I nuovi assetti politici in Palestina e Israele

L'aggressione di maggio ha modificato gli equilibri politici in Palestina e Israele

14/07/2021

Il cessate il fuoco del 20 maggio, che ha interrotto i bombardamenti su Gaza, ha abbassato – anche se solo temporaneamente –  il livello dello scontro militare e dei suoi effetti distruttivi su civili e infrastrutture. Questo, però, ha lasciato spegnersi la breve attenzione dei media mondiali che per qualche giorno avevano diretto le telecamere su quanto stava accadendo in Palestina e in Israele. 

I più di sei milioni di palestinesi che vivono oggi nei Territori occupati, a Gaza e nello Stato di Israele sono, però, ancora lì.

Gli scontri all’origine della escalation di violenza, che ha portato ai bombardamenti su Gaza, sono scoppiati a Gerusalemme Est: la Città Vecchia, sacra per le tre religioni monoteiste e capitale dello Stato di Palestina mai nato.  Alcuni dei suoi quartieri, come Sheikh Jarrah, sono a grande maggioranza palestinese ma una legge vigente permette ai cittadini israeliani di rivendicare diritti su case oggi abitate da famiglie palestinesi a Gerusalemme Est, in virtù di antichi titoli di proprietà delle terre, a volte antecedenti alla nascita stessa dello Stato di Israele.  Stando a quanto riporta il Rapporto Ocha 2021, attualmente ammontano a 180 le famiglie sotto sfratto: più di 800 palestinesi che verrebbero sostituiti nelle proprie abitazioni familiari da cittadini israeliani, coloni .

Si tratta di un processo in atto già da tempo e che non si limita solo a Gerusalemme. I settlements, ovvero le colonie illegali – spesso non solo per la legge internazionale, ma non riconosciute formalmente neanche dallo Stato di Israele – sono insediamenti israeliani diffusi all’interno dei Territori palestinesi. Attraverso l’acquisizione violenta delle terre, sostenuta talvolta anche dall’esercito israeliano, gruppi religiosi di estrema destra fanno da punta di sfondamento per aumentare la presenza di cittadini israeliani oltre i confini ancora non definiti del loro Stato. L’obiettivo di questo modus operandi è frammentare la continuità territoriale delle aree sotto il controllo palestinese, minando le fondamenta di una qualsiasi possibilità di costruzione di uno Stato palestinese indipendente e alimentando, di fatto, una continua guerra a bassa intensità.

 

Le elezioni in Palestina: un’occasione mancata

La complessità del quadro politico palestinese sconta l’evolversi di più di 70 anni di occupazione militare, di resistenza quotidiana e di tentativi di pace. La religione non è sempre stata al centro del dibattito.

Negli anni ‘60 e ‘70, gruppi di rivoluzionari e intellettuali marxisti, come Ghassan Kanafani, riuniti nel Fronte Popolare per la Lliberazione della Palestina (FPLP) avevano costruito una prospettiva laica di giustizia e di libertà per il popolo palestinese. La repressione fu molto dura.

Nel 1994 la sottoscrizione degli Accordi di Oslo sembrò rappresentare un’inedita opportunità di pace tra lo Stato di Israele e il popolo palestinese, costituendo un passo decisivo per la leadership laica dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) – che riuniva le fazioni politiche armate palestinesi, con un importante ruolo egemone di Al-Fath, partito laico che per anni rappresentò la causa palestinese sotto la guida di Yasser Arafat. Infatti, attraverso l’accordo l’OLP si impegnava a riconoscere l’esistenza dello Stato di Israele in vista della formazione di uno Stato di Palestina indipendente. In breve, ciò che i media e la comunità internazionale oggi ancora chiamano «soluzione dei due popoli, due Stati». Un’opzione che non si concretizzò mai e che causò profondi mutamenti negli assetti politici palestinesi. 

