Bersagli ravvicinati

La condizione di determinate fasce di popolazione è tale da poter essere particolarmente sensibili a messaggi promozionali di prodotti, molto al di là della sostenibilità dei prodotti stessi. La condizione di queste fasce vulnerabile rimane fondamentalmente varia fintanto che il comportamento sostenibile di consumo generale sia impossibilitato a diventare una norma sociale. In questo contesto storico-sociale, l’esperienza individuale consumistica delle varie identità si fortifica a causa di una strategia di marketing (e di targetizzazione) adottata dal mondo pubblicitario odierno, specialmente in rete. I consumatori sono perseguitati dalle loro caratteristiche vulnerabili che per qualche meccanismo psicologico inconsapevole si trasformano in debolezze alla mercè dell’advertising e del mantra implicito e nascosto delle aziende inquinanti del secolo: l’over-consumption.  

David Gauntlett, sociologo e studioso del ruolo dei media digitali, afferma che gli esseri umani tendono a cercare i propri simili creando un gruppo con il quale identificarsi e l’uso dei media non fa altro che amplificare l’effetto. La rete, sempre più non-luogo del consumo, accomuna i protagonisti (i bambini, le donne over 40, le neo-mamme e le persone aventi disturbi alimentari) facendoli incontrare, portando in evidenza la propria relativa vulnerabilità e per perdere poi il senno del consumo sostenibile. 

 

La colpa dell’invecchiamento e l’espiazione inquinante

In un mercato come quello dei cosmetici anti-age, che nel 2019 ha rappresentato il 43,9 % degli acquisti nel settore della cosmesi in Italia, il veicolo pubblicitario ricopre un ruolo cruciale. 

Dal momento che un processo di targettizzazione si basa sulla segmentazione del mercato in fasce, definite da fattori demografici – per esempio una divisione per fasce di età – o psicografici, quello delle donne over 40 costituisce un mercato specifico. A cui sono indirizzate, generalmente, le pubblicità del suddetto tipo di cosmetici.
Nel fare centro su determinati bersagli tuttavia concorrono vari fattori, e la formulazione del messaggio è fondamentale. I cosmetici anti-age si pongono, già dal loro nome, nella posizione paradossale di volersi opporre al passare del tempo. Come sottolineato da Riccardo Falcinelli in «Critica portatile al Visual Design» il ruolo che hanno le testimonial delle pubblicità dei cosmetici anti-età è quello dell’everywoman, ovvero quello di porsi come portavoci di un “problema” comune, quello della vecchiaia e di invitare, come rimedio, all’uso di questi cosmetici, ponendoli sul piedistallo dei beni di prima necessità. 

Le multinazionali della cosmesi ripropongono spesso gli stessi stilemi e lo stesso linguaggio. Comunemente appaiono slogan come “agisce sull’invecchiamento” (Lierac), “pelle come ringiovanita” (Lierac), “riattiva i meccanismi della giovinezza” (Bionike), “per un viso dall’aspetto sempre giovane” (Clinians) ed ancora “combatti i segni del tempo” (L’Oreal). L’invecchiamento ed il tempo emergono da questi slogan come kryptonite, nemici da combattere, e i cosmetici come armi per affrontare questa battaglia. 

Anche sulle etichette dei prodotti che sono oggetto delle campagne pubblicitarie troviamo lo stesso linguaggio. L’italiana Collistar, tra le più note aziende di cosmetica al mondo, vende creme con l’appellativo di “ultra liftante”, paragonandole di fatto a trattamenti chirurgici come quello del lifting, concetto ben lontano da quello di cosmetico. La stessa Collistar promuove prodotti come il “Siero unico – trattamento universale di giovinezza”, in assonanza con lo “shot di giovinezza” proposto dalla casa cosmetica Lierac.

Un altro approccio che troviamo sulle etichette dei prodotti è quello di porre i cosmetici come rimedio ai segni del tempo. La sopra citata Lierac propone sul proprio sito “Cicafiller”. Da una prima e superficiale lettura del nome potremmo pensare ad un cicatrizzante per le ferite. Leggendo però la dicitura che lo accompagna “crema antirughe riparatrice” capiamo che non è così. In questo caso con la parola “riparatrice” il prodotto si offre di rimediare ad un danno, di aggiustare qualcosa di un processo in realtà naturale. 

