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La figura dei baby influencer tra lavoro e sfruttamento minorile
Contraddizioni e rischi per le giovani star del web.
Ryan Kaji: 10 anni, 33.9 milioni di followers.
Cloe Carpino: 9 anni, 160 mila followers.
Laerta: 8 anni, 1.2 milioni di followers.
Da diversi anni la professione dell’influencer coinvolge anche i minori, creando i cosiddetti baby influencer. Ma esistono delle norme che li tutelano? Chi crea e gestisce realmente i loro profili? Questi interrogativi erano già presenti, sebbene in maniera ridotta, a proposito delle baby star del cinema e il loro prematuro successo in una rete sconfinata. I social hanno solo aumentato questo tipo di dinamiche che non sempre hanno un riscontro positivo. Basti pensare, infatti, a tutti quei minori le cui foto vengono pubblicate dai loro genitori senza un vero e proprio consenso. L’adulto è il garante del minore, ma sui social la voglia di condividere la propria quotidianità prende il sopravvento: ecco che le home si intasano con le informazioni riservate dei più piccoli, come la scuola che frequentano o foto della loro camera. Nella maggior parte dei casi si assiste alla fine della vita privata, all’assenza della tutela dei bambini; in altri – più rari e “fortunati” – alla nascita dei baby influencers.
Sono innumerevoli gli esempi in questo campo, che contano sia i veri e propri baby influencers che i figli degli influencers sulle cui vite si riflette la fama dei genitori. Per la prima categoria uno dei più grandi protagonisti è sicuramente Ryan Kaji, nato nel 2011 in Texas da una famiglia asiatica. Grazie ai suoi video di unboxing di giocattoli Ryan è stato per tre anni consecutivi lo youtuber più famoso al mondo, avendo guadagnato a soli dieci anni già 250 milioni di dollari. Il suo canale, Ryan’s world, conta 33.9 milioni di iscritti e 45 miliardi di visualizzazioni ed è stato aperto in seguito alla semplice domanda del bambino alla madre: “perché non sono su Youtube come gli altri bambini?”.
Sempre tra le star nate sulla piattaforma di video streaming, troviamo Niana Guerrero, bambina filippina del 2006. Il suo canale, creato nel 2013 seguendo le orme del fratello, conta 14 milioni di iscritti: era nato per postare i video di ballo di Niana, ballerina professionista, ma si era poi presto riempito di video comici e scherzi. Il duo costituito da lei e dal fratello Ranz Kyle aveva guadagnato una certa notorietà, ma il vero successo per Niana è arrivato quando ha deciso di spostare i propri contenuti su TikTok, dove ha ottenuto 21,7 milioni di followers. Questa varietà ha creato un engagement tale da portarla a vincere il premio Most Effective TikTok Content Creator nel 2022.
Ancora un altro esempio: la coreana Lohee Rohee. Se questo nome non sortisce alcun effetto a prima lettura, utilizzando app di messaggistica come Whatsapp e Telegram è impossibile non essersi imbattuti almeno una volta in sticker o gif di una bambina asiatica dalle guance paffute. Tutto nasce dalla volontà della madre, Jan Miran, di conservare i ricordi di famiglia creando un profilo Instagram dove avrebbe condiviso le foto della bambina (2017) e della sorella minore (2019). Questi contenuti hanno iniziato ad attirare sempre più followers, che da un certo punto hanno iniziato a convertire quelle foto in sticker e meme, creando alcuni dei pacchetti di adesivi più usati di Whatsapp.
Anche l’Italia non è da meno in quanto al fenomeno dei baby influencers. Ne è un esempio Benny G, cantante neomelodica pugliese, nata del 2011. Sui social vanta quaranta profili su Instagram di cui uno da 30.000 followers, un account Youtube da 53.000 e un profilo TikTok dai numeri simili ma chiuso per violazione delle linee guida sull’utilizzo. Questo è uno di quei casi che però risulta estremamente controverso a causa della tendenza a postare contenuti in cui la bambina è ritratta in comportamenti che emulano, spesso grottescamente, gli adulti. Video in cui twerka con Elettra Lamborghini in sottofondo, tutorial di trucco e baci in bocca con donne adulte sarebbero di per sé contenuti preoccupanti, se non fosse per il fatto che sono incitati, programmati e promossi dalla madre di questa “Lolita neomelodica”, Dora. Preoccupazione che, tra l’altro, ha generato segnalazioni al Tribunale dei minori che ha effettuato delle verifiche nel corso del 2021. Tutti i casi menzionati finora hanno in comune una cosa: si tratta di bambini che hanno ottenuto notorietà grazie ai contenuti registrati e promossi dai propri genitori.
Diverso è il discorso di bambini che nascono in famiglie famose, finendo subito sotto i riflettori. Nati e immediatamente fagocitati dagli sguardi curiosi dei follower dei propri genitori, diventano sin da subito mezzo di intrattenimento, il nuovo gadget da mostrare, con il quale interagire. L’esempio che tutti conoscono è quello dei Ferragnez.
Leone (2018) e Vittoria Ferragni (2021) sono stati sin dalla nascita sotto i riflettori grazie alla fama dei genitori, ma hanno anche contribuito ad aumentarla, andando ad alimentare l’immaginario della famiglia giovane e felice di cui tutti sembra vogliano sapere tutto.