Il fallimento della linea diplomatica, infatti, e il continuo espandersi degli insediamenti israeliani nei territori palestinesi, il perpetuarsi delle violenze e ingiustizie subite dai civili, ha rotto il legame del popolo palestinese con la sua leadership.  Questo in parte spiega la crescita di consensi per le fazioni, più identitarie, che vedevano nel fondamentalismo islamico e nel jihad (lo sforzo – guerra santa) l’unica forma di resistenza possibile, determinando la radicalizzazione religiosa della politica palestinese e l’affermazione dilagante del Movimento Islamico di Resistenza, ovvero Hamas. Proprio negli anni successivi al fallimento degli Accordi di Oslo, infatti, alimentando una recrudescenza dello scontro che portò alla Seconda Intifada agli inizi del 2000, Hamas accrebbe la propria popolarità nella società civile palestinese.

L’intromissione israeliana nelle elezioni del 2006 e lo scontro tra Hamas e Al-Fatha portarono il movimento islamico ad assumere violentemente il controllo militare della Striscia di Gaza, mentre il partito di Arafat mantenne la gestione dell’Autorità Nazionale Palestinese, nei Territori occupati. Questa situazione portò l’esercito israeliano a imporre un embargo totale su Gaza che perdura ancora oggi. Il peso di questa doppia oppressione – un governo fondamentalista e un embargo militare – è pagato da due milioni di civili.

Le nuove elezioni si sarebbero dovute svolgere in questi mesi e avrebbero di certo messo in discussione i centri di potere attualmente esistenti: Hamas che detiene il controllo militare della Striscia di Gaza e l’Autorità Nazionale Palestinese – guidata ancora da Al-Fatha, il partito di Arafat – che governa parzialmente la West Bank. 

Una vittoria laica a Gaza avrebbe reso difficile per il governo israeliano mantere lo stato di assedio della Striscia, mentre una vittoria di Hamas in West Bank avrebbe messo in seria difficoltà la gestione dell’Autorità Nazionale Palestinese. Anche se formalmente alternativo, infatti, questo residuo degli accordi di Oslo è un organo amministrativo e di sicurezza sostanzialmente complementare al sistema di occupazione israeliano, come dimostrano gli scontri violenti in corso a Ramallah in questi giorni.

Le elezioni sono state rinviate a data da destinarsi quando il governo israeliano ha negato la possibilità per i cittadini palestinesi di Gerusalemme Est di votare. Poco male, per chi ha interessi, piccoli e grandi, nel mantenimento dello status quo.

Un processo di democratizzazione e rinnovamento del sistema palestinese darebbe, invece, nuova forza e protagonismo alle generazioni di giovani, fino ad oggi esclusi completamente dalla politica. Loro, però, che sono la maggioranza della popolazione, in questi mesi hanno dimostrato di esistere e di saper e voler resistere. 

 

Il governo del cambiamento in Israele

Domenica 13 giugno, dopo un’intensa riunione della Knesset – il parlamento israeliano – Benjamin Netanyahu torna a sedersi, scuro in volto. Il posto è lo stesso che occupa da 12 anni, quello riservato al primo ministro israeliano. Le telecamere, però, riprendono un uomo che si avvicina e sussurra qualcosa all’orecchio di Bibi: lui si alza in fretta e va a sistemarsi nella fila immediatamente alle spalle. Ciò che era sfuggito alla mente di Netanyahu, come nel più classico dei lapsus, è che da pochi minuti, dopo il voto di fiducia espresso dalla Knesset, quella poltrona non spettava più a lui.

Quel giorno, infatti, il parlamento israeliano aveva appena votato (con una maggioranza risicatissima di 60 voti a 59) per la formazione di un governo che potrebbe essere definito “di larghissime intese”: composto, cioè, da ben otto partiti dei più svariati orientamenti politici. Si parte dall’estrema destra sionista di Yamina – il partito di Naftali Bennett, il nuovo primo ministro – passando per i centristi più laici di Yesh Atid, il gruppo più numeroso e che  il premier dall’agosto del 2023, in una staffetta già concordata con il leader Yair Lapid. All’interno della coalizione è presente perfino il partito arabo Ra’am, protagonista di una piccola ma storica svolta: per la prima volta, infatti, un partito arabo entra in un esecutivo israeliano.

