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Il caso Biden: quando il Me Too si scontra con la propria parte politica
Come il movimento femminista americano sta affrontando le accuse di violenze sessuali verso il candidato dem
Il 25 marzo 2020, durante un’intervista per un episodio di un podcast diffuso principalmente nello stato della California, una donna di nome Tara Reade ha accusato il candidato alla presidenza Joseph R. Biden Jr. di violenza sessuale.
Tara Reade, che lavorò per un breve periodo nel 1993 come assistente dell’allora senatore, sostiene che Biden dopo averla bloccata contro un muro, la penetrò con le dita. Invece di andare dalla polizia, Reade riportò l’accaduto a Marianne Baker, l’allora assistente esecutivo di Biden, anche se le parlò esclusivamente di molestie in senso generico evitando di entrare nei particolari di quanto accaduto. Nonostante le sue lamentele lo staff si rifiutò di agire. Reade compilò dunque un reclamo scritto che consegnò a uno degli uffici del personale del Senato. A quel punto le tolsero molte delle sue mansioni e resero la sua vita professionale ogni giorno più difficile fino a quando fu definitivamente licenziata.
Nonostante alcuni testimoni che hanno confermato, anche se non integralmente, la storia di Reade, sono molte anche le persone pronte a testimoniare che un fatto del genere non sia mai successo nell’ufficio del senatore.
Uno degli assistenti dell’allora senatore Biden, in un’intervista ha sostenuto non solo che le accuse fossero false, ma anche di non aver mai incontrato Reade nel tempo in cui lei lavorò presso il loro ufficio; contestualmente Marianne Baker, a cui Reade aveva confidato le molestie, rilasciò una dichiarazione in cui sosteneva di non aver mai ricevuto lamentele di comportamenti inappropriati all’interno dell’ufficio, nè da Reade né da nessun altro.
Tara Reade si impegna oggi nella difesa delle vittime di violenza domestica. Inoltre è stata una delle sette donne che, nel 2019, accusarono Biden di averle toccate o baciate in modo inappropriato, ma, ai tempi, non aveva menzionato l’episodio di violenza sessuale. Nel 2020, durante le primarie del partito democratico, ha cambiato la sua versione aggiungendo i fatti del 1993. Accusata di voler screditare il candidato democratico, ha assicurato di non essere stata contattata dallo staff della campagna per la rielezione del presidente Trump.
Reade ha spiegato che la scelta di non discutere della molestia lo scorso anno fosse dovuta al fatto che avesse ricevuto diverse critiche e addirittura minacce di morte dopo aver parlato del comportamento inappropriato di Biden. Inoltre, il suo tentativo di rendere pubblica la vicenda si era scontrato con il rifiuto dei media.
Una lunga attesa
Dopo l’intervista di marzo, Reade ha contattato il “Time’s Up Legal Defense Fund”, un’iniziativa creata per combattere le molestie sessuali; il Fund non rappresenta i clienti legalmente, ma si occupa di metterli in contatto con avvocati specializzati; di tutti gli avvocati contattati da Reade nessuno ha accettato il suo caso, fino a pochi giorni fa.
Reade ha dovuto aspettare settimane, nonostante l’intervista trasmessa a marzo, prima che la notizia avesse la rilevanza che ci si aspetterebbe per una vicenda di questo tipo. Solo dopo quasi tre settimane, dimostrando un’insufficiente copertura mediatica, è stata pubblicata un’inchiesta sia sul Washington Post che sul New York Times riguardo alla questione cercando di fare un po’ di chiarezza, mentre l’ufficio stampa del candidato ha negato in modo netto ogni tipo di accusa, ma senza ancora che Biden dicesse nulla a riguardo.
Le settimane di silenzio sono state dovute alla cautela legata probabilmente al tentativo di salvaguardare la candidatura e di trovare la giusta modalità di rispondere senza rischiare di perdere il supporto delle elettrici femminili e alla determinazione dei democratici a pretendere nessuna tolleranza verso la violenza sulle donne.
