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La tutela ambientale nella Costituzione Italiana
Confronto tra la recente modifica costituzionale ed altri esempi virtuosi
La riforma degli articoli 9 e 41 della Costituzione
L’8 febbraio è stata approvata dalla Camera dei deputati con 468 voti favorevoli – 1 contrario e 6 astenuti – la legge costituzionale in materia ambientale. Proprio l’Italia era rimasta uno degli ultimi stati europei a non avere la tutela ambientale esplicitamente inserita in costituzione: l’Europa stessa ha una regolamentazione in merito dal 1987, il Portogallo ne ha una dall’88, e anche l’Inghilterra e la Spagna, rispettivamente dal 1990 e dal 1978. Comunque sia, con tale riforma sono stati modificati gli articoli 9 e 41 della Costituzione in modo che si facesse esplicito riferimento alla tutela dell’ambiente e degli animali. Nell’articolo 9, dunque tra i principi fondamentali della Carta costituzionale, è stato inserito quanto segue: «Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali»; mentre, per quanto riguarda l’articolo 41, che rientra nel Titolo III inerente ai rapporti economici, ora recita in questo modo: «L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali». Dunque, viene introdotto esplicitamente la salvaguardia dell’ambiente in relazione all’attività economica. Infine, grazie al terzo articolo della legge costituzionale viene inserita una «clausola di salvaguardia delle competenze legislative riconosciute alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano dai rispettivi statuti».
Il provvedimento è entrato in vigore a partire dal 9 marzo, ma precedentemente l’entusiasmo era già molto forte. Tra i primi a esultare per l’approvazione della legge costituzionale troviamo il ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani che definisce il giorno in cui è stata approvata la modifica costituzionale «una giornata epocale». Ma non è stato il solo: come riporta l’Ansa per il Presidente del Consiglio nazionale degli architetti, paesaggisti e conservatori Francesco Miceli si tratta di un «traguardo raggiunto dopo anni di intenso lavoro». Tuttavia, per molti, più che un traguardo si tratta solo di un punto di partenza verso un ambientalismo istituzionale, non più relegato a movimenti ecologisti formati perlopiù da giovani. Proprio in questo senso si è pronunciato il Wwf Italia che vede la tutela ambientale e degli animali in Costituzione sì come una «riforma epocale», ma anche come «il presupposto di un intervento organico per adeguare strumenti normativi vigenti a tutela della biodiversità, degli ecosistemi e degli animali». D’altra parte, anche se poche, le critiche non si sono fatte attendere: il deputato di Alternativa Giovanni Vianello ha subito tacciato la legge costituzionale come «un’operazione di greenwashing che dimostra l’ipocrisia del governo Draghi e della maggioranza e soprattutto quanto sia inadatto Cingolani a ricoprire il ruolo di ministro della Transizione Ecologica».
Ambiente in Costituzione: è davvero utile?
Indipendentemente dalle prospettive politiche, è importante ragionare in termini utilitaristici: questa riforma è utile oppure no? Anche in questo caso, i giuristi si sono divisi. Partiamo dalle voci critiche che si sono mosse già a partire dalle audizioni presso la Commissione Affari costituzionali del Senato, come quella di Gaetano Azzariti, professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università «La Sapienza» di Roma (la sua audizione risale al gennaio 2020). Sono principalmente due le questioni che egli solleva. Innanzitutto sostiene che, qualora si dovesse inserire «una norma priva di efficacia innovativa, esclusivamente riassuntiva dell’evoluzione della legislazione ordinaria, riepilogativa di disposizioni già contenute a livello interno ovvero su quello europeo e internazionale, che assume tendenze evolutive già elaborate dalle Corti costituzionale e sovranazionali, il risultato sarebbe misero (direi nullo) e francamente ci sarebbe da chiedersi se valga la pena affannarsi a cambiare la Costituzione perché nulla cambi». La seconda questione, che è il nocciolo del problema, è se la riforma costituzionale possa servire come «argine allo sviluppo e all’attività d’impresa non ecosostenibile». Per fare ciò, sempre secondo il professore Azzariti, è necessario superare la visione antropocentrica, cioè di una tutela ambientale legata al benessere del singolo, per approdare a una visione «oggettiva», cioè dell’ambiente come «bene comune» – inteso come l’insieme dei beni che non coincidono né con la proprietà privata né con la proprietà dello Stato, ma esprimono diritti inalienabili dei cittadini. Ed è stata proprio questa la motivazione che ha spinto a inserire esplicitamente nell’articolo 9 «l’interesse delle future generazioni».
Una spiegazione interessante della validità della riforma costituzionale, seppur meno utilitaristica, ci viene data da Gaetano Benedetto, presidente Centro Studi Fondazione Wwf Italia. Sulle colonne de Il Fatto Quotidiano afferma che la riforma costituzionale non è «importante perché riconosce il valore costituzionale della tutela ambientale» – questo è già stato fatto con numerose sentenze della Corte costituzionale – quanto perché inserisce la tutela ambientale tra i principi fondamentali della Costituzione.
