Le generazioni tra Beat e Byte

Come settant’anni di storia hanno trasformato gli Hippies nella Gen Z

Lawrence Ferlinghetti: poeta, pittore, editore ribelle della Beat Generation. “Piombato sulla terra” nel 1919 batte i suoi scritti a ritmo di Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Thelonious Monk e Dexter Gordon con un linguaggio che è allo stesso tempo colto, ma anche popolare, costellato da innumerevoli citazioni. Definito un “surrealista nelle vesti politiche della Beat Generation”, con i suoi 101 anni ha attraversato tutte le vicende del secondo Novecento.

 

Ferlinghetti e la Beat Generation

Il Lost Boy, come lo battezzò il Wall Street Journal, solo due mesi dopo lo sgancio di “Fat Man” su Nagasaki nel 1945, si trovava in Giappone,  membro di una truppa di invasione che si trasformò in breve in una truppa d’occupazione. Al ritorno da quella missione però, il giovane marine si era trasformato in un “pacifista per sempre”, scoprendo così il senso e l’importanza di prendere una nuova posizione politica. 

Nel 1953 fonda la City Lights Bookseller a San Francisco, insieme a Peter D. Martin – che lascerà quasi subito la quota a Lawrence. Viene così al mondo la prima libreria di soli tascabili, rivelando un nuovo paradigma per un cambiamento antropologico e politico reale, con una nuova forma di divulgazione editoriale, accessibile a tutti.

La pubblicazione più scabrosa è stata quella di un libro di poesie di 57 pagine intitolato Howl and Other Poems di Allen Ginsberg, con il quale Ferlinghetti voleva “urlare” al mondo che esisteva “una generazione distrutta dalla pazzia”. Dopo le prime due stampe confiscate però, l’editore venne accusato di oscenità dallo Stato della California e arrestato il 21 maggio 1957. Assistito dall’American Civil Liberties Union (Aclu), Ferlinghetti dovette rispondere alle accuse mosse dal vice procuratore Ralph McIntosh. L’Urlo di Ginsberg non può tollerare la museruola della censura nemmeno durante il maccartismo e, appellandosi al Primo emendamento della Costituzione, riuscirà a vincere la causa, dopo che il giudice Clayton Horn riconobbe l’impatto sociale e la validità artistica dell’opera. 

Il “bardo di North Beach”, è stato spesso ricevuto da personaggi politici per disquisire sul ruolo dei poeti nella società, domanda alla quale Ferlinghetti ha sempre ribattuto: «Se vuoi essere un poeta devi creare opere capaci di rispondere alla sfida di tempi apocalittici», così come hanno fatto gli autori Beat nei loro scritti. «La sua nascita e la sua educazione non hanno avuto parte rilevante nella sua storia e d’altronde sono rese oscure dall’ironia con cui ne parla il suo biografo Neely Cherkovski» ha scritto Fernanda (Nanda) Pivano, che instaurò un grande legame editoriale con Ferlinghetti. Sarà grazie alla sua penna caparbia di traduttrice che dal 1965 inizierà a circolare anche in Italia la Beat Generation. Il termine è stato coniato da Jack Kerouac alla fine degli anni Quaranta, anche se l’anno di nascita ufficiale è il 1952 con Go di John Clellon Holmes, considerato il primo racconto Beat. È sempre Holmes a firmare nel novembre 1952 l’articolo “This is the Beat Generation” per il New York Times, considerato il vero manifesto dei Beat. 

 

L’impatto della Beat Generation

Il  cosiddetto “movimento giovanile” nasce però circa venti anni prima alla Columbia University, appunto dall’incontro di Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Lucien Carr, ma anche altri tra studenti (e non), accomunati da idee che andavano contro la tradizione idealistica e accademica letteraria dei loro professori, distanti dai problemi e dalle questioni contemporanee. Il loro linguaggio vitale, vivace e individuale si contrapponeva a quello tradizionale, troppo conservatore, noioso e inadeguato per esprimere la nuova percezione della realtà. Da qui la necessità di una “nuova visione”, The New Vision, come Kerouac, Carr e Ginsberg la chiamavano tra loro: un nuovo modo di scrivere, legato al raggiungimento degli obiettivi attraverso metodi non convenzionali.  

