientaliste della delibera regionale di integrazione del Pit (Piano di Indirizzo Territoriale): una misura prevede, oltre al riferimento alle aree contigue di cava, anche l’apertura di nuove cave, la riattivazione di alcune dismesse e l’ampliamento di cave esistenti nei bacini estrattivi nel perimetro del Parco regionale delle Alpi Apuane. Tutto questo sembra andare contro l’ipotesi di una reale transizione ecologica dell’economia locale, investendo quindi su altri settori come il turismo sostenibile. Il rischio è di perdere per l’ennesima volta una buona occasione: come spiega anche Legambiente Toscana in un suo comunicato, la Toscana avrebbe anche la possibilità di utilizzare i fondi del PNRR.

Articolo di Emanuele Frijio, Francesco Canu