Eppure, in tema di prime volte, Bennett è anche il primo premier a portare la kippah in quasi tutte le occasioni pubbliche. Il Jerusalem Post ha curato una interessante analisi riguardo a questo dettaglio: il modo di indossare la kippah (in fondo alla testa, nonostante sia calvo) e lo stesso tipo di copricapo (piccolo e lavorato all’uncinetto) segnala che Bennett è annoverabile tra i più “moderni” all’interno della comunità ortodossa ebraica. A differenza degli ultraortodossi haredi (che indossano una kippah di velluto nero) o dei più nazionalisti (caratterizzati da una kippah più grande o lavorata a maglia).

Questo dettaglio apparentemente insignificante può invece rivelare molto delle politiche interne del prossimo governo. Un primo problema da affrontare sarà, infatti, l’esclusione dalla vita lavorativa proprio degli haredim. Da sempre questi ebrei ultraortodossi – che sono tra l’altro esentati dalla leva militare – sono educati allo studio della Torah piuttosto che all’inserimento nella forza-lavoro israeliana, e negli ultimi dieci anni i governi di Netanyahu hanno sostenuto la loro scelta di rifiutare una formazione laica con ingenti sussidi per gli haredim che si dedicano full-time alla vita religiosa. Il risultato è che, nel 2018, solo il 51% degli ultraortodossi era occupato, a fronte di un 87% nel resto della popolazione.

L’assenza degli ultraortodossi dalla coalizione e la religiosità “di compromesso” praticata dallo stesso Bennett potrebbero confermare le previsioni di un intervento in materia. Così come la presenza di Ra’am sembra invece destinata a migliorare, almeno parzialmente, le condizioni di un’altra fetta importante della società israeliana: gli arabi d’Israele, che compongono circa il 20% della popolazione del Paese. Questa minoranza vive da sempre in uno stato di sottosviluppo economico, imposto anche da leggi discriminatorie e a tutti gli effetti segregazioniste. In questo senso, il programma dell’alleanza di governo prevede una spesa di 15 mld di dollari in infrastrutture e politiche sociali nelle città arabe, così come un intervento riguardo alla mancanza di pianificazione urbanistica in quelle aree.

Difficile, invece, che un esecutivo così frammentato riesca ad imporre sostanziali svolte nella politica estera israeliana, e in particolare sulla questione palestinese. In passato, Bennett aveva espresso posizioni totalmente contrarie alla nascita di uno Stato palestinese, e favorevoli invece al persistere – e all’espandersi – dell’occupazione israeliana nei territori di Gerusalemme Est e della West Bank. In un video del 2012 l’attuale premier illustrava una “iniziativa di stabilità” definita anche “Piano di Annessione Parziale”: consisteva nell’annessione, da parte di Israele, dell’intera Area C della West Bank, che ne rappresenta circa il 60% del territorio.

È probabile, però, che la necessità di tenere in piedi un’alleanza così complessa potrebbe sortire come effetto una sorta di immobilismo: la costruzione di nuovi insediamenti potrebbe essere bloccata, senza però smantellare quelli già esistenti. Ma se da un lato il conflitto israelo-palestinese potrebbe essere accantonato, dall’altro la soluzione potrebbe essere ricercata in una fitta rete di rapporti che includono i paesi arabi vicini e il principale alleato di Israele: gli Stati Uniti. Biden ha bisogno del supporto (o del tacito assenso) israeliano per lavorare ad un nuovo accordo sul nucleare con l’Iran, nemico giurato israeliano nell’area. In cambio, gli Usa possono offrire un lavoro di costante ricucitura e nuove riaperture dei rapporti con i paesi della regione che hanno stabilito relazioni diplomatiche con Israele (Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti su tutti) nell’ambito dei cosiddetti “Accordi di Abramo” promossi da Trump, che non sembrano destinati ad essere smantellati, almeno per ora. Una scelta che, però, rischierebbe di confinare il popolo palestinese all’isolamento.