«Nel tuo prossimo libro o uno dei tuoi prossimi, scrivi velocemente, mettici dentro tutto, butta fuori, giù, su, dappertutto, scrivi di getto, come Céline, come tu stesso una volta mi dicevi di fare, dio santo impara a battere mille parole al minuto, compra due registratori, sconvolgi le stupide leggi, frega i giudici, fomenta le rivoluzioni della tua sconfitta, tira fuori tutto, porta tutto avanti, in alto, vinci, stelle, Ah, rivolgimenti, appendici, galassie, tempo, etichette, scatenato». Le parole di Kerouac inviate a John Clellon Holmes in una lettera del ‘55 fanno ben trasparire lo spirito del gruppo e suonano amplificate nella cassa di risonanza dei nostri giorni. 

Beat come battuti, ma la Beat generation, la generazione degli sconfitti, è la cenere da cui, come una fenice, rinasceranno le generazioni successive. Beat anche di “beat-itudo”, la condizione di pace e benessere, lo stato di indipendenza e di mancanza assoluta di bisogni, citata dallo stesso Kerouac in un’altra delle sue lettere: “E io ora dimoro nella beatitudine davvero meravigliosa della sapienza-Prajna, conoscere il conosciuto, conoscere quel vuoto che tutto è, e tutti noi siamo, e non c’è nulla, assolutamente nulla di cui preoccuparsi”.   

Attraverso la ricerca costante di una condizione estatica mediante l’uso (e abuso) di sostanze stupefacenti, dalle più “usuali” a quelle meno conosciute, come il mescal o il peyote, i beat spingevano i loro sensi al limite del comprensibile, esploraravano la nudità e la sessualità per ampliare il loro mondo e diventare familiari con nuovi orizzonti.

L’immaginario è quello di un gruppo di ragazzi accomunati dall’amore per la vita, per la sincerità, con capelli lunghi e barbe incolte, con jeans logori, vecchie maglie e sandali, noncuranti delle mode e delle convenzioni imposte dalla società. Infatti il poeta Amiri Baraka, a loro vicino, li definisce come “un mucchio di persone, di tutte le diverse nazionalità, che giunse alla conclusione che la società fa schifo”.

Lo stesso atteggiamento ribelle era proprio di coloro, per la maggior parte giovani, che si identificavano tra loro come “bopper”, esponenti del bepop, stile jazz che si sviluppò negli anni Quaranta per lo più a New York. Uno dei fondatori del genere musicale, spesso abbreviato in bop, era il giovane altosassofonista Charlie Parker, che è stato maestro per i beat. Sia Ginsberg che Kerouac utilizzavano infatti proprio l’espressione “prosodia bop” per esprimere la loro ricerca di ritmi frastagliati all’interno di un respiro melodico lungo, del periodo in prosa o del verso. La prosodia (ovvero l’insieme norme di intonazione, ritmo, durata e accenti) libera, ma dentro una pulsazione costante, come un’improvvisata melodia jazz. Un verso non più delimitato da quantità sillabiche fisse e quadratura di accenti, ma misurato sulla durata del respiro fisico, sulla tenuta della voce nel parlato e non sulla lettura mentale. La ritmica bebop viene così adottata da Ginsberg, insieme al “long line”, come cifra fondamentale sia di Howl che di Kaddish. Le raccolte, pubblicate proprio da Ferlinghetti, rappresentano l’urlo di rottura con l’accademismo imperante che li aveva preceduti. Che sia per ispirazione o per repulsione le generazioni guardano sempre a chi è venuto prima di loro, covando il leitmotiv delle precedenti, avvalorando quanto aveva ipotizzato Steinbeck dicendo «la generazione più giovane è la freccia, la più vecchia è l’arco». Riallacciandosi sia ai filoni tematici che alle modalità d’espressione, anche questi anni Venti del Duemila sembrano attingere a quella abbacinante parentesi che furono gli anni della Beat Generation. «Le sole persone che mi interessano sono i pazzi, pazzi della vita, pazzi delle parole, pazzi del tutto e subito, quelli che non dicono mai banalità»: parole scritte da Jack Kerouac negli anni Cinquanta – gli anni dell’assoluzione dai dogmi – ma che potrebbero essere quelle dei Måneskin, urlate nella roccaforte tradizionalista di Sanremo, in tutine velate e trucco pesante «Sono fuori di testa ma diverso da loro», dove “loro” sono i bacchettoni indignati dalle parolacce e dai costumi trasparenti. La ricerca di una dimensione alternativa non può ovviamente essere circoscritta al piano delle recriminazioni; anche le forme espressive devono plasmarsi e assumere i connotati dell’eversione. 

