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Anatomia di una protesta censurata: il caso colombiano
In molte delle ultime ondate di proteste nel mondo, le autorità hanno cercato di fermare la diffusione di notizie e immagini. Quello delle manifestazioni in Colombia è un ottimo caso studio per capire come funziona la censura.
La verità sulle proteste #paronacional, avvenute in Colombia dal 28 aprile e nate in reazione alla Legge di Solidarietà Sostenibile presentata dal presidente Ivàn Duque, al 15 giugno, giorno in cui i leader delle proteste hanno annunciato la sospensione temporanea delle mobilitazioni, è contenuta in un documento di 48 pagine, presentato dalla Commissione Interamericana dei diritti dell’uomo. Le violente proteste -che secondo il documento della Commissione, nascono da una profonda iniquità e disagio sociali dettati da un accesso difficile ai servizi culturali, educativi e sanitari- per il presidente Duque, «non avrebbero risolto le sfide da affrontare come Paese». Come denotano, infatti, i dati mostrati da Sandra Borda sul quotidiano Nueva Sociedad e riportati da Internazionale: «Nell’ultimo anno 3,6 milioni di colombiani si sono ritrovati a vivere in condizione di povertà e 2,7 milioni in condizioni di povertà estrema. Questo aumento significa che nel 2020 il 42,5 per cento della popolazione era povero, contro il 35,7 per cento dell’anno precedente». Inoltre, «la disoccupazione giovanile è pari al 23,9 per cento, il 3,4 per cento in più rispetto al trimestre gennaio-marzo 2020. L’anno scorso 243.801 studenti hanno abbandonato gli studi, il 2,7 per cento del totale».
Sono proprio questi dati a spaventare di più e a chiarire perché sono proprio i giovani a rappresentare la maggioranza nelle proteste colombiane. A sottolinearlo in maniera perentoria è l’attivista per i diritti umani Angelo Cardona che denuncia uno dei problemi più gravi (e per questo censurati) che si trovano alla base della rivolta popolare: «Le proteste non sono un problema iniziato 10 giorni fa. In Colombia abbiamo problemi molto seri riguardo l’istruzione e questo, a causa della mancanza di investimenti da parte del governo che, tuttavia, non esita a spendere milioni in altre questioni. La Colombia è uno dei paesi più iniqui del mondo e ciò che avviene ogni giorno è inaccettabile. Non investendo nell’istruzione, il governo rende l’istruzione un vero e proprio privilegio. Non essendoci fondi per l’istruzione pubblica, i giovani smettono di studiare e ciò, inconsapevolmente, non fa che influire sulla situazione sociale e sulla povertà; povertà che si aggrava ogni giorno di più. Questo è forse uno dei motivi principali per cui i giovani scendono per le strade a protestare».
Durante gli scorsi mesi, sono state centinaia le segnalazioni volte a denunciare l’uso improprio della violenza da parte delle forze dell’ordine locali; violenze e soprusi, ben presto, si sono trasformati in vere e proprie forme repressione contro giornalisti e missioni mediche, dando vita a una forma sottile quanto efficace di censura. Le denunce di sparizione, sono aumentate in modo esponenziale e come denotato dalle organizzazioni umanitarie è tragico denotare come la maggior parte di coloro che vengono ritrovati sono già morti.
Nel rapporto di “Human Rights Watch”, la Colombia è stata inserita tra i Paesi più pericolosi al mondo per chi denuncia le violazioni dei diritti umani e nel 2020, secondo l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite, sono state 133 le persone che hanno perso la vita per difendere i diritti civili.
Tornando al rapporto della Commissione Interamericana, le proteste non sono soltanto la rappresentazione della democrazia e del rifiuto alla violazione deliberata dei diritti primari dell’individuo, esse possiedono anche la capacità di dare risalto alle problematiche sociali, rendendole impossibili da ignorare. E’ grazie alle manifestazioni infatti se, dopo innumerevoli diatribe, la “Legge di Solidarietà Sostenibile” è stata portata in Parlamento per essere discussa. Nonostante ciò, gli eventi tragici legati alle marce di protesta sono, tuttavia, innumerevoli; anche se, a causa della censura mediatica, rimangono per lo più nascosti. Mentre il Governo, infatti, giustifica l’uso della forza da parte delle Autorità durante le proteste come il frutto di una risposta ai manifestanti violenti e una forma di difesa nei confronti della popolazione; la Commissione, spalleggiata dai dati e dalle numerose denunce riportate, sostiene che si tratti piuttosto di un abuso di potere. È stato evidenziato in particolar modo uno sproporzionato uso della forza nei confronti di cittadini per lo più pacifici, aventi diritto a manifestare. Come se non bastasse, la Commissione sottolinea, inoltre, una grave falsificazione dei dati riportati dal Governo. Se, infatti, le autorità pubbliche riconoscono 51 vittime e 1.113 feriti, dai dati raccolti dall’ONG Temblores, risulta che le persone decedute a causa delle repressioni messe in atto dagli agenti siano in realtà 73, mentre il numero dei feriti sale a 1.700. Al conteggio delle vittime, si devono, infine, aggiungere il numero di casi di abuso sessuale che, a quanto registrato dalla stessa ONG, al momento risultano essere 25.