La “vulnerabilizzazione” a fini commerciali di una fascia ampia, come già visto, è fruttuosa e porta a un tasso di consumo altissimo di tali prodotti. Fatto che sarebbe di per sé dannoso per il pianeta, dati i costi in termini ambientali di produzione e trasporto, ma a cui si aggiunge il dibattito sull’inquinamento causato dallo smaltimento dei prodotti stessi.

Uno dei principali argomenti di dibattito in quest’ambito sono indubbiamente le microplastiche, cosiddette PCCP (plastic particles in personal care and cosmetic product): polimeri sintetici, solidi e insolubili, di dimensione massima 5mm. Le microplastiche possono derivare dalla decomposizione di oggetti di plastica più grandi oppure essere prodotte industrialmente e inserite in alcuni beni di consumo, tra cui i cosmetici. In Italia, a partire da gennaio 2020, è stato proibito l’uso di microplastiche in prodotti cosmetici da risciacquo ad azione esfoliante (scrub) o detergente, e tuttavia si lascia incontrollato l’utilizzo di tali sostanze in moltissimi altri prodotti, tra cui creme per il viso e tutto ciò che riguarda il make-up. A preoccupare è che proprio per le loro ridotte dimensioni le PCCP vengono difficilmente trattenute dai filtri degli impianti di depurazione (se non dai più moderni a “multi-barriera”), riversandosi così in fiumi e mari: un’attenta analisi dell’ecosistema marino rivela infatti da un lato la presenza di microplastiche sedimentate sui fondali e dall’altro la possibilità che queste vengano ingerite da uccelli di mare, molluschi e pesci, entrando così all’interno della catena alimentare, come testimonia un’indagine di Greenpeace che evidenzia come nel 30% delle specie commerciali di invertebrati e pesci raccolti nel Tirreno siano presenti queste sostanze.

L’inquinamento prodotto dai cosmetici non termina qui: alle microplastiche (tra le sigle delle quali primeggiano PE, PET e PP) si aggiungono diverse sostanze sintetiche e non biodegradabili come i petrolati, i siliconi, i parabeni, o ancora, i silossani D4, D5 e D6, responsabili di una parte dell’inquinamento atmosferico. 

Ultima frontiera” in ambito di inquinamento, e forse per questo ancor più pericolosa, è infine la cosiddetta “plastica liquida”: essa consiste in polimeri sintetici solubili in acqua, come l’acrilato e i suoi copolimeri. E in grado di sfuggire alle vigenti normative, perché classificabile come microplastica è solo ciò che si trova allo stato solido; i danni che queste sostanze possono potenzialmente provocare all’uomo e all’ambiente non sono ancora del tutto chiari, ma sono già oggetto di studio.

È importante sottolineare come anche l’Italia, con la sua produzione di cosmetici, contribuisca purtroppo all’inquinamento globale. A titolo esemplificativo, si può prendere in analisi l’attività produttiva di Collistar, una delle principali aziende cosmetiche nate in Italia e poi acquisita dalla multinazionale Bolton Group (insieme ad altre aziende già posta sotto inchiesta quest’anno da Greenpeace per la presenza di plastica liquida nei suoi detergenti per bucato e pulizia); in particolare si fa qui riferimento all’ambito della cosmetica “anti-age”, il cui mercato, che riguarda prevalentemente creme, maschere e lozioni per il viso, nel 2019 ha fruttato ben 665,7 milioni di euro su un fatturato totale di 1,5 miliardi. Nonostante la politica “green” esposta da Bolton relativa ai materiali da packaging riciclati e l’adozione di risorse sostenibili, è in realtà poi sufficiente analizzare la lista di ingredienti contenuti nell’ultimo prodotto promosso da Collistar per realizzare che la sostenibilità è una meta ancora lontana. Così in «Siero unico – trattamento universale di giovinezza» si riscontra il già citato acrylates insieme al PEG (-40), sulla cui definizione di microplastica si discute tutt’ora, e a seguire il carbomer, un’altra plastica liquida, il tetrasodium edta, che, raggiunti i depositi marini, solubilizza metalli pesanti ed inquina l’acqua circostante, fino ad arrivare al phytol, che, secondo gli studi  di ECHA (European Chimical Agency), in ingenti quantità può causare la morte di pesci a seguito di una breve esposizione. Sebbene vi siano normative che impongono limiti percentuali all’utilizzo di sostanze potenzialmente nocive, è evidente che l’informazione a cui il consumatore ha accesso è parziale e non favorisce un’approfondita analisi del prodotto, in quanto per legge le aziende di cosmesi non sono obbligate, nell’INCI, ad inserire le esatte percentuali degli ingredienti, ma solo a disporli in ordine decrescente.

