Per accessibilità si intende la capacità di fornire informazioni fruibili a tutti, inclusi coloro che a causa di disabilità necessitano di tecnologie assistive o configurazioni particolari. Abbattere le barriere alla fruizione dei contenuti è il primo passo per permettere a più persone di partecipare e contribuire al cambiamento.
Per questo noi di Scomodo stiamo cercando di inserire strumenti che favoriscano la lettura e la navigazione del nostro sito a quanti più utenti possibile.
Cosa stiamo facendo? Stiamo cercando di migliorare sempre di più l’accessibilità delle informazioni e delle interazioni anche per chi ha necessità particolari: come ad esempio chi può navigare solo con la tastiera, oppure chi ha difetti della vista o disturbi del neurosviluppo che riguardano la capacità di leggere.
Un menu laterale, sempre visibile, ti permette di modificare la visualizzazione della pagina in modo da facilitare la navigazione a seconda delle tue esigenze:
Hai trovato difficoltà? Puoi scrivere a tancredi@leggiscomodo.com.
Il tuo aiuto ci fornirà ulteriori spunti per migliorare l’accessibilità del nostro sito.
Chiudi
“Il potere segreto” e l’epopea di Julian Assange
Con il verdetto del 20 aprile scorso, la Westminster Magistrates’ Court di Londra ha formalmente emesso l’ordine di estradizione negli Stati Uniti per Julian Assange. L’ultimo passo prima che il provvedimento diventi esecutivo è ora la convalida della ministra degli Interni inglese Priti Patel, che a questo punto pare tuttavia scontata. Dopo dodici anni dall’inizio della vicenda giudiziaria, Julian Assange si ritrova adesso a fare i conti con il timore più grande: affrontare la giustizia americana. La causa ha poco a che fare con la giurisprudenza ed il diritto ma ha la sua chiave di lettura nello scacchiere geopolitico globale.
Il caso Assange, una sconfitta politica e del diritto universale
Non a caso sono coinvolti paesi così diversi tra loro, dalla Svezia, all’Ecuador, passando per il Regno Unito e la Russia, legati tra loro da un unico filo che sembrerebbe aver infine condotto il fondatore di WikiLeaks negli States. Questi ultimi, insieme ai suoi alleati, si sono infatti mossi per salvaguardare la propria credibilità di superpotenza. Nel farlo, però, hanno calpestato quegli stessi diritti e violato quelle stesse tutele che proprio Assange aveva già denunciato fossero state tradite dai governi occidentali.
Il diritto ad un giusto processo è universalmente riconosciuto come una delle prerogative fondamentali dell’uomo, quell’insieme cioè di norme giuridiche passato alla storia come “diritti umani”. Tra i pilastri delle costituzioni di tutto il mondo, i diritti umani affondano le loro radici nella lunga tradizione politica occidentale. Già la Magna Charta poneva, in uno dei suoi articoli più importanti, grossi limiti all’arbitrarietà del sovrano di procedere ad arresti preventivi e conferiva assoluta priorità all’esecuzione di un regolare processo che precedesse qualsiasi tipo di pena, gettando le basi di quel principio inalienabile che verrà poi riconosciuto come Habeas Corpus. Da lì in poi la filosofia politica occidentale ha insistito su questa dottrina, al punto da farla diventare uno dei motori delle rivoluzioni francese e americana e delle successive costituzioni, ma soprattutto modello di tutte quelle che sono venute in seguito.
Il caso Assange ci racconta però una storia diversa, in cui la tradizione ha di fatti ceduto il passo alla realpolitik. Solo in questo modo è infatti possibile comprendere le ragioni che hanno spinto paesi come il Regno Unito, di cui la Charta è ancora parte della costituzione, e la Svezia, universalmente riconosciuta per la tutela dei diritti umani, a dare vita ad una paradossale macchinazione kafkiana ai danni di un singolo uomo.