La censura però, non riguarda soltanto la manomissione dei dati riportanti il numero delle vittime e dei casi di violenza. Sono numerosissimi gli atti di violenza repressiva registrati nei confronti della stampa che, insieme alla mancanza di risposta istituzionale, avrebbero generato, secondo le testimonianze ricevute da giornalisti e attivisti, un clima di silenzio diffuso atto a bloccare il diffondersi dell’informazione. La Colombia diventa così “no-go zone” per tutti coloro che hanno intenzione di praticare giornalismo, riportando dati ed eventi non preventivamente autorizzati dal governo colombiano. La Commissione ne è informata e, a quanto risulta dalla stessa stampa, il clima generale nel “paese dell’eccesso”, così come è stato soprannominato dal giornalista Guido Piccoli, è di autocensura. Giornalisti e reporter, soprattutto locali, temono di incorrere in rappresaglie governative, stigmatizzazioni o perfino aggressioni. Molteplici sono state le segnalazioni di repressione mediatica partite da Cali, principale centro economico e industriale della Colombia, che hanno visto coinvolgere dei corrispondenti in situazioni di violenza. Una fra tante, risale a Venerdì 4 giugno, verificatasi durante un tentativo di sgombero da parte della polizia, su una folla di manifestanti, quando, un giornalista di Canal Dos è stato minacciato di morte per aver tentato di fornire dei servizi di copertura sulle violenze poliziesche. Sono molte le segnalazioni di una città che, a detta dell’organizzazione britannica Netblock, la quale monitora l’accesso a Internet in tutto il mondo, ha subito continue interruzioni di Internet durante le proteste. L’ente ha mostrato come questo sia uno schema che, in situazioni di protesta, si ripete, e non solo in Colombia; difatti, negli scorsi mesi, lo stesso modus operandi è stato utilizzato in Bangladesh e Congo. A confermare questa teoria è il caso di Cuba che, come segnalato da Wired, è uno dei 29 paesi ad aver «bloccato, o rallentato la connessione alla rete almeno 155 volte nel 2020 per limitare la libertà d’espressione» e che sta operando nuovamente questo tipo di censura dopo le ultime proteste.
Tali avvenimenti, come evidenziato dai diversi giornalisti che hanno incontrato la Commissione, sono il motivo principale per cui i comunicatori, sempre più spesso, decidono di non segnalare i casi di abusi e violenze, oppure scelgono di farlo, ma solo a determinate condizioni, come ad esempio nascondendo la propria identità. Secondo le informazioni ricevute dagli stessi giornalisti, inoltre, a seguito dell’escalation di violenza contro la stampa avvenuta nelle strade, parte della copertura mediatica riguardante le proteste ha iniziato a non utilizzare immagini e video originali, regolarmente registrati da reporter sul campo, preferendo usufruire di materiali reperibili su qualsiasi sito internet.
La Commissione è consapevole della crescente importanza della comunicazione digitale mediante giornalisti e intervistati.
Tuttavia, Internet è una piattaforma trasversale, impossibile da controllare o governare e tali caratteristiche la rendono potenzialmente pericolosa, soprattutto agli occhi del Governo il quale teme che l’eccessivo libertarianismo incoraggi istinti di ribellione nella popolazione, alimentando idee sovversive nei confronti della politica vigente. A tal proposito, la Fundación de Libertad de Prensa (Fondazione Colombiana per la libertà di stampa) ha rilasciato diverse dichiarazioni per esprimere la propria preoccupazione in merito alla censura già avvenuta in ambito social e denunciata dagli utenti-manifestanti. Le registrazioni dello sciopero in strada, infatti, sono state ampiamente condivise sui maggiori social network quali Instagram, Twitter e Facebook, per poi essere rimosse dalle stesse piattaforme.