In Italia dunque l’impatto ambientale dell’industria cosmetica, a partire dal settore «anti-age» in vetta per produzione e consumi, è ancora ben lontano da una risoluzione sostenibile ed ecologica, che sarebbe pur possibile attuando scelte e cambiamenti radicali. 

 

Inquinamento? Per tuo figlio, questo e altro

È piuttosto noto che fattori biologici, psichici, relazionali e legati al contesto psicosociale influiscono sul percorso verso la maternità, alterando il vissuto psicoemotivo della donna e la vulnerabilità psicologica che l’accompagna.  Stacey Menzel Baker, James W. Gentry e Terri L. Rittenburg, in uno studio a riguardo, sostengono che le donne in stato di gravidanza, come tutti i consumatori in uno stato liminale, siano particolarmente inclini alla vulnerabilità. Questa fornisce un terreno fertile nelle transazioni economiche e il mercato non fa altro che amplificarla e sfruttarla grazie anche ai media, tradizionali e non, che nel tempo hanno contribuito alla costruzione sociale della maternità. La ricercatrice Tina Miller ha elaborato una precisa distinzione tra due termini dei quali non esiste la traduzione italiana: mothering e motherhood. Con il primo si intende l’esperienza effettiva di una donna che diventa madre, con il secondo si fa invece riferimento al contesto in cui quest’esperienza ha luogo. La cosiddetta motherhood è un’istituzione che, specie nel mondo occidentale, è storicamente, socialmente, culturalmente, politicamente e moralmente plasmata.

Il radicarsi della concezione idealizzata della gravidanza e di ciò che ne consegue ha generato insicurezza e instabilità nelle neo-mamme che, disorientate, sono andate alla ricerca di modelli di riferimento: che siano le compagne del corso preparto, le parenti che ci sono già passate, chiunque elargisca consigli gratuiti o chi li elargisce a pagamento nei manuali. Una buona parte della letteratura sulla maternità si deve a Sheila Kitzinger, che a partire dagli anni Settanta fino ai primi anni duemila ha pubblicato decine di libri sull’argomento, tutti con un enorme successo editoriale. Negli stessi anni, particolarmente in voga erano le VHS in cui le Jane Fonda della maternità, con l’ausilio di ginecologi e ostetriche, dispensavano consigli utili su come affrontare questo cambiamento e come prepararsi all’arrivo di un bambino.

Oggi questo ruolo è assunto dalle mom influencers, star del web con seguito da centinaia di migliaia di followers, con contenuti mirati a una fascia molto precisa.

Quello che si crea tra neo-mamma e mom influencer è un rapporto basato sulla fiducia incondizionata che la prima ripone nella seconda e, come prevedibile, sono molte le aziende che lo sfruttano per fini commerciali. Basta poco per accorgersi, infatti, che quasi ogni loro post è sponsorizzato; i bambini sono tappezzati di tag che rimandano alle pagine dei brand: li hanno sui vestiti che indossano, sulle culle dentro cui dormono, sui giocattoli che sono intenti ad usare, a volte anche sul cibo che mangiano. I “consigli” della mom influencer si riducono quindi a pubblicità continua, in un mercato web che spinge al consumo dei prodotti pensati per la neo-mamma. Alcuni di questi profili diventano testimonial non occasionali di per sponsor di ogni tipo, dal mondo dell’abbigliamento per bambini al giocattolo. L’invito al consumo è spesso indirizzato verso aziende con un rapporto complicato con la salvaguardia dell’ambiente. 

