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Quanto conta l’aspetto emotivo negli sport
L'importanza del supporto psicologico durante la carriera agonistica
Nel corso degli ultimi mesi, l’opinione pubblica italiana si è dovuta spesso confrontare con un aspetto del mondo sportivo quasi sempre trascurato: l’importanza del fattore psicologico e la fragilità degli atleti negli sport. Una questione che ha mostrato quanto nel nostro Paese non si sia ancora sviluppata la capacità di concepire lo sportivo come essere umano e quanto anche loro siano soggetti alle debolezze mentali comuni a tutte le persone. L’esempio più recente è stato il dibattito sulla morte di Diego Armando Maradona, nel quale è parso evidente quanta difficoltà si abbia ancora oggi a scindere l’atleta e le sue prestazioni sul campo dalle sue azioni come uomo, non riuscendo ad accettare gli errori da lui commessi. Una difficoltà che deriva da secoli di costruzioni storico-culturali che esaltavano lo sportivo come figlio prediletto della nazione, incarnazione di ogni sua virtù e un modello incapace di sbagliare.
Un numero sempre maggiori di casi dimostra quanto questa costruzione sia solo una mera illusione: dal calciatore dell’Atalanta Josip Ilicic, costretto a saltare la seconda parte della scorsa stagione calcistica a causa di un duro attacco depressivo, fino a Micheal Phelps, che ha pubblicamente ammesso di aver pensato al suicidio, passando per Martina Trevisan, vittima dell’anoressia causata dalle eccessive pressioni su di lei. Sempre più spesso gli atleti mostrano le proprie debolezze, ricevendo in cambio solo la disapprovazione dell’opinione pubblica, incapace di comprendere come uno sportivo di successo e profumatamente pagato possa soffrire di questi mali. Questo comporta delle enormi difficoltà per gli atleti ad esporsi, a differenza del panorama americano dove i giocatori dell’NBA stanno trovando sempre maggiore spazio per parlare pubblicamente dei propri problemi psicologici, anche in rubriche apposite come quella tenuta dal The Players’ Tribune. In questo senso, l’associazione americana può fungere da esempio per stimolare una nuova sensibilità collettiva su quanto anche i migliori possano essere fragili.
La situazione a livello professionistico
Come già è capitato in passato trattando contesti afferenti al tema della civilizzazione e della mentalità di un popolo, come la concessione della cittadinanza, lo stato di salute dei cinema o il calcio femminile, notiamo spesso che in Italia siamo ancora molto indietro rispetto agli altri paesi; lo stesso si può dire anche a proposito del coinvolgimento di una figura più sensibile alle emozioni in ambito sportivo, sia a livello professionistico che giovanile.
Nello sport di gran lunga più popolare nel nostro Paese, stando alle informazioni sul sito della Lega Calcio c’è una sola squadra in Serie A, il Cagliari, ad aver inserito nell’organigramma ufficiale uno psicologo nello staff tecnico. Così i calciatori si ritrovano a dover cercare una figura così importante nel loro percorso di maturazione, personale e professionale, al di fuori del contesto che dovrebbe metterli il più a loro agio possibile: la società. Proprio a tale proposito bisogna riconoscere che, mentre noi persone normali siamo considerate sotto tanti aspetti diversi, gli atleti vengono esclusivamente giudicati per il loro risultato. Di chi siano fuori dalle telecamere se ne sa (oltre che interessa) ben poco, quindi il successo nel loro mestiere è essenziale per la loro reputazione, e dovrebbe essere proprio l’ambiente attorno al quale gravitano a fornirgli gli strumenti necessari per sfruttare il più possibile le loro potenzialità. ”Fino a qualche tempo fa c’era un contatto più diretto tra gli sportivi e i giornalisti, gli unici col diritto di poterli raccontare; con l’avvento dell’era digitale, oggi gli atleti sono tartassati da messaggi spesso denigratori che usano le loro prestazioni per parlare male anche della loro persona” ci dice Gianluca Panella, psicologo dello sport e co-autore del libro Allenare le emozioni nello sport: la via bottom-up scritto con Giuseppe Carzedda, Giuseppe Godino e Silio Limiti.
A mettere in guardia ulteriormente sull’aspetto emotivo degli atleti si è aggiunto il Covid-19, che ha peggiorato drasticamente la situazione legata ad atleti vittime di ansia e sintomi depressivi: in uno studio di fine marzo della FifPro (il sindacato mondiale dei calciatori) si evince che sia raddoppiato rispetto all’ultimo studio di gennaio la percentuale di calciatori e calciatrici depressi (il 22% delle donne e il 13% degli uomini), mentre si parla di ansia generalizzata rispettivamente per il 18% e il 16%. I motivi sono multipli. Intanto è venuta a mancare per tanto tempo l’adrenalina, che per loro è benzina esistenziale, e seppur l’attività ormai sia ripresa, giocare in stadi vuoti senza migliaia di persone che incitano e gridano il tuo nome fa sentire indubbiamente più solo. L’altro aspetto a spaventare la categoria è il tempo: anche qui bisogna distinguere la carriera lavorativa di una persona normale, che finisce dopo i 60 anni, e quella di un atleta che dai 40 deve reinventarsi. Per non parlare delle calciatrici donne, pagate una cifra irrisoria, con paure di natura economica. Il timore che accomunava entrambi i sessi, invece, è il vuoto: “Il nostro incubo è il dopo, quando sarà tutto finito, che facciamo? Chi siamo? -ha raccontato in un’intervista Elena Linari, calciatrice della nazionale italiana- “Non abbiamo mai affrontato il mondo del lavoro, e capisco come per qualche giocatore o giocatrice questa lunga assenza dal campo possa rappresentare un anticipo di quel vuoto che fa paura.”