Nonostante questo, il ritardo nella risposta ha frustrato alcuni colleghi che avevano preso le difese di Biden e alcuni attivisti democratici, impazienti che l’ex vicepresidente affrontasse direttamente la questione mettendo in luce la contraddizione tra i fatti e la sua campagna che ha trattato questioni di genere e sessualità, argomenti di importanza vitale per molti membri del suo partito.
La risposta di Biden
La tensione dovuta all’attesa ha trovato sfogo il primo maggio in un’intervista avvenuta su MSNBC e in una dichiarazione rilasciata su Medium, all’interno della quale Biden ricorda il suo lavoro come coautore del Violence against women Act. A evidenza dell’impegno di Biden per limitare o addirittura eliminare le aggressioni sessuali, la stessa Reade nel 2017 lo aveva elogiato su Twitter.
Durante l’intervista Biden ha negato in modo netto e inequivocabile che gli eventi siano mai accaduti, cercando comunque di mantenere un comportamento rispettoso nei confronti di Tara Reade. Queste dichiarazioni molto probabilmente non porranno fine alla vicenda ed è probabile che in casi come questo non sia possibile trovare la verità; nonostante questo le dichiarazioni di Biden hanno ridato spinta ai democratici e ai suoi sostenitori.
Inoltre, le dichiarazioni di Biden sono state rilevanti anche per il tentativo, seppur tardivo e non sempre efficace, di non limitarsi alla negazione quando si tratta di violenza sessuale: egli non ha infatti attaccato Reade né ha criticato le sue motivazioni cercando di non sminuire le accuse della donna e anzi insistendo sulla necessità di indagare a fondo sulla questione. Questa risposta si trova in linea con le posizioni di Joe Biden, che da tempo si presenta come un sostenitore dei diritti delle donne. Nel suo discorso ha infatti ricordato che da sempre ritiene fondamentale che le accuse delle donne vengano prese seriamente, non solo venendo ascoltate ma anche supportate dalla stampa e sottoposte a una indagine regolare. Ha però anche specificato la necessità di attenersi ai fatti che, ha sottolineato, in questo caso “non esistono, non sono mai accaduti”.
Vecchie accuse, nuovo protagonista
Accuse di molestie sessuali nel panorama politico non sono una novità per gli statunitensi, soprattutto negli ultimi anni. Fin dalle prima accuse contro Donald Trump e lo scandalo Weinstein, è stato soprattutto l’ambiente democratico a farsi portavoce e difensore delle vittime di molestie e violenze sessuali, un atteggiamento che il partito democratico stesso ha velocemente seguito.
Al contrario, il partito repubblicano, e l’ambiente repubblicano in generale, ha fatto fronte comune nel proteggere gli accusati. La motivazione dietro questo atteggiamento non è difficile da trovare: molti degli uomini accusati di comportamenti inappropriati e anche violenti sono stati esponenti del partito, in primis il presidente Donald Trump, ma anche l’ex presidente della Corte di Giustizia dell’Alabama Roy Moore, accusato di avere avuto rapporti con giovani donne minorenni, o esponenti di spicco dell’ambiente repubblicano come nel caso di Roger Ailes, l’ex CEO di Fox News.
Il caso in cui questa divisione è diventata più evidente è probabilmente quello del giudice Brett Kavanaugh.
Dopo essere stato nominato nel 2019 alla Corte Suprema dal presidente Trump, una carica a vita negli Stati Uniti d’America, il giudice Kavanaugh è stato accusato dalla dottoressa Blasey Ford di averla violentata durante gli anni del liceo. L’accusa della dottoressa Ford aveva scatenato un acceso dibattito nell’opinione pubblica e la dottoressa era stata portata a testimoniare davanti al Senato nell’udienza per approvare la candidatura di Kavanaugh. Il giudice venne confermato per 50 voti contro 48, rispettando quasi perfettamente la divisione tra Repubblicani e Democratici; un sondaggio dell’Università di Quinnipiac mostra come la divisione Democratici-Repubblicani fosse netta anche nell’opinione pubblica con l’86% di Democratici convinti dalla testimonianza della dottoressa e l’84% dei Repubblicani pronti a schierarsi con il giudice.