 

L’impatto sulle nuove generazioni

Se la Beat Generation trova respiro negli ambienti jazz, morbidi e ritmati come il nome del movimento, lo spazio dei nuovi poeti è nel rock, nel rap, nell’indie ma soprattutto nella provocazione. La coalizione fra generi avvenne ai tempi fiammanti di Bob Dylan, David Bowie, i R.E.M e Kurt Cobain (che collaborò con Burroughs per The Priest They Called Him), in cui il mondo putrescente delle droghe si confondeva con quello di una spiritualità tanto liliale quanto beffarda. Ed è la stessa atmosfera che si trova nella figura di Achille Lauro, figlio di un’epoca che tutto sommato non ha nulla da cui risorgere se non il vuoto del conformismo. Ebbene Lauro, pur essendo nato nel periodo sbagliato (e per sua sfortuna dopo Renato Zero), ha sviluppato, negli anni, un immaginario molto vicino a quello della Beat, che non si fossilizza nella semplice ispirazione, ma che viene reso aderente alla dimensione attuale. Nei suoi testi i riferimenti a quell’epoca e a quei valori sono tantissimi, basti pensare all’album 1969 dove parla di Rolls Royce, di vite spericolate, di gioventù bruciata. In lui la fusione fra piano sacro e temi scomodi è completa e inscindibile.

In Roma, un brano dissacrante sulla gioventù delle periferie della città eterna, riprende integralmente le parole dell’adattamento cinematografico di On the Road, tratto dal capolavoro di Kerouac, paragonando la sua vita frenetica nell’Urbe al calvario di Cristo sul Golgota, che termina con la resurrezione: «Innalzato a morire su un colle/trafitto nel costato a Vigne/ perito e intombato a Sempione/ e risorto da qualche parte lì, a Montesacro». Lauro non è l’unico a sguazzare nell’atmosfera dei sessantottini: autore di Manuale del giovane nichilista, Willie Peyote – il cui nome nasce dal coyote dei cartoon e dal cactus allucinogeno sudamericano (consumato proprio dai Beat) – usa la tattica della sacralità goliardica per parlare della «sua futura ex moglie», che è un «dio sotto le sue lenzuola» cui lui si sottomette come un cane. Una concezione triviale e sublime dell’amore. Ma mentre sotto i riflettori si svolgono scene di trasformismi e deliri religiosi, altri artisti seguono quella che fu l’innovazione più grande di Ferlinghetti: la scrittura d’immagine che, secondo il precetto di Burroughs «ogni parola è un quadro», carica i termini di un cromatismo e una profondità pittoriche. Fra questi, Iosonouncane, curioso pseudonimo di Jacopo Incani. Noto soprattutto per l’album DIE e la collaborazione con i Verdena, Iosonouncane è uno stimolatore di immagini: parole disposte in maniera quasi arbitraria –“sulla riva tornerà/ corpo vivo fra gli alberi/ per stendermi al sole– su una musica da luna park, che sanno creare, in un angolo fuori dalle aspettative, una Coney Island of the Mind, per citare Ferlinghetti. I nuovi poeti non sono soltanto ragazzini a caccia di gloria: la Gen Z è plasmata sui vecchi ideali della Beat Generation. 

Se questa, che ai tempi aveva avuto in Italia eco grazie a Fernanda Pivano, è effettivamente viva nell’ambiente pop, oltreoceano è una realtà culturale concreta. Lana del Rey (Elizabeth Grant), figura malinconica dall’aura di New Hollywood e legata a icone come Frank Sinatra, Marilyn Monroe e Elvis Presley, si ispira agli autori della Beat («I get down to Beat poetry», da Brooklyn Baby), creando la dimensione autenticamente vintage che fa da sfondo all’album Honeymoon del 2015. Nella sua ultima canzone, Chemtrails Over The Country Club, il cui videoclip riprende la cantante su una Mercedes d’epoca, in uno scenario che sembra il set di Lolita di Kubrick, torna il motivo conduttore dell’LSD, della vita che è una contemplazione estatica di se stessa, della follia: «I’m not unhinged or unhappy, I’m just wild». 

Mentre la musica è campo fertile per i figli della Beat, il cinema sembrerebbe prestarsi molto meno. I film sulla Beat Generation hanno quasi sempre un retrogusto di pauperismo che ostruisce e sporca l’assoluto anticonformismo delle opere letterarie. Esistono naturalmente film che sono entrati a far parte dell’immaginario beat degli anni ‘60 e ‘70, come Easy Rider e Qualcuno voló sul nido del cuculo, tratto dal romanzo di Ken Kesey (Ma credete veramente di essere pazzi? Davvero?!), entrambi con Jack Nicholson, oppure Gioventù bruciata con James Dean, il quale fu consacrato a icona hollywoodiana proprio dalla parte di Jim Stark. Ma il cinema postumo alla fine del movimento risulta perlopiù incapace di assorbirne la magia, limitandosi alla produzione di docufilm come Howl del 2010, scritto da Rob Epstein, che racconta la vita di Allen Ginsberg. Non è comunque un lavoro vano: la Beat creó, o tentó di creare, una prospettiva autentica più che uno stilema.