Disperatamente Mamma, pseudonimo di Giulia L., è una delle mom influencers più conosciute all’interno della comunità delle giovani madri, con oltre 514mila followers e quattro libri pubblicati. Come tante altre sue colleghe a volte sembra una life coach: ha sempre un atteggiamento da motivatrice, sceglie con cura le parole da usare, sembra costantemente essere in pieno controllo della sua vita e della sua famiglia perché si mostra in grado di saperla gestire al meglio. Per di più, per avere un rapporto ancora più confidenziale con chi la segue, ha da poco messo a disposizione un numero di telefono che è possibile chiamare tutti i martedì dalle 13:00 alle 15:00. In questo modo chi vuole può chiamarla per scambiarsi delle confidenze, chiedere suggerimenti su come affrontare la gravidanza e il post parto, ricevere consigli per la crescita del futuro bambino o semplicemente ricevere supporto emotivo. E ha un rapporto privilegiato con la Mentadent. Scrive che da piccola odiava lavarsi i denti, mentre i suoi figli corrono in bagno come se ci fosse una festa. «Forse se anche io avessi avuto uno spazzolino con le ventose e gli animaletti e un dentifricio alla frutta sarei corsa in bagno», scrive. E conclude: «Noi abbiamo affidato i sorrisi di tutta la famiglia a Mentadent». Sopra al post: «Partnership pubblicizzata con Mentadent Italia». 

Mentadent produce dentifrici che ancora oggi contengono al loro interno microgranuli, nonostante sia ormai noto il loro forte impatto ambientale. Le piccole dimensioni dei microgranuli fanno sì che possano essere ingeriti dalle specie marine e hanno il potenziale di trasferire sostanze chimiche da e verso l’ambiente marino, oltre a fornire il maggior contributo all’inquinamento da microplastiche. 

Un altro esempio calzante è quello di The Pozzoli’s Family, profilo Instagram con 467mila follower. Si tratta di Alice Mangione, del comico Gianmarco Pozzoli dei loro due figli Olivia e Giosuè. I contenuti che propone la coppia sono molto simili a quelli di una classica mom influencer, pur con una declinazione comica: post in cui vengono sponsorizzati prodotti per bambini, lunghi monologhi sull’essere genitori e le difficoltà che comporta, video motivazionali. Anche loro hanno pubblicato dei libri, tutti a tema genitorialità, e anche un fumetto che li vede protagonisti. Qualche mese fa hanno preso parte ad una campagna di sensibilizzazione di Dove (“Dove Progetto Autostima”) che si propone di aiutare genitori e figli, che siano bambini o adolescenti, conducendoli in un percorso di educazione all’autostima. Nello spazio che Dove sul suo sito ha dedicato alla campagna sono presenti molti articoli di approfondimento, una vera e propria guida all’autostima che è possibile scaricare gratuitamente, diverse risorse per i genitori (tra cui un “traduttore per genitori”, strumento che a loro dire migliorerebbe le abilità comunicative). Tutto ciò sarebbe in linea con l’azione paventata da Dove verso la sostenibilità e con alcuni sforzi per ridurre il proprio impatto sull’ambiente. Nel 2019 ha annunciato alcune iniziative che ridurrebbero di più di 20mila tonnellate il totale della plastica prodotta ogni anno, impegnandosi ad usare packaging in plastica 100% riciclabile per la maggior parte degli articoli sul mercato europeo e nordamericano. Nonostante ciò, nell’INCI di moltissimi prodotti si possono leggere ancora sostanze altamente inquinanti: le più presenti sono l’alluminio cloridrato (in tutti i deodoranti), il BHT, il dimeticone, i petrolati (soprattutto nelle creme) e i parabeni.

Unilever, la società madre tanto di Mentadent e Dove (e di diversi altri prodotti tra cui Lipton, Calvè, Knorr, Findus), secondo un rapporto di Tearfund, è una delle aziende più inquinanti al mondo insieme a Coca-cola, PepsiCo e Nestlè. Queste società danno pochissime informazioni sullo smaltimento dei loro prodotti e degli imballaggi, ma i pochi dati certi testimoniano la produzione di oltre 700mila tonnellate di plastica l’anno. La reazione di Unilever al rapporto non si è fatta molto attendere: i dirigenti hanno dichiarato che entro il 2025 si sarebbero impegnati a diminuire di oltre 100mila tonnellate l’uso complessivo di imballaggi in plastica monouso e che avrebbero dimezzato l’impiego di plastica vergine per produrre il proprio packaging. Una riduzione tutt’altro che risolutiva.