Cronologia di una negazione
Dal 2010 al 2019 Assange non si è mai visto riconoscere il diritto ad un giusto processo. Ben nove anni vissuti in una stanza dell’ambasciata ecuadoregna a Londra, a causa di un pantano giudiziario sviluppatosi nel cuore dell’Europa. In tutto questo tempo il giornalista si è sempre mostrato disposto a collaborare con le autorità di entrambi i paesi. L’unica sua richiesta era quella di non essere estradato, perché avvertiva il rischio che dietro i giudici svedesi ci fosse l’ombra degli Stati Uniti. Timori rivelatosi poi fondati, come emerso dai FOIA richiesti dalla giornalista italiana Maurizi analizzati ampiamente all’interno del libro edito da Chiarelettere “Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e Wikileaks”, che hanno provato le pressioni dell’FBI sulle procure di entrambi i paesi. Accertato che nelle comunicazioni tra la Swedish Prosecution Authority e il Crown Prosecution Service ci siano state intromissioni del governo americano, il caso Assange deve per forza di cose essere inquadrato in un contesto di relazioni politiche tra alleati.
Svezia ed Inghilterra hanno permesso ad un terzo stato, che ufficialmente non aveva aperto alcun procedimento nei confronti dell’imputato, di interferire con i propri apparati giudiziari, di fatto contravvenendo ad ogni norma di diritto internazionale e alla tutela dei diritti dell’uomo. Tutto questo per colpire consapevolmente un giornalista, reo di aver fatto emergere la parte più corrotta e violenta della macchina di potere occidentale. Con la pubblicazione degli Iraq e Afghan War Logs, prima, e con lo scandalo del Cablegate, poi, Assange aveva di fatti assestato un duro colpo alla supposta preminenza occidentale in termini etici e morali. I modi con cui gli Stati Uniti e i loro alleati avevano condotto i conflitti in Medio Oriente scadevano in veri e propri crimini di guerra. Ma è con il Cablegate che le persone hanno potuto capire quanto quel senso di impunità e di superiorità fosse una condizione insita alla classe dirigente occidentale, disposta, nell’esercizio delle proprie funzioni, ad andare oltre la legalità in nome dei propri interessi.
Assange mostrava così al mondo l’ipocrisia del blocco occidentale, che nello scacchiere internazionale si è sempre posto come garante della democrazia e dei diritti umani. È per rispondere a questo attacco che Svezia ed Inghilterra hanno tradito alcuni dei propri principi fondatori. Proprio quell’Inghilterra che, negli stessi anni in cui teneva Assange sotto scacco, portava avanti una battaglia internazionale a tutela della giornalista anglo-iraniana Zaghari-Ratcliffe, accusata da Teheran di essere una spia inglese. Un caso che ricorda da vicino la vicenda del fondatore di WikiLeaks. Perché allora Assange ha ricevuto un trattamento così diverso? La risposta ancora una volta è da ricercare nella necessità degli alleati di mettere a tacere una voce tanto scomoda e pericolosa. Solo in questo modo acquista di senso anche il comportamento della civilissima Svezia. Quella stessa Svezia che però già nel 2001, su richiesta esplicita della CIA, violava il diritto di due richiedenti asilo egiziani di non essere trasferiti nel proprio paese, dove c’era il rischio concreto di essere soggetti a torture. D’altronde, Assange denunciava esattamente la stessa minaccia.
C’era una volta chi non si piegava
Visto col senno di poi, dato dal susseguirsi di eventi che hanno caratterizzato la questione Assange – da ultimo la decisione della Corte Suprema del Regno Unito di rifiutargli la possibilità di appellarvisi per contestare la pronuncia giudiziaria in favore dell’estradizione negli Stati Uniti – il fatto che uno stato minore come l’Ecuador decidesse di mettersi contro quella che era, ed è tuttora, la principale superpotenza globale sembrerebbe la classica favola della buonanotte, un’irrealistica storia di Davide contro Golia, dall’esito incerto.
Eppure nel 2012, quando l’America Latina era in piena pink tide – l’ondata di governi di sinistra installatisi in tutto il sudamerica con un’agenda politica in forte opposizione alle derive neoliberiste di stampo USA – l’Ecuador di Rafael Correa fece esattamente quello. Le posizioni dell’allora Presidente dell’Ecuador erano quelle di un paese che pur continuando ad intrattenere rapporti civili con gli USA – che costituivano infatti il principale partner economico – decideva di non assecondare richieste dettate solo da politiche di potenza e dalla volontà di nascondere all’opinione pubblica le prove dei crimini di guerra di cui si era macchiato in più occasioni. A prescindere dalle ritorsioni che si sarebbero potute scatenare sull’Ecuador, quando il 19 giugno 2012 Julian Assange decise di violare le regole del rilascio su cauzione per sfuggire all’estradizione concessa dal sistema giudiziario inglese – per procura rispetto alle pressioni fatte dall’alleato statunitense – l’allora console dell’Ecuador a Londra, Fidael Narvàez, non gli rifiutò l’asilo diplomatico, come prescrive il diritto internazionale che considera le ambasciate luoghi sacri anche in periodo di guerra.