La sua influenza si ritrova anche nella letteratura di oggi, come nel romanzo Vizio di forma di Thomas Pynchon, condizionato da quell’atmosfera adrenalinica e delirante, cifra stilistica di Burroughs, che con il suo Pasto nudo viene considerato da molti critici come l’iniziatore del postmodernismo. Nella poesia invece si coglie la lezione di Ginsberg del «dire in pubblico quello che si conosce solo nel privato». Infatti, mai come oggi la Slam poetry, ibrido tra poesia e rap, dai toni tanto intimi quanto ironici, ha trovato terreno fertile dove proliferare: nata negli anni ‘80, è solo nel 2017 che vengono istituite associazioni nazionali dove poter partecipare alle letture, che riprendono il reading della famosa notte del 7 ottobre 1955, quando Ginsberg lesse Howl in pubblico per la prima volta, riscrivendo la storia della letteratura.  

Quindi anche se quella “nuova visione” sembra apparentemente essere lontana dalla contemporaneità, in realtà la distanza che separa Beat e Byte è il suono di una sillaba, nella quale passano quasi 70 anni di storia, scanditi da una lotta continua, contro un mondo che piega e plasma le generazioni a suo piacimento. I primi: “battuti”. I secondi: la generazione degli ultimi arrivati. Inesperti, fagocitati dal mondo, visti come una generazione spacciata che dovrà fronteggiare il riscaldamento climatico, la crisi economica, le future ondate migratorie. Uno scenario poco rassicurante, ma non tanto diverso da quello dei Beat: figli della guerra, hanno vissuto tra la paura del nucleare, sotto l’inquietudine del comunismo e del Maccartismo. Ma proprio in reazione a un clima tanto incerto si sono fatti portatori di valori positivi, nel disperato tentativo di entrare in armonia con il mondo. Il loro grande merito è stato quello di aver dato voce ai problemi senza tempo della gioventù, che sono l’unico termine invariabile nel grafico di una generazione che si evolve alla velocità dei Bps.

Le grandi proteste contemporanee, a partire da Occupy Wall Street, passando al FridaysForFuture, fino ad arrivare al BlackLivesMatter, sono scintille nate dalle ceneri del movimento Beat, la cui weltanschauung, cioè visione, è il file rouge di tutte le realtà successive, ma in particolare della GenZ. Globalità e velocità è il binomio che descrive una generazione iperconnessa, che ha fatto di quel «la cosa più pericolosa da fare è rimanere immobili» di Burroughs il proprio motto. È il dinamismo la chiave di lettura della gioventù moderna, capace di smuovere il mondo e organizzare proteste a colpi di tweet, battendo su tastiere digitali hashtag che si sono sostituiti agli slogan dei cartelli sfoggiati dagli hippies nel ’68.

Il punto di tangenza tra Beat e Byte è il rifiuto della mediocrità e della sicurezza borghese, con il venir meno dell’American dream. L’America è da sempre metonimia del successo, un obiettivo agognato da raggiungere ad ogni costo. Eppure già nel 1956 Ginsberg scrive «America ti ho dato tutto e adesso non sono niente», raccontando del labile confine tra sogno e illusione, con il miraggio della libertà che si sgretola nel tempo. 

La promessa della felicità, quel pursuit of happiness che sembra essere l’obiettivo finale, alla base di canzoni come l’omonima traccia del rapper Kid Cudi, e che viene addirittura citato nella costituzione degli States non è il senso della vita. Nonostante la lunga ricerca, non lo hanno trovato nemmeno gli autori Beat, che si autodefiniscono una generazione sconfitta, “con il mondo contro”, proprio come la GenZ, che si rifugia nella realtà virtuale per scappare dalle inquietudini moderne. I settanta anni che hanno trasformato i Beat in Byte non avranno prodotto la “risposta definitiva”, ma hanno dimostrato l’importanza della parola errare, nel duplice senso di sbagliare e vagabondare, che è l’ethos dei giovani che viaggiano, mentre cercano di capire quale sia il loro posto da occupare nel mondo, alla costante ricerca della loro strada. 

 

Articolo di di Alessandro Mason, Erika Ravot, Ludovica Russo e Sara Paolella