Sul profilo di altre due mom influencers minori (Giulia Telli – Mammachelibro e Ornella Sprizzi – Mammamatta, entrambe seguite da circa 37mila persone) il noto gioco Play-Doh (Hasbro) è stato sponsorizzato per un progetto a favore di Save The Children. La completa composizione della plastica del gioco, a parte alcuni ingredienti, è tutt’oggi soggetta a segreto aziendale, nonostante nel 2017 la sostanza sia stata bocciata per materiali tossici. Nel 2011 Hasbro è finita nel mirino di Greenpeace, insieme a Mattel e Unilever: l’azienda APP (Asia Pulp e Paper) riforniva per il packaging carta con fibra ricavata dagli alberi della foresta indonesiana, deforestando una delle zone fondamentali per la stabilità climatica. Hasbro ha ipotizzato un piano-green da attuare entro il 2025. Tuttavia tanto la produzione tanto lo smaltimento del gioco, come tantissimi degli prodotti sponsorizzati attraverso profili social rivolti alle neo-mamme, ancora oggi sono più che un’incognita per la salute del pianeta.

 

Dimagrire, continuando a consumare

Tra le esigenze sanitarie e quelle estetiche, il controllo del peso è una tematica significativa in ogni angolo del globo. Nel 2013 si stimava che il valore di questo mercato avrebbe toccato 216 miliardi entro due anni.

Ad oggi, la previsione per il futuro riporta il superamento dell’asticella dei 295 miliardi entro il 2027.

Per farsi un’idea delle dimensioni, basti pensare nel 2018 il mercato globale del commercio di droga aveva un valore di 301 miliardi di dollari. 

L’ecosistema del controllo del peso è vario, per la fauna che lo popola e per l’offerta che riporta, ed è tenuto a battesimo da un termine non casuale: Diet Industry. Un conio per quello che già nel 2013 Repubblica definiva «il ricchissimo mercato per la produzione di prodotti, strumenti, strategie, programmi e qualsiasi altro mezzo impiegato per la perdita di peso». Un traffico declinato in un numero impressionante di opzioni di personalizzazione del prodotto e di canali di distribuzione, dalle farmacie ai supermercati all’online.

La quota maggioritaria del settore è da sempre quella americana, attestata nel 2018 sul valore di 72,7 miliardi di dollari.

In Italia le cose viaggiano più a rilento, ma con costanza. Nel 2015, il giro d’affari dei soli alimenti speciali (integratori alimentari, alimenti arricchiti, prodotti dietetici, probiotici e functional foods) si valutava di 2,3 miliardi di euro (e oltre 10 in Europa). Si erano superate i 170 milioni di confezioni vendute, mentre le aziende che operavano nel settore avevano raggiunto le 1800 unità. 

Bacino di utenza privilegiato dei prodotti dietetici è proprio il mondo del sovrappeso e dei disturbi alimentari, specie tra le donne e specie se giovani. In una ricerca condotta nel 2005-2006 su un campione di 3500 adulti americani, il 33,9% del campione che aveva riportato di aver tentato di perdere peso (a sua volta circa la metà del totale) dichiarava di aver fatto uso di prodotti dietetici. Si trattava per la maggior parte dei casi di donne tra i 25 ed i 36 anni, con bassi redditi e qualifiche educative. 

Quasi il 70% di queste erano sovrappeso o obese.

Necessariamente, la pubblicizzazione dei prodotti dietetici segue queste direttrici. Nel 2013, dei 26 magazine più letti negli Stati Uniti, 18 proponevano pubblicità di prodotti dietetici acquistabili senza prescrizione medica, e il 72% di queste appariva su riviste acquistate principalmente dalle donne (Cosmopolitan, Glamour, Women’s Day e Vogue). Meno dell’1% degli annunci di perdita di peso è apparso in riviste più frequentemente acquistate da afroamericani (Jet, Ebony, Essence), e meno del 3% è apparso su riviste dal pubblico prettamente maschile (ad esempio Sports Illustrated e Playboy).

In Italia, lo stato dell’arte della produzione, della pubblicizzazione e della vendita di prodotti per il controllo del peso è fissato da aziende come Fitvia.

Il leitmotiv è sempre lo stesso, quello di ritrovati ideati per «accompagnarti nel tuo percorso verso uno stile di vita sano», prodotti naturali, equilibrati e completi, rigorosamente slim e detox.