In risposta alle dichiarazioni del governo britannico, che il giorno prima aveva minacciato di assalire l’ambasciata, Narvàez rispose poi fermamente “Non siamo una colonia inglese. È finito il tempo delle colonie”. Come riporta Stefania Maurizi nel suo libro, Narvàez non avrebbe mai fatto mancare il suo appoggio ad Assange anche negli sviluppi successivi della sua questione, e l’Ecuador di Correa si sarebbe premurato di far sapere al Ministero degli Esteri della Svezia che Assange, tramite i suoi avvocati, aveva dato disponibilità ad essere interrogato in merito alle presunte accuse di stupro che gli erano state mosse da una procuratrice svedese, nelle strutture dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra. A ciò, le autorità del piccolo paese sudamericano avrebbero aggiunto che “l’ambasciata dell’Ecuador vuole rendere nota la disponibilità del governo a fornire la cooperazione necessaria” per permettere lo svolgersi delle indagini della procura svedese. Offerta alla quale il ministero svedese non rispose mai.
In seguito però la situazione cambiò radicalmente. Con l’avvicendarsi al governo dell’Ecuador di Lenìn Moreno, le condizioni di soggiorno di Assange nell’ambasciata andarono progressivamente deteriorandosi. Come riferisce sempre Maurizi, sebbene di fatto privato arbitrariamente di molte delle sue libertà personali – come sottolineato da un report del Working group on Arbitrary Detention dell’ONU – Assange era sempre stato libero di ricevere ospiti nell’ambasciata in libertà e relativa tranquillità. Già nel settembre 2017, tuttavia, in occasione di una visita ad Assange, Maurizi era stata oggetto di un trattamento inusuale e invasivo: costretta a lasciare il suo materiale giornalistico al personale della security incaricata di proteggere l’ambasciata ecuadoriana – la UC Global – avrebbe scoperto che il suo incontro con Assange era stato filmato e registrato, come avvenuto ai suoi materiali giornalistici, fotografati.
L’agenzia di sicurezza in questione non era infatti un’agenzia come le altre: come riportato da Maurizi nel suo libro, si occupava di raccogliere documentazione riguardante le attività di Assange e dei suoi visitatori – arrivando persino a spiare il capo del Senain, il dipartimento ecuadoriano dei servizi segreti, in occasione di una sua visita. La risposta si trova in un viaggio del suo direttore, David Morales, ad una fiera a Las Vegas nel 2016, dal quale sarebbe tornato con in tasca un remunerativo contratto di sicurezza con un’azienda il cui proprietario era Sheldon Adelson, il principale finanziatore della campagna elettorale di Trump. Morales avrebbe poi detto ai suoi dipendenti che la loro operazione di spionaggio era da condursi per conto degli americani, come riportato nella documentazione d’inchiesta condotta in seguito dalla procura spagnola, a causa dell’opacità dei traffici. Come scoperto, la documentazione raccolta dalla UC Global arrivava infatti agli “american friends” – descritti così da Morales – per il tramite di server il cui accesso Morales avrebbe intimato di precludere allo stesso Ecuador. Nulla di stupefacente da parte di un uomo che si sarebbe definito “un mercenario in tutto e per tutto”.