 

Le voci della nuova generazione restano inascoltate

L’escalation di violenza che ha infervorato i mesi di Aprile e Maggio da Gaza a Gerusalemme costituisce senza dubbio uno dei momenti più emblematici della storia della Palestina degli ultimi anni. Nonostante ciò, non devono passare inosservate l’orgoglio e la solidarietà delle proteste che da Gerusalemme si sono moltiplicate nelle città e province palestinesi e che hanno assunto una forma pacifica, riconfermando l’esistenza di nuove voci che non appartengono a partiti politici ma lottano unite per la libertà e la dignità del popolo palestinese. 

In particolare, le nuove generazioni di palestinesi hanno avuto la possibilità di riportare in tempo reale gli eventi e le proteste, postando video, fotografie e informazioni su Facebook, Instagram, Twitter e TikTok. I giovani attivisti oltre che riportare materiale informativo e avviare campagne in sostegno alle famiglie palestinesi (come l’hashtag #SaveSheikhJarrah) hanno messo in atto in molti casi strategie pacifiche di protesta, come dimostrato dalle manifestazioni davanti alla Porta di Damasco, luogo tradizionale di ritrovo dopo le preghiere serali, durante le quali hanno cantato ed eseguito degli esercizi di ginnastica. 

 

Come riportato da Adel Ruished, a partire dal 17 maggio, termine per l’espulsione di numerose famiglie palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, decine di attivisti in difesa dei diritti dei palestinesi hanno avviato una mobilitazione massiccia a Gerusalemme, alla quale è seguita la reazione violenta dei coloni israeliani che hanno risposto con spray urticanti e granate stordenti. Anche in questo caso i manifestanti hanno reagito pacificamente, scegliendo di ballare la dabka, danza tradizionale palestinese. Inoltre, in corrispondenza con l’inizio dei bombardamenti israeliani nella striscia di Gaza, sono state organizzate delle mobilitazioni in città israeliane come Haifa, Taibe e Lod, mentre il 18 maggio è stato indetto uno sciopero di massa “dal mare al fiume”, ovvero dal Mar Mediterraneo al fiume Giordano, in tutta la Palestina delle origini, a cui hanno aderito anche i palestinesi con la cittadinanza israeliana. Questo fenomeno costituisce una delle mobilitazioni più importanti dal ’48 e testimonia un’inedita unità e solidarietà tra i palestinesi di Gaza, Israele e della West Bank. 

In seguito a questi scioperi e alle manifestazioni la polizia israeliana ha predisposto una campagna di arresti nell’ambito dell’operazione “Law and Order”, con l’obiettivo di punire i manifestanti che hanno protestato in Israele a sostegno dei palestinesi. Questa campagna ha disposto l’arresto dei fratelli el Kurd, provenienti da una delle quattro famiglie che ha resistito agli sgomberi di Sheikh Jarrah: il giovane poeta Mohammed e sua sorella Muna, celebre giornalista che con i suoi 1,6 milioni di followers su Instagram ha giocato un ruolo fondamentale nella campagna per impedire l’espulsione delle famiglie palestinesi dal quartiere, attraverso la diffusione di informazioni e dettagli in tempo reale da Gerusalemme Est. 

Questa nuova generazione padroneggia l’inglese, utilizza i social network e conosce le relazioni geopolitiche internazionali, di conseguenza sa di essere sola nella lotta per garantire il rispetto dei diritti fondamentali del proprio popolo. Si evince dalla portata di questi fenomeni la volontà dei giovani palestinesi di costituire un movimento alternativo e autonomo rispetto alla leadership politica attuale, incapace di rappresentarli realmente.
Il mese di resistenza e disobbedienza civile ha portato alla sospensione temporanea dello sfratto delle famiglie di Sheikh Jarrah, ma questo non è bastato ad arrestare le proteste dei giovani attivisti che lottano per ottenere una fine reale delle violenze strutturali e quotidiane, e che si oppongono alla normalizzazione dei soprusi e alla condizione di apartheid, sotto lo sguardo indifferente della comunità internazionale.

Articolo di Simone Martuscelli, Iacopo Smeriglio, Ariel Castagneri