Sul sito di Fitvia, memori della lezione e delle statistiche americane, il dimagrimento è “efficace” ed è tarato su di un pubblico tutto femminile: l’obiettivo è di «appiattire l’addome sentendosi molto più sgonfie», gustando una slim shake per «sentirti soddisfatta senza paura di vanificare i tuoi sforzi». Stesse dinamiche si ripetono sui social network, con il dovuto fattore di scala. Su piattaforme come Instagram e You Tube, le collaborazioni tra Fitvia e influencers di grande e piccola portata sono nell’ordine del giorno. Su Instagram si cercano sponsor conosciute, in buona forma fisica e con un seguito il più possibile somigliante all’identikit tracciato sopra.  

È il caso di Cecilia Rodriguez e di altri volti pescati da trasmissioni come il Grande Fratello (Guendalina Tavassi e Katia Pedrotti), Uomini e Donne (Tara Gabrielletto e Karina Cascella) e Temptation Island (Serena Enardu e Lara Zorzetto): la #fitviafamily promette di «accelerare il metabolismo e bruciare calorie», con codici promozionali personalizzati a seconda dell’influencer. Su YouTube si ricercano le stesse fasce di pubblico, ma attraverso vie diverse. È il mondo delle nano-influencer e micro-influencer (rispettivamente meno di 10.000 e 100.000 follower), quasi sempre canali di abbigliamento, cucina o make-up (Claudia Liberini, Nancy Hope, Le Ricette Di Mami camartamc). Codici sconto e videorecensioni entusiastiche dei prodotti forniti dall’azienda: «La mia sincera opinione su Fitvia» e altri titoli in copia carbone.

Sul suo sito, Fitvia riporta di utilizzare solo ingredienti naturali (anche se non biologici) e di collaborare con fornitori che adottano misure «per proteggere la salute e l’ambiente». Gli «ingredienti sono soggetti a rigide regolamentazioni tedesche sulla qualità, purezza e igiene», e «tutti i tè sono prodotti e testati in Germania», cosa che «vale anche per la maggior parte degli altri prodotti». 

Quanto alla coltivazione, le miscele di tè Fitvia «contengono in parte tè verde o tè semi-fermentato, il cosiddetto Oolong», coltivati in paesi come «la Cina e Taiwan». 

Proprio l’Oolong e la sua coltivazione a Taiwan sono stati presi in analisi da una ricerca del 2019 del journal Sustainability, secondo cui ogni tazza di Oolong risultava in una produzione di circa 29 grammi equivalenti di CO2, derivanti primariamente dall’utilizzo di prodotti chimici durante la coltivazione (un’auto produce in media dai 30 ai 90 grammi equivalenti per chilometro percorso). D’altra parte in Cina la coltivazione intensiva del tè ha portato, negli ultimi trent’anni, ad un consistente aumento dell’acidità del terreno, con una decrescita del pH compresa tra lo 0,47 e lo 1,43 (per contro nelle coltivazioni di cereali la caduta del pH si è contenuta entro lo 0,30-0,89). Principale imputato è l’utilizzo di fertilizzanti chimici all’azoto, utilizzati in quantitativi vicini ai 444 kg per ettaro.

Di mezzo ad un mercato che vale più di 200 miliardi di dollari, l’impatto di queste voci è ragguardevole, e viene moltiplicato dalla sempre maggiore domanda di prodotti dietetici. 

In generale, una errata percezione dei benefici legata all’utilizzo di questi prodotti è diffusa in maniera variegata sia tra gli utilizzatori che tra i non utilizzatori, anche grazie alla circolazione di una grande quantità di campagne pubblicitarie ingannevoli – secondo la Federal Trade Commission, nel 2002 negli USA circa il 40% delle pubblicità di prodotti dietetici riportava almeno un’osservazione assolutamente falsa.

Il sistema, anche in questo caso, si alimenta in maniera ricorsiva: all’acquisto di prodotti che si dimostrano incapaci di restituire i risultati promessi segue l’acquisto di un nuovo programma di dieta e di nuovi prodotti, e così via lungo l’imbuto: secondo la psicoanalista americana Nina Savelle-Rockline più di un terzo della popolazione americana è in uno stato di dieta costante, e in Inghilterra una donna all’età di 45 anni ha in media già provato 61 diete diverse.