«La censura è strettamente legata alla soppressione della parola. Mentre in alcuni scenari questa pratica è da considerare comprensibile per proteggere i gruppi vulnerabili, come i bambini, in altri diventa un modo per sopprimere il diritto alla libertà di espressione, una pratica comune utilizzata dai dittatori per mantenersi al potere. Essere censurato significa non essere in grado di comunicare liberamente le proprie idee perché i canali di comunicazione potrebbero essere interrotti dai censori, ma anche aver paura di essere feriti o perseguitati per aver parlato» sottolinea ancora l’attivista colombiano Angelo Cardona, rappresentante per l’America Latina dell’Ufficio Internazionale per la pace, descrivendo il cappio mediatico che, negli scorsi mesi, ha soffocato la Colombia.
Ed è proprio pensando all’importanza della parola e della libera circolazione delle idee che alcune iniziative stanno attualmente lavorando per preservare la memoria di questo momento storico, cercando di mettere al sicuro tutto ciò che è stato documentato e in seguito condiviso tramite i social network. Preservare questo tipo di memoria, tutt’altro che esigua, è fondamentale, in quanto garantisce l’indipendenza dei contenuti storici dai server delle piattaforme e dalle politiche di moderazione dei contenuti, mostrando i fatti così come accadono, senza alcun tipo di omissione o manipolazione. Tra queste iniziative non si può non menzionare il progetto di Cerosetenta che, attraverso una cartina interattiva, mostra i luoghi della repressione per le strade colombiane.
La Karisma Foundation, un’organizzazione della società civile che lavora per promuovere i diritti umani nel mondo digitale, ne è ben consapevole ed è proprio per questo motivo che si sta occupando di raccogliere i contenuti che vengono rimossi da Instagram, Twitter e Facebook, attraverso un questionario condiviso sui social media tramite alcuni gruppi di attivisti. Per la fondazione, le rimozioni ripetute dei contenuti immessi dagli utenti, sono la dimostrazione lampante della violazione dei diritti di comunicazione, libertà di espressione, accesso e diffusione delle informazioni, commessa dallo Stato. «Trasferire le garanzie della protesta fisica al mondo digitale, soprattutto ora che molte persone non possono uscire di casa per la pandemia e le reti sono l’unico modo che hanno per scoprire cosa sta succedendo fuori, è molto importante » sostiene Carolina Botero, direttrice di Karisma in un articolo di El País. Opinione condivisa anche dalla redazione online colombiana Cuestión Pública che, animata dallo stesso intento, sta raccogliendo e riorganizzando i dati e i contenuti digitali che raccontano la storia e le violenze subite dalle 47 persone cadute vittime della violenta repressione militare avvenuta nelle strade il 28 Aprile.
Anche l’Università del Cile sta contribuendo a questa non facile missione e, per farlo, ha creato un bot Twitter chiamato @ArchivaColombia e l’hashtag #AseguraLaEvidencia (Salva l’Evidenza). Tutti i contenuti che vengono (e che verranno) condivisi su Twitter con questo hashtag verranno automaticamente salvati sui loro server e potranno essere inviati e ricondivisi tramite un canale Telegram, in modo da far circolare le informazioni riguardo i reali avvenimenti che stanno avendo luogo.
L’essere connessi gli uni agli altri e poter condividere ciò che si apprende della propria realtà e degli eventi politici (micro o macro che siano) attraverso i social media è una forma di potere. In questo modo chiunque, e non solo i giornalisti e professionisti dell’informazione, può contribuire a rafforzare gli ecosistemi e le reti democratiche. Gli attivisti colombiani, ad esempio, avendo preso consapevolezza del fatto che la violenza militare cresce specialmente di notte, hanno manifestato l’importanza di portare avanti le proteste durante le ore di luce, ritirandosi quando è buio. Il motto delle nuove proteste, quindi, sembra essere ancora una volta “Sii acqua, amico mio”, il famoso detto dell’artista marziale Bruce Lee, già una volta utilizzato come slogan delle proteste di Hong Kong del 2019 contro il disegno di legge sull’estradizione. Il motto si riferisce alla pragmatica strategia di adattamento (come l’acqua, che appunto si adatta a diversi tipi di recipiente) messa in atto dai manifestanti per confondere le autorità e le forze di polizia. Cambiando continuamente luoghi di raduno, sparsi in diversi luoghi della città, così come le modalità di protesta, i manifestato sono riusciti, infatti, a portare avanti le proprie marce, riuscendo ad organizzarsi pubblicamente.
Se i manifestanti sono riusciti a trovare un modo parzialmente efficace per eludere le forze militari, agendo come l’acqua, tuttavia, la limitata opportunità di eludere le politiche di moderazione dei contenuti delle piattaforme rimane. Per cercare di arginare il problema, lo scorso agosto diverse organizzazioni della società civile dell’America Latina si sono riunite per proporre nuove normative per la regolamentazione delle grandi piattaforme digitali da una prospettiva latinoamericana, raccomandando trasparenza riguardo ai processi, coregolamentazione, meccanismi di difesa e appello.