La procura spagnola, peraltro, ha chiesto la collaborazione statunitense per rintracciare gli indirizzi IP da cui avvenivano gli accessi al server che conteneva i materiali raccolti illecitamente, senza ricevere alcuna collaborazione. Nel mentre, come temuto da Assange, a dicembre 2017 negli USA veniva emesso un ordine di arresto – coperto da segreto – ai danni del giornalista australiano. Nonostante il ricorso del team legale di Assange alla Corte Interamericana dei Diritti Umani si fosse tradotto nell’intimazione della Corte all’Ecuador di non trasferirlo negli USA – in obbedienza al principio di non-refoulment – dove rischiava torture e trattamenti inumani e degradanti, a questo giro il supporto dell’Ecuador sarebbe venuto a mancare. Già a marzo 2018 Moreno decide di tagliare Assange fuori dal mondo, impedendogli di ricevere visite ed installando nell’ambasciata dispositivi che gli impedivano di collegarsi ad internet. Sul The Intercept, tre settimane dopo, il premio Pulitzer Glenn Greenwald avrebbe affermato che questa mossa era dovuta alla pressione diplomatica della Spagna – di cui l’Ecuador era stato colonia fino al 1830 – e dei suoi alleati NATO, poiché il governo spagnolo si era stizzito davanti ai commenti su Twitter di Assange sui metodi di repressione adottati da esso nei confronti degli indipendentisti catalani. Proprio il peso specifico delle pressioni spagnole avrebbe portato all’espulsione di Assange, che aveva perso il supporto del console Narvàez – rimosso – e della Ministra degli Esteri ecuadoriana, Espinosa, che aveva lasciato il governo.
Cosa si celava, però, dietro al cambio di politica così netto e improvviso dell’Ecuador di Lenìn Moreno? Narvàez, intervistato da Maurizi, ha sciolto l’enigma sottolineando il riavvicinamento delle politiche di Moreno a quelle di uno stato colonizzato e subordinato, affermando che una simile politica era nel perfetto stile servile del nuovo Presidente: come evidenziato dal Financial Times, due mesi prima dell’arresto l’Ecuador aveva ottenuto un prestito di 4,2 miliardi di dollari dal Fondo Monetario Internazionale – al quale Narvàez confessò che Correa non aveva mai voluto rivolgersi, conoscendone appunto i rischi e le condizionalità, taciute o meno. Il riallineamento dell’Ecuador su posizioni di subalternità agli States era peraltro, a detta di Narvàez, un processo organico e dalle molte sfaccettature, che ai contatti più stretti col FMI vedeva accompagnarsi la sigla di diversi trattati di cooperazione militare e di sicurezza. Assange, come testimoniato dalla revoca dell’asilo e successiva espulsione dall’ambasciata ecuadoriana l’11 aprile 2019, aveva quindi perso anche i suoi alleati istituzionali più fidati nella partita internazionale che si giocava sulle sue spalle. Solo una potenza rimaneva – paradossalmente – interessata alla difesa di soggetti invisi ai regimi occidentali per averne messo in luce le attività più oscure e brutali, l’unica potenza la cui TV di Stato aveva filmato in diretta l’espulsione e l’arresto di Assange e che aveva concesso asilo politico al whistleblower Edward Snowden, nonostante figuri alla centocinquantacinquesima posizione su centottanta nel World Press Freedom Index di Reporters without Borders: la Russia.
“Quanto” Assange c’è nel caso Snowden?
A primo impatto sembrerebbe possibile evidenziare molti parallelismi tra la storia di Julian Assange e quella di Edward Snowden. In realtà però le due storie, si incontrano, si intrecciano ma affrontano il medesimo tema secondo due approcci diversi.
Ciò che collega inizialmente queste due figure, è il ruolo che hanno deciso di ricoprire, spogliandosi della propria identità, finendo per essere identificati solo con ciò che hanno realizzato e rappresentato tanto per gli Stati Uniti, quanto per il resto del mondo. Snowden è diventato un whistleblower quando, nel 2013, ha deciso di denunciare e raccontare al mondo intero l’esistenza di un gigantesco progetto di raccolta di dati di massa che riguardava ogni individuo che facesse uso di forme di comunicazione tecnologica, con l’obiettivo di mettere in sicurezza gli Stati Uniti dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre. Ha reso in questo modo semplice e alla portata di tutti conoscere il PRISM, ovvero un programma usato per sorvegliare e gestire le informazioni raccolte attraverso Internet ed altri fornitori del campo elettronico e telematico, considerato come un programma di massima segretezza. Dopo la notizia lanciata dal The Guardian, la National Security Agency (NSA) subì un impatto mediatico oltre ogni aspettativa, e non bastarono le giustificazioni di qualcuno basate sulla qualità dei dati raccolti, sostenendo che in realtà i metadati non potessero rivelare informazioni personali poi chissà quanto rilevanti, perché la teoria venne presto abbandonata: le informazioni erano chiare, numerose e conosciute anche da chi non avrebbe dovuto.
