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La svolta strategica di Biden su Taiwan
“Avete intenzione di intervenire militarmente per difendere Taiwan, se la situazione lo richiedesse?”. Questa è stata la domanda posta al Presidente americano Joe Biden durante la conferenza stampa al seguito della sua prima visita ufficiale in Giappone e l’incontro con il Primo Ministro giapponese Fumio Kushida. Una domanda da sempre estremamente scomoda per le amministrazioni americane, in quanto la relazione tra USA e Taiwan è da sempre causa di forte tensione con l’attuale primo competitor internazionale degli Stati Uniti, la Cina. Ci si sarebbe potuto aspettare un tentativo di evadere la questione o più semplicemente di far cadere la domanda nel vuoto, invece Biden ha deciso di stupire tutti. “Si, questo è l’impegno che abbiamo preso”.
Una risposta forte, ma l’attuale Presidente americano non è nuovo ad uscite simili. Già nell’ottobre dello scorso anno, durante un evento a Baltimora, Biden aveva risposto nella stessa identica maniera quando era stato interrogato su un possibile intervento militare statunitense in difesa di Taiwan. Come sottolineato dal Washington Post, è interessante però notare un pattern fisso in queste dichiarazioni, che vengono sempre puntualmente seguite da una secca smentita da parte del Front Office della Casa Bianca, il quale riduce queste parole a delle semplici gaffe prodotte dal Presidente. Ma si tratta solamente di questo, oppure dietro alle parole di Biden dobbiamo leggere un chiaro segnale del cambiamento strategico della posizione statunitense nei riguardi di Taiwan, oltre che un chiaro monito alla Cina? Fra le due opzioni, appare più credibile la seconda.
Abbandonare l’ambiguità strategica su Taiwan
L’ex isola di Formosa ha sempre rappresentato uno snodo strategico fondamentale per la geopolitica americana. In quanto potenza talassocratica, che ha come obiettivo cardine il controllo delle rotte marittime commerciali tramite l’utilizzo della propria flotta militare, per gli Stati Uniti Taiwan ha sempre giocato un ruolo chiave per la sua posizione geografica. Un rapporto di collaborazione con l’isola permette infatti di avere accesso alle remunerative rotte commerciali del Mar Cinese Meridionale, fondamentale per il collegamento con i due maggiori porti per tonnellaggio totale di spedizione, Shanghai e Singapore.
Questo ha spinto gli USA a cercare sempre uno stretto rapporto con l’isola di Formosa, fin dal trasferimento del Kuomintang nel 1949 a seguito della sconfitta nella Guerra Civile cinese con il Partito Comunista guidato da Mao Zedong. Il massimo raggiungimento di questa prima partnership è stata la concessione del seggio di Membro Permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU al Kuomintang come rappresentante della Cina a scapito proprio del Partito Comunista cinese. Tale titolo è stato poi revocato nel 1971, quando il neo-eletto Presidente americano Richard Nixon e il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Henry Kissinger diedero vita alla politica di riavvicinamento sino-americana, conclusasi con una formale normalizzazione dei rapporti nel 1979 che portò gli USA a negare il riconoscimento internazionale a Taiwan.
Da allora, i rapporti tra Stati Uniti e Taiwan sono regolati dal Taiwan Relations Act, provvedimento formale nel quale il paese, pur riconoscendo la Repubblica Popolare Cinese, si impegna nel mantenere uno stabile rapporto di economico commerciale con l’isola, di avere a cuore il mantenimento della pace nell’area e di essere pronti a fornire armamenti militari difensivi. Il documento trascura però un passaggio fondamentale, ovvero la volontà o meno degli Stati Uniti di intervenire militarmente a difesa di Taiwan in caso di attacco militare cinese. Questo silenzio sulla questione ha dato vita a quella che viene definita la politica della “Strategic Ambiguity”, nella quale gli Stati Uniti hanno sfruttato magistralmente questa ambiguità per non dare una certezza né alla Cina nè a Taiwan su un loro diretto coinvolgimento militare nel caso di scontro tra i due paesi. Questa ambiguità ha funzionato come deterrente per un’invasione cinese e per impedire a Taiwan di innalzare la tensione con la Cina continentale, in maniera tale da non provocare un attacco cinese che avrebbe visto coinvolti involontariamente anche gli Stati Uniti.
Perché cambiare
Le parole di Joe Biden, secondo alcuni commentatori, sembrano abbattere direttamente l’apparato teorico che regge l’ambiguità strategica americana. Pur considerando le smentite di rito, mai un Presidente americano si era espresso così chiaramente sulle intenzioni del proprio paese in caso di attacco militare a Taiwan. Un cambio di passo figlio della suddetta importanza strategica dell’isola per l’impero geopolitico statunitense, non solo per il controllo delle rotte commerciali del Mar Cinese Meridionale ma anche poiché Taiwan rappresenta il cuore del mercato globale dei semiconduttori, con la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company che rappresenta il 54% del mercato fondiario globale dei semiconduttori che compongono i microchip. Un mercato sempre più importante all’interno della supply chain internazionale, sul quale la Cina ha messo gli occhi da anni senza però mai riuscire a colmare il gap con la Repubblica di Cina di stanza nell’isola di Formosa. Avere in mano Taiwan vuol dire avere in mano il mercato dei semiconduttori globale, un vantaggio competitivo enorme che fa gola alla principale potenza tecnologica dell’area.
Altro elemento che potrebbe aver spinto l’amministrazione Biden ad un così radicale cambio di strategia può essere certamente il destino di Hong Kong. La regione amministrativa speciale era infatti parte di quella politica definita dalla Repubblica Popolare Cinese “una Cina, due sistemi”, nella quale si riconosce l’unicità della Cina come soggetto politico ma al tempo stesso riconoscendo a territori come Hong Kong, Macao e Taiwan la possibilità di essere amministrate secondo un diverso ordinamento istituzionale rispetto a quello di Pechino. Il costante processo di penetrazione nella