La retorica dei Repubblicani, nel caso Kavanaugh come nel caso Ailes e nelle accuse contro il presidente Trump, si sviluppa principalmente intorno a tre punti: sottolineare le incongruenze e le mancanze nelle versioni delle accusatrici, insistere sul domandare come mai avessero aspettato così tanto tempo a farsi avanti e capovolgere il dibattito in modo da far apparire gli accusati come le vere vittime.
L’intero establishment democratico si indignó non solo per il risultato della votazione in Senato, ma anche per questa retorica che portò numerosi politici, tra cui lo stesso Biden, a sottolineare la necessità di “credere a tutte le donne” per cambiare la cultura del silenzio riguardo le molestie sessuali.
Scambio di retorica
Il caso Biden non è il primo scandalo sessuale a cui il partito Democratico ha dovuto far fronte dalla nascita del movimento #MeToo. Già nel 2018 il senatore democratico Al Franken era stato costretto a dimettersi in seguito a una serie di accuse di molestie e comportamenti inappropriati.
Questa vicenda preoccupa però in un modo diverso perché Biden rappresenta la possibilità di sconfiggere Donald Trump. Joe Biden non può cadere e per evitare che succeda il partito insieme all’ambiente democratico più in generale si è rivolto alla stessa retorica utilizzata dai Repubblicani.
Tara Reade, infatti, é stata criticata per aver cambiato versione dei fatti a un anno di distanza e per non ricordare esattamente il punto in cui fosse stata compiuta la violenza, quando solamente l’anno scorso la dottoressa Ford aveva spiegato quanto fosse facile per le vittime di violenze dimenticare dettagli del trauma subito, tra gli applausi dei democratici per il suo coraggio; Reade viene criticata per aver rilasciato la prima intervista quando Biden era in corsa per le primarie, mentre la dottoressa Ford, che si era fatta avanti solo dopo la nomina del giudice Kavanaugh, era stata celebrata come un’eroina nazionale.
Anche il processo di vittimizzazione di Biden ha cominciato a farsi strada nel dibattito dell’opinione pubblica: sono comparse diverse testimonianze che dipingono Tara Reade come un’approfittatrice abituata a raggirare e a mentire per il proprio interesse, mentre Biden viene spesso descritto come il simbolo del rispetto delle donne, ignorando completamente le testimonianze, di appena un anno fa, sui suoi comportamenti inappropriati. Alcuni esponenti del partito Democratico hanno però optato per la via del silenzio rifiutandosi di commentare o offrendo il loro supporto a Biden sorvolando completamente l’argomento.
Di contro, l’establishment repubblicano, e in particolare il sistema mediatico rappresentato da Fox News, si è proposto come cassa di risonanza di tutte le accuse di ipocrisia al partito democratico e, in particolare, a Joe Biden. La prima intervista di rilievo di Tara Reade è stata con Megyn Kelly, figura di spicco dell’ambiente repubblicano e una delle donne al centro delle dimissioni di Roger Ailes, mentre Tucker Carlson, uno dei maggiori presentatori di Fox News, ha riportato nel suo programma qualsiasi testimonianza su ipotetiche molestie perpetrate da Joe Biden.
La retorica Repubblicana non può certo essere definita femminista, e nemmeno paragonabile a quella dei democratici durante il caso Kavanaugh, ma si sono presentati come l’unico canale a dare voce agli scontenti del comportamento del partito Democratico in questo frangente.
Il caso Tara Reade mette in luce, come in altri momenti nella storia politica statunitense, la mancanza di valori cardine, ad eccezione forse di quelli economici, al centro dei due partiti, pronti a scambiarsi di ruolo pur di mantenere o recuperare potere all’interno del sistema.
La presidenza Trump sarebbe potuta diventare, per il partito Democratico, un momento di analisi e cambiamento, riavvicinamento alla propria base, ricerca di valori comuni, ma Joe Biden rappresenta inequivocabilmente il desiderio di ritorno a una politica del “prima” e di un partito Democratico moderato e sicuro. La decisione dell’establishment democratico di sacrificare quello che sembrava, e avrebbe potuto essere, un valore al centro della loro politica è il simbolo della mancanza di differenze sostanziali tra i due partiti.
Articolo di Elisa Pagni e Carlotta Perego