Psicologia e sport: un binomio imprescindibile
La lettura del libro Allenare le emozioni nello sport e il confronto con il dottor Panella hanno portato alle seguenti considerazioni sull’importanza del fattore emotivo nello sport. Partiamo dal presupposto che le emozioni si esibiscono nel teatro del corpo, influenzando ogni nostro comportamento in qualsiasi contesto ci troviamo. Nello sport però si manifestano nella loro forma più dirompente, perché viene richiesta la coordinazione di mente e corpo nel minor tempo possibile. Alla base di questa affermazione c’è la volontà di concepire l’individuo non frammentato in aspetto corporeo, intellettuale ed emotivo ma come unione di queste tre componenti. Per questo è importante educare l’atleta all’ascolto del proprio corpo in un’accezione anche emotiva e non solo “meccanicistica”, affinché impari a riconoscere il più efficientemente possibile i segnali provenienti dal corpo.
La psicologia dello sport permette di acquisire conoscenze sul funzionamento psicologico dell’atleta durante l’attività sportiva e sulle modalità con cui tale fattore possa influenzare la performance. Grazie all’intervento di un esperto, l’atleta acquisisce gli strumenti necessari per migliorare la propria prestazione, affiancando all’allenamento fisico l’utilizzo di tecniche che lavorano sulla dimensione psicologica per una migliore gestione dell’emotività nella pratica sportiva. Il lavoro dello psicologo è incentrato non tanto sul cosa ma sul come gestire le varie problematiche, derivanti da tutte quelle percezioni e sensazioni in cui siamo costantemente immersi. Le emozioni spesso rappresentano il vero ostacolo con cui confrontarsi per poter esprimere le proprie potenzialità e concretizzarle nel risultato in gara. Per questo motivo, per un atleta è fondamentale avere padronanza di sé e delle proprie risorse, imparando a dare significato a ciò che prova e ad affrontare più serenamente eventuali difficoltà.
Occorrerebbe realizzare una rivoluzione culturale all’interno della società per sradicare i pregiudizi e i tabù su ciò che riguarda la dimensione emotiva della persona, troppe volte considerata come indipendente dalla soggettività. Non di rado, quelle che sono reali problematiche vengono ignorate senza essere approfondite, talvolta limitandosi ad intervenire sui sintomi. “Un atleta va mentalmente allenato e non necessariamente curato: è fondamentale lavorare in un’ottica non esclusivamente curativa e occasionale, bensì continuativa e preventiva”. La figura dello psicologo dello sport può costituire una variabile determinante, sia per l’atleta singolo sia per la squadra. In Italia, la Figc prevede nell’organigramma del settore giovanile l’inserimento dello psicologo dello sport, al fine di creare una direzione uguali per tutti e un ambiente che permetta di offrire agli atleti la migliore esperienza sportiva possibile. Affinché ciò avvenga, però, il lavoro deve essere svolto a più livelli, dai giovani atleti fino ai dirigenti, passando per allenatori e genitori. Molte società si avvalgono di uno psicologo dello sport, ma spesso si tratta di una presenza davvero poco continuativa e di facciata. L’allenatore non viene sostituito ma affiancato dallo psicologo nel fondamentale ruolo di educatore quale deve essere per i ragazzi. Gli obiettivi della società, per essere raggiunti, devono essere sincronizzati con quelli singoli di ciascun atleta, frutto dei loro reali bisogni personali. Se non c’è armonia nelle dinamiche interne della società, si rischia di andare incontro al cosiddetto “drop out sportivo” dei giovani atleti che abbandonano l’attività. In generale, ciò che spinge i ragazzi a iniziare uno sport è sicuramente la voglia di divertirsi, di fare parte di un gruppo e fare amicizia, migliorare le proprie abilità; nel momento in cui non sono più soddisfatti questi loro bisogni primari, lo sport si trasforma in un obbligo, fonte di insicurezza e insoddisfazione. Troppo spesso le realtà sportive si limitano a dare degli obiettivi cronometrici, trascurando le necessità dei ragazzi e alimentando la tendenza al fare frenetico piuttosto che al sentire. Il campo è un contenitore di sensazioni e proiezioni oltre che di azioni e tecniche, per questo rappresenta un luogo di formazione per la vita.
“Il campione oggi è colui che riesce ad integrare intelligenza emotiva con quella cognitiva e a trovare un equilibrio nel tempo, non solo nel talento che mette in pratica in campo, associandolo alla maturità e soprattutto alla cultura” conclude Panella.
Come dimostrato all’interno dell’articolo, oramai non si può tirare una linea di demarcazione netta fra la prestazione sportiva e l’aspetto emotivo che ne è alla base. La speranza è che una maggiore riflessione condivisa sul tema permetta sempre più agli atleti di poter affrontare con serenità le proprie debolezze anche grazie al sostegno delle proprie società di appartenenza. Un supporto psicologico che sia il più possibile continuativo nel corso della carriera sportiva fin dalle prime fasi.