Da quel momento Snowden e Assange avevano parecchie cose in comune. Entrambi avevano bucato quella fitta rete di potere impenetrabile, fatta di segreti e informazioni riservate, di abusi e privacy violate, guerre ed alleanze nascoste, informazioni che solo poche persone hanno il privilegio e il peso di poter conoscere, e ancora meno persone hanno il coraggio e forse anche un po’ di ingenuità per metterle a disposizione dell’intera comunità. L’Espionage Act, una legge risalente alla prima guerra mondiale sancisce un altro degli elementi in comune tra i due. Questa legge datata 1917 rende un crimine federale per chiunque interferire o tentare di minacciare e/o indebolire le forze armate statunitensi durante una guerra, o assistere in ogni modo gli sforzi bellici dei nemici della nazione, punendo in questo modo qualsivoglia atto di spionaggio. La linea però che divide lo spionaggio dall’attività giornalistica in questa caso è estremamente sottile, e peraltro questa legge non permette alcuna forma di protezione in tribunale dalle accuse rivolte nei confronti degli accusati. Sulla base di tale legge sono stati accusati di tre reati Snowden e ben diciassette Assange, condannandoli a trascorrere un quantitativo di anni in carcere molto sostanzioso.
Chelsea Manning può essere considerata un esempio di ciò che questa legge può comportare: come riporta Maurizi nel libro, “Il trattamento di Chelsea Manning da parte del governo americano portava a temere il peggio. Dopo il suo arresto, nel 2010, la fonte di WikiLeaks era stata imprigionata prima in Kuwait e poi nella base dei marine di Quantico in Virginia, dove veniva trattata in modo molto duro. Tenuta in isolamento ventitré ore al giorno, denudata, sottoposta alla privazione del sonno perché costretta a rispondere ai continui appelli delle guardie anche di notte, privata della possibilità di fare esercizio fisico, anche all’interno della sua cella, e degli occhiali da lettura, in modo che non potesse nemmeno leggere”. WikiLeaks è stato per Snowden ciò che il giornale di Assange non era riuscito ad essere per Chelsea Manning, una strada alternativa in cui il whistleblower non fosse solo. Per il giornale, viceversa, Snowden rappresentava la possibilità di rivendicare le ingiustizie subite da Chelsea Manning e gridare ad alta voce la libertà di stampa che quel caso aveva calpestato e reso a brandelli dopo le decine di accuse e l’obbligo di trovare rifugio in qualche angolo del mondo ad Assange.
Rendere meno complicata la vita di Snowden dopo le informazioni condivise voleva anche trasmettere un’altra idea: il lavoro dei whistleblower era troppo importante per essere sommerso dalle paure e dalle angosce di potenziali ripercussioni statunitensi. Agli Stati Uniti peraltro non era concesso alcun passo falso, un precedente di grazia nei confronti di uno di loro avrebbe significato porre gli Stati Uniti in una situazione di estrema vulnerabilità. La strada alternativa che Wikileaks trovò a Snowden però rappresenta un grande paradosso, la Russia infatti è stato l’unico paese al mondo in cui Snowden era riuscito a rifugiarsi, a trovare dei volti amici, gli stessi volti che ogni giorno censurano il lavoro d’inchiesta e seviziano i giornalisti russi. Nel giugno 2013 la Russia concesse l’asilo temporaneo a Snowden, la notizia fu accolta non di buon occhio dalla Casa Bianca, l’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama infatti decise di saltare l’incontro che si sarebbe dovuto tenere con il presidente russo. Quella scelta non passò di certo inosservata, i rapporti tra Stati Uniti e Russia infatti non sono mai stati completamente distesi e la decisione di concedere un asilo temporaneo alla figura che da quel momento rappresentava uno dei più grandi nemici per la sicurezza statunitense, evidenziava ancor di più la posizione che il Cremlino voleva assumere nei confronti dello stato americano. La libertà di stampa in quel momento, nonostante il lieto epilogo, sembrava nuovamente posta in secondo piano, coperta da interessi politici e scelte strategiche, da leader e paesi che danno la caccia a chi condivide informazioni riservate ma che diventano un porto sicuro se si tratta di sferrare un altro attacco al proprio nemico.
Articolo di Federica Carlino, Diego Laudato e Luigi Simonelli