Infanzia a rischio
Il mondo ovattato del web offre senza dubbio privilegi. Se la fama e l’acquisizione di un pubblico sempre maggiore gratificano l’ego, a celarsi dietro la volontà di diventare una star del web c’è una motivazione più di stampo pratico e economico. I guadagni di questi profili crescono anno dopo anno, arrivando a fatturare milioni di euro grazie alle collaborazioni strette con brand e grandi aziende. Nonostante gli innegabili vantaggi non è tutto oro quel che luccica. I rischi che derivano da una sovraesposizione sregolata sul web sono molteplici. Per questo è sempre più necessaria la piena consapevolezza e maturità da parte di chi si espone a questo mondo. La questione diventa spinosa dal momento in cui sotto i riflettori viene messo chi legalmente parlando non è tutore di se stesso. I profili dei baby influencer sono in mano ai genitori che, sfruttando i propri figli, creano vere e proprie aziende sull’immagine dei minori. La crescita di questi bambini è completamente documentata sui loro profili grazie a video e fotografie ritraenti i momenti quotidiani. Il diritto alla privacy viene così calpestato da parte di chi per legge dovrebbe premurarsi di consentire un’infanzia il più tranquilla possibile. Infanzia di cui si viene in qualche modo privati, venendo subito inseriti in un contesto che si basa sulla performatività, sull’approvazione e che soprattutto genera numerosi introiti. Ai bambini viene chiesto di posare, di recitare battute, di ballare, così da poter creare contenuti accattivanti e capaci di ottenere engagement, e quindi compensi, sempre più alti. Così il volto di un bambino diventa famoso in tutto il mondo, se ne fanno meme, stickers, trasformandolo in vero fenomeno social. Una miniera d’oro per il creator che si assicura così la massima visibilità, ma a che prezzo?
Dietro gli occhi che guardano questo genere di contenuti non sempre si celano buone intenzioni. I primi dubbi riguardo il rischio della presenza di pedofili tra i fruitori di questi profili sono sorti studiando il profilo TikTok della baby influencer Wren Eleanor. Si è notato che un video ritraente la bambina nell’atto di mangiare un hot dog contava decine di migliaia di salvataggi. Anche scrollando tra i numerosissimi commenti è stato possibile trovarne una netta quantità fatti da uomini adulti e di natura sessuale. Non si tratta di un’eccezione ma di una regola ormai ben stabilizzata nell’universo dei baby influencer. L’engagement parla chiaro: i video più apprezzati sono quelli in cui i bambini si comportano da adulti, mimando pose e assumendo atteggiamenti sessualizzati. Sui social, quindi, spopolano di bambine che mettono il rossetto, bambini che si baciano, addirittura baby dj che riproducono l’ultima traccia techno urlando “my dad loves tequila”.
Privacy e tutele
Gli importanti introiti economici che derivano da queste attività hanno reso quello che agli occhi dei più ingenui potrebbe sembrare un passatempo, un vero lavoro. Essere un content creator sui social necessita di programmazioni dei contenuti, di riprese svolte secondo i canoni imposti dalle aziende con cui si collabora, e di un calendario di pubblicazioni da rispettare. Tali impegni richiedono e vedono protagonisti le baby star di questi business: minori non consenzienti costretti al rispetto di veri e propri obblighi lavorativi. Ma tutto questo è legale? L’articolo 32 della carta dei diritti fondamentali dell’unione europea vieta il lavoro minorile. L’età minima indicata per l’ammissione al lavoro è l’età in cui termina la scuola dell’obbligo. Tuttavia può essere consentita l’ammissione al lavoro a patto che si benefici di condizioni appropriate all’età, si sia protetti contro lo sfruttamento economico e contro ogni lavoro che possa minarne la sicurezza, la salute, lo sviluppo psichico, morale o sociale o che possa mettere a rischio la loro istruzione. Se i rischi psichici derivanti da un’esposizione non volontaria sul web sono già stati citati, si può dedurre che ci si trovi davanti ad una nuova forma di sfruttamento minorile per la quale è necessaria una normativa specifica.
La Francia è stato il primo stato ad occuparsi in termini legislativi di questo genere di situazione. La pubblicazione nel 2021 della legge sullo sfruttamento commerciale dell’immagine dei minori di sedici anni sulle piattaforme online ha imposto che i guadagni ricavati da questi profili andassero versati su conti correnti intestati ai minori e congelati fino a sedici anni.
L’Italia sotto volontà del Ministro della Giustizia ha seguito l’esempio dello stato francese. Il 21 giugno 2021 è stato istituito tramite decreto un “Tavolo tecnico” sulla tutela dei minori inseriti nel contesto dei social network. I lavori si sono avviati il 7 settembre 2021 e conclusi nel maggio 2022. Sotto la presidenza del Sottosegretario di Stato al ministero della giustizia, al Tavolo tecnico hanno partecipato l’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza, l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali e l’Autorità Garante nelle comunicazioni. In tale occasione, si è deciso di estendere la norma già contenuta nella legge sul cyberbullismo n.71\2017 che consente al minore di ottenere la rimozione di proprie immagini pubblicate da parte di padri o madri. Si è inoltre promesso un aumento dei controlli sui patrimoni dei baby influencer e il diritto all’oblio per i contenuti già pubblicati.
Tutti questi esempi ci raccontano di una realtà in cui i bambini smettono di comportarsi da tali, venendo gettati in pasto ai social senza alcuna possibilità di scelta. Nonostante la presenza delle leggi sopracitate, i baby influencer aumentano, così come il loro sfruttamento.
I genitori, pur agendo in modo quanto più attento possibile sui contenuti, ignorano i possibili disagi che potrebbero nascere all’interno dei loro figli, così come i pericoli della rete. Bisognerebbe ricordare che la priorità non deve essere quella di garantire loro successo, bensì un’infanzia e un’adolescenza sicura e, soprattutto, felice.
Articolo di Lea Negroni, Iris Ieva e Sara Marseglia