In questo modo, la mancanza di un’offerta alimentare salutare e la contemporanea esistenza di un mercato delle diete così gravido di promesse incoraggiano il fenomeno del dieting come stile di vita per un numero sempre maggiore di persone. E l’acquisto di un numero sempre maggiore di prodotti.

 

Un giocattolino di plastica per conquistarli

Nel tentativo di scardinare i vincoli dei bilanci delle famiglie di tutto il mondo, le aziende e le agenzie pubblicitario hanno trovato un potente alleato nel membro più indifeso del nucleo familiare, ma allo stesso tempo maggiormente capace di influenzarne la spesa: i bambini.

Fin dal 1952, anno nel quale il Mr. Potato Head della Hasbro divenne il primo giocattolo pubblicizzato a livello televisivo, il mondo della pubblicità ha instaurato un sodalizio inconsapevole con i minori del globo, creando spot rivolti direttamente a loro per sfruttare la loro enorme influenza sulle decisioni di spesa dei loro genitori. Questa tecnica viene definita “pester power” poiché sfrutta la totale mancanza di consapevolezza del minore nei confronti del denaro e la sua insistenza nel richiedere ai propri genitori l’oggetto del suo desiderio temporaneo e passeggero. A partire soprattutto dagli anni Ottanta, con la sempre maggiore esposizione dei bambini ai media e la creazione di canali espressamente rivolti a loro, il “pester power” ha finito per tramutare i minori per dei veri e propri “pusher degli acquisti”, creando nuclei familiari interessati a soddisfare i bisogni del minore e a soddisfare ogni sua più piccola richiesta.

Lo psicologo James McNeal, che si è dedicato allo studio dei bambini come consumatori, sottolinea come questi diventino sempre più capaci di elaborare strategie di richiesta complesse impiegando i meccanismi della persuasione e della negoziazione, tentando di convincere i genitori con argomenti standard come la felicità, il risparmio di tempo e la sicurezza – gli stessi argomenti rielaborati dagli operatori di marketing al fine di costruire campagne di comunicazione efficaci. Se recentemente si punta al “dual messaging”, con annunci che tentano di guadagnare la fiducia di bambini e genitori contemporaneamente, mediante la presentazione di prodotti che presentano simultaneamente proprietà capaci di convincere i più grandi ed elementi in grado di sedurre i più piccoli, le pubblicità più efficaci restano quelle che si definiscono “ad influenza lineare”. Queste hanno come target unico i bambini di età compresa tra i 3 e i 12 anni, più facilmente influenzabili, e che possono convincere i genitori ad accontentarli.  Come spiega McNeal, l’atto di chiedere oggetti nei bambini è naturale, pertanto alle aziende non resta altro che informare i bambini della presenza del prodotto e renderlo desiderabile mediante strategie pubblicitarie infallibili, come il trans-toying e il gift-in-pack, usate principalmente dai produttori alimentari. L’intuizione dell’eatertainment (neologismo per indicare il divertimento legato al cibo) è alla base di queste due idee che puntano al trasformare prodotti ordinari in straordinari, rendendo così irresistibile il prodotto agli occhi del bambino, che lo associa automaticamente al gioco e alla sfera del divertimento.