Di visione opposta al professor Azzariti, c’è invece la docente di diritto costituzionale e prorettrice con delega alla legalità, trasparenza e parità di diritti all’Università degli Studi di Milano, Marsilia D’Amico. Come già scritto, il professor Azzariti si chiedeva quanto fosse utile impegnarsi in una riforma costituzionale che non faceva altro che riprendere la tendenza elaborata dalla Corte costituzionale. Tuttavia, secondo la professoressa D’Amico esplicitare questi principi in Costituzione è essenziale perché così essi diventano il «parametro, il valore a cui tutte le leggi e tutte le azioni dello Stato devono rapportarsi. Se invece lo lascio ai giudici o all’arbitrio del legislatore non vincolano l’ordinamento». Dunque, sta qua l’utilità: dal 9 marzo qualsiasi legge contraria alla tutela ambientale e alla biodiversità potrà essere portata di fronte alla Corte costituzionale. Uno dei compiti principali della Corte costituzionale è proprio quello di giudicare la compatibilità tra scelte legislative e l’insieme di principi e norme della Carta costituzionale. Questo significa che in caso di incompatibilità, la Corte costituzionale ha il potere di bloccare le leggi. Dunque, con questa riforma, l’ambiente e la biodiversità verranno considerati aventi diritto autonomo e non in relazione al benessere umano.
Il Modello Andino
Nelle costituzioni di Ecuador e Bolivia, vigenti rispettivamente dal 20 ottobre 2008 e dal 7 febbraio 2009, vengono disciplinati per la prima volta i diritti della natura. Essa passa da oggetto a soggetto, aprendo un nuovo capitolo nella storia del diritto.
La maggiore novità è il ripristino ecologico come specifica pretesa della natura, che implica il reintegro dei sistemi di vita lesionati dall’uomo. Le basi filosofiche possono essere rintracciate nella cosmovisione dei popoli andini, nonché nella earth jurisprudence, teoria del diritto che propugna i diritti della terra, o nella deep ecology, filosofia che rifiuta l’approccio tradizionale all’ambiente, antropocentrico.
In quanto alla costituzione ecuadoriana, il tema ambientale non si esaurisce nel suo significato più comune, ovvero come diritto a un ambiente salubre ed equilibrato, ma assume anche le vesti di principio orientativo delle politiche pubbliche.
Secondo l’articolo 10, la natura sarà soggetto dei diritti che le riconosce la costituzione, dunque diviene titolare di specifiche pretese, esplicitate al Capitolo VII, «Diritti della natura» (art.71-74). L’articolo 11 afferma che tutti i principi e i diritti sono inalienabili, irrinunciabili, interdipendenti e di eguale gerarchia. Ne viene che i diritti degli esseri umani e quelli della natura stanno sullo stesso piano di parità. Chiunque potrà esigere dalle autorità pubbliche il rispetto dei diritti della natura.
In Bolivia il concetto rientra anche nello statuto giuridico delle collettività indigene, da cui la Convenzione Ilo 169 sui diritti dei popoli indigeni e tribali del 1989, affermando il diritto di tali gruppi alla consultazione preventiva obbligatoria in merito a: sfruttamento delle risorse naturali non rinnovabili sui loro territori; partecipazione ai benefici derivanti dallo sfruttamento delle risorse naturali; gestione indigena autonoma sul territorio; uso e sfruttamento esclusivo delle risorse naturali rinnovabili. Nonostante ciò, la breve esperienza maturata da Ecuador e Bolivia negli ultimi anni mette anche in rilievo alcune disfunzioni della propria tutela effettiva all’ecosistema, tramite, per esempio, alcune decisioni di capi di stato o giudici che si allontanano dallo stesso diritto costituzionale.
Se si confrontano le due concezioni del mondo, nella concezione culturale comune tra la popolazione – andina e occidentale – le divergenze risultano evidenti. Dove in occidente la natura è sottomessa al dominio della scienza, nella visione indigena è più diffusa una visione dell’esistenza di tipo armonioso, in cui ogni azione è considerata rilevante per l’intero ecosistema mondo, interamente connesso. Dall’economia, basata sulla reciprocità nel modello indigeno, alla costruzione sociale, basata su una vita comunitaria contrapposta all’individualismo occidentale. Lo sviluppo per noi occidentali rappresenta ad ora l’unica modalità di vita da secoli; la modalità andina è invece rappresentata dal «buen vivir», un’esistenza armoniosa, attualmente lontana dai nostri standard.
E l’Europa quindi?
Dagli anni ’90 i movimenti di contestazione hanno iniziato a mettere in discussione non tanto il progresso della tecnica, quanto più il diverso modo di vivere assieme, che deve tornare a comprendere (o forse deve comprendere per la prima volta) sia la comunità che l’ambiente: Buen Vivir, che significa vivere una vita piena e dignitosa, un’esistenza «semplicemente» armonica (che includa le dimensioni cognitive, sociali, ambientali, economiche, politiche, culturali e che nel renda interdipendenti). Il vivere bene delle costituzioni andine non è il classico rimando alla felicità, ma è un equilibrio totalmente nuovo, sottovalutato dal modello neoliberista. La grande scommessa del nuovo costituzionalismo andino risiede proprio in un diverso contratto sociale che, imputando le diseguaglianze come conseguenza all’asservimento della natura da parte dell’uomo, viene quindi stipulato fra la natura stessa e le persone.