Ad ogni modo, in assenza di risposte pratiche dalle piattaforme, diverse organizzazioni della società civile sparse in tutto il paese si sono viste costrette a portare la questione in tribunale per dare voce a ciò che, da quelli che sono ormai mesi, limita gravemente la libertà di espressione del popolo colombiano. Nell’aprile 2021 in Brasile, ad esempio, Google è stato dichiarato colpevole di aver commesso un’imposizione preventiva e di aver violato la libertà di espressione, rimuovendo un video del Collective Intervozes da YouTube. Il famoso motore di ricerca è stato multato per una cifra di 10.000 dollari, il che ha stabilito un precedente nazionale per tali casi. Nella sentenza il giudice, José Carlos Ferreira Alves, ha ricordato «Il fatto è che, chi deve imporre la rimozione dei contenuti e, quindi, limitare la libertà di espressione a tutela dei diritti è lo Stato, attraverso la Magistratura», sottintendendo che tale compito non spetta alle società private operanti nel paese.
Eppure, se i manifestanti si sono sentiti censurati e poco tutelati dalle piattaforme e dalle società private, hanno anche avuto un sostegno inaspettato. E’ il caso del contrattacco messo in atto dal collettivo cyberattivista Anonymous il quale ha dichiarato guerra al governo colombiano con una serie di “web-attentati”.
Anonymous è riuscito, infatti, a cancellare temporaneamente i siti dell’Esercito, del Senato e della Presidenza, pubblicando, in seguito, un elenco di e-mail e password appartenenti a militari e ad alcuni membri del Congresso. Come se non bastasse, gli hacker hanno dichiarato di essere riusciti, inoltre, a intercettare le comunicazioni radio della Polizia (anche se ció è stato negato dalle istituzioni) e a pubblicare il numero di cellulare del comandante dell’Esercito, dal quale El Matador – un famoso vignettista locale, critico nei confronti del Governo – ha dichiarato di aver ricevuto una serie di messaggi e di aver persino risposto.
Un altro esempio colombiano di risposta alla censura, avvenuto online durante le proteste, è stata la diffusione su Twitter dell’ormai famoso meme che raffigura i moderatori di contenuti online come suore, il velo nero sul capo e le mani intente a digitare sulla tastiera. Il significato dell’illustrazione non è poi tanto sibillino, al contrario, sottolinea lo stretto legame sotteso tra piattaforme social — che si servono di moderatori aventi la responsabilitá di far rispettare le regole imposte per qualsivoglia tipo di contenuto — e i poteri coloniali, statali e religiosi che sono stati, e tutt’oggi sono responsabili, della censura culturale e politica del paese.
Immagini, video, tweet e meme non sono unicamente artefatti digitali, ma costituiscono anch’essi un documento storico individuale, che fa parte e allo stesso tempo costruisce la memoria collettiva di nazioni e comunità tra loro differenti. In America Latina, la repressione e la cancellazione dei movimenti di resistenza sono progetti politici che costituiscono l’eredità del periodo coloniale e militare e, in quanto tali, vengono condivisi da ogni paese. Per decenni in Colombia la stampa è stata sistematicamente censurata sia dal governo che dal narcotraffico e non costituisce affatto una novità per la popolazione. Durante le dittature degli anni ’60, era una norma che i censori fossero dei rappresentanti dello Stato i quali, lavorando all’interno delle redazioni e delle testate giornalistiche, avevano modo di regolare ciò che veniva pubblicato quotidianamente. Una censura simile è stata messa in pratica in Cile nel 2019 durante altrettante proteste e, all’epoca, la risposta delle piattaforme ha variato di continuo oscillando fra contenuti etichettati come “terrorismo” e violazioni del copyright.
Questi esempi sono esigui rispetto alla vastità del fenomeno costituito dalla censura in America Latina. Tuttavia sottolineano l’importanza della sopravvivenza e della tutela degli spazi online, i quali garantiscono non solo la libertà di espressione, ma anche l’accesso alle informazioni, permettendo a chiunque di documentare effrazioni e violazioni commesse ai danni dei diritti umani. In aggiunta essi mettono in mostra l’importanza che assume il lavoro d’archivio nel paese; un lavoro che, al momento, si concentra principalmente sulla resistenza della comunità, sui dissidenti politici e sul lavoro degli attivisti.
Articolo di Riccardo Piazza, Rita Rassu