Il trans-toying è una tecnica usata dagli operatori di marketing che consiste nel trasformare i prodotti di uso quotidiano in oggetti con cui giocare, come per esempio gli alimenti a forma di animale o lettere, in modo da attingere all’immaginario infantile e sedurre i giovani consumatori, ma per quanto questa tattica possa ammaliare è decisamente la strategia del gift-in-pack a risultare vincente. Si tratta dell’aggiunta di un regalo che accompagna il prodotto venduto, come nei celebri casi degli Happy Meal di McDonald’s e degli ovetti Kinder Sorpresa. Questo escamotage si basa sullo stupore, sull’eccitazione e l’appagamento che deriva dall’effetto sorpresa, la cui scoperta diventa un rito desiderato, soprattutto se le aziende offrono gadget che riportano brand noti al mondo dell’infanzia (come nel caso delle patatine San Carlo Junior con i gadget firmati Disney). Così facendo si migliora l’immagine aziendale agli occhi del bambino che associa il brand a un “distributore di regali”, aumentando la fiducia nei suoi confronti, tant’è che molti studiosi affermano quanto i bambini possano diventare assuefatti da questa pratica. Tra questi il professore Joel Bakan, che già nel 2012 con il suo “Childhood Under Siege” affermava: «Questi alimenti sono progettati per promuovere il consumo compulsivo da parte dei bambini, già facilmente suscettibili, e la presenza dei giocattoli non aiuta», sottolineando come si veda nei più piccoli solo un’opportunità di guadagno. Va inoltre sottolineato che l’effetto sorpresa ha ben breve durata vista l’effettiva scarsa qualità dei prodotti offerti: tempo di finire il pasto e il bambino si sarà già dimenticato del gioco, che verrà così immediatamente abbandonati in attesa di essere ritrovati da uno dei genitori in un angolo della stanza a prendere polvere e di conseguenza buttati nella spazzatura. Moltiplicando questo processo per 1,4 miliardi di volte ogni anno si può capire come il gift-in-pack rappresenti, oltre ad una tattica di marketing molto efficace, una serie problematica ambientale per il nostro pianeta.

Sono 369 milioni le tonnellate di plastica vergine che vengono prodotte ogni anno nel mondo. 100 milioni finiscono in natura per errori di produzione. Sono cifre enormi in cui il il trans-toying e il gift-in-pack giocano la loro parte.

Il problema è dato dal materiale di cui sono fatti i giocattoli, e dalla modalità con la quale vengono smaltiti o semplicemente messi da parte. Molti di questi giocattoli (se non tutti) sono composti da diversi tipi di plastiche, e questo rende difficile anche il loro smaltimento, poiché non rientrano negli oggetti pienamente riciclabili e differenziabili.

Un servizio della BBC ha rivelato che il colosso del fast food McDonald’s è il più grande distributore di giocattoli al mondo; sono infatti 1,4 miliardi gli Happy Meal distribuiti ogni anno nei vari paesi, a ciascuno dei quali va sommato il gadget in plastica di turno. Nonostante il McDonald’s abbia ribadito che in teoria i loro giocattoli sono riciclabili, la sopra citata composizione ne rende di fatto impossibile la differenziazione.

Questo fenomeno viene oltretutto ingigantito dalle grandi campagne pubblicitarie studiate per la sponsorizzazione di questi giocattoli, che vanno inserite all’interno del contesto della complessiva azione pubblicitaria messa in atto dai grandi attori dell’industria della carne e del fast food, spesso capaci di influenzare il dibattito politico delle istituzioni e anche di creare delle forti collaborazioni con le stesse. (vedi, Il gioco dei grandi). Di fatto, un veicolo pubblicitario inquinante aggiunto a un consumismo sfrenato potenzialmente ancora più dannoso per il pianeta, come è notoriamente quello del mercato della carne.

McDonald’s e Burger King stanno formalmente impegnandosi nell’arginare il problema della plastica relativa ai loro giocattolini omaggio. Nel 2018 il McDonald’s ha creato un gruppo di lavoro per discutere le questioni ambientali legate al suo Happy Meal, con l’obiettivo di utilizzare un solo tipo di plastica per renderla più facile da smaltire o di utilizzare materiali rinnovabili al posto della plastica. Alcuni progetti riguardavano proprio il 2020, e riguardano la possibilità di scegliere tra un gioco o un libro nell’Happy Meal, sostituire l’imballaggio di plastica di giochi o libri con la carta, e si parla anche di un progetto di riciclaggio di giocattoli di plastica indesiderati in attrezzature da gioco per Ronald McDonald’s House Charities in tutto il Regno Unito e l’Irlanda. Progetti che andrebbero, dunque, messi in pratica anche per il resto del mondo e in tempi brevi. Burger King ha invece intrapreso un altro approccio, prevedendo di eliminare i giocattoli non biodegradabili da tutti i suoi ristoranti entro il 2025. Azioni più o meno tempestive, sullo sfondo di un mercato mondiale in espansione perenne e votato al consumo sfrenato di carne. E portato nei ristoranti, in gran parte, dal desiderio dei bambini di ottenere un giocattolo di plastica.

Articolo di Margaret Lamanna, Pietro Forti, Sara Paolella, Luca Bagnariol, Adriano Bordoni, Virginia Bernardi e Lisa Personeni