È opportuno altresì parlare di esperienze, per quanto altrettanto recenti e virtuose, più vicine geograficamente e culturalmente: la Francia ne è un ottimo esempio.
L’esperienza francese si palesa a prima vista simile a quella italiana: come in Italia, l’ambiente è approdato al soglio costituzionale soltanto negli ultimi anni (nel 2005); a differenza dell’Italia, però, ciò è avvenuto con una disciplina molto articolata, tramite l’adozione di una Carta dell’ambiente, costituita da ben dieci articoli e confluita nel Preambolo della Costituzione e soprattutto, accanto al paradigma dei diritti, si è riconosciuta l’importanza della prospettiva del dovere: ad esempio, all’articolo 2 risulta «Ognuno ha il dovere di partecipare alla conservazione e al miglioramento dell’ambiente» ed all’articolo 6: «Le politiche pubbliche devono promuovere lo sviluppo sostenibile». Si è attuata la Carta tramite la programmazione (nel 2009 e nel 2010) delle leggi Grenelle (I e II): vi è stato un coinvolgimento di rappresentanti dell’amministrazione pubblica e della società civile, che riuniti in gruppi di lavoro, hanno elaborato una serie di proposte in materia. Ne è risultato che la Francia si è data gli obiettivi da raggiungere nel settore ambientale (edilizia e urbanistica, trasporti, energia e clima, biodiversità, rischi sanitari, rifiuti e governance) con la prima legge, mentre con la seconda ha applicato e territorializzato la precedente.
Sotto il profilo organizzativo, inoltre, ha fatto il suo ingresso nella giurisprudenza francese il principio di non regressione ambientale, un tentativo di arginare le politiche di sviluppo che spesso hanno modificato in peggio la stessa.
Siamo soddisfatti della riforma costituzionale?
A questo punto è bene chiedersi: possiamo dire di essere soddisfatti di questa riforma costituzionale? Sì e no. È senz’altro un punto di partenza, a cui si aggiunge il fatto che per la prima volta è stato modificato uno degli articoli fondamentali della Costituzione. Un segnale non da poco. Ma è ancora troppo presto per poter cantare vittoria. Un primo motivo per cui la riforma costituzionale non basta è legata al fatto che la legge costituzionale non ha effetti retroattivi e perciò non può incidere su questioni legali del passato. La questione della Tav potrebbe essere un utile esempio per comprendere meglio. Fin da quando è nata l’idea della costruzione di una linea ad alta velocità in grado di collegare Torino-Lione, le contestazioni a causa di un possibile ingente danno ambientale si sono sollevate. Il contraltare della salvaguardia ambientale, come spesso accade, è stata la questione economica. La legge costituzionale, in particolare nella riforma dell’articolo 41, cerca proprio di superare questo trade-off, facendo convergere l’iniziativa economica verso la tutela ambientale. Tuttavia, il fatto che la legge costituzionale non abbia effetti retroattivi significa che non può incidere su questioni passate come quella della Tav. Il che è un problema dal momento che in Italia sono già state scritte numerose pagine simili – la vicenda delle Alpi Apuane e il caso Ilva per citarne alcune – che non verranno toccate dalla riforma costituzionale. Inoltre, un altro problema potrebbe riguardare «la tutela degli animali». Prendiamo il caso degli allevamenti intensivi: oltre ad essere più che confermato il loro ruolo centrale nell’inquinamento atmosferico, in molti di essi il benessere animale è trascurato. Sono state numerose le inchieste realizzate dall’organizzazione Essere Animali e da testate nazionali che testimoniano la degradazione degli allevamenti intensivi e dei trattamenti disumani che subiscono gli animali. L’incompatibilità tra tali evidenze e l’articolo 9 della Costituzione è lampante, la cui unica soluzione immaginabile è la chiusura definitiva degli allevamenti intensivi.
Dirci pienamente soddisfatti della riforma costituzionale significherebbe non imparare da esperienze straniere che abbiamo trattato sopra. Certo, le differenze culturali con i popoli andini sono molte, ma l’orizzonte a cui ambire è uno: l’ambiente come soggetto giuridico avente diritto in sé e non in relazione all’uomo. Non solo, anche l’esperienza francese può insegnarci molto, soprattutto grazie agli obiettivi che si è proposta di raggiungere. Proprio questo, cioè darsi degli obiettivi coerenti con la riforma costituzionale, può far diventare l’Italia un esempio virtuoso in materia ambientale, segnando una volta per tutte una rottura con un passato troppo inquinato.
Articolo di Lavinia Ferrari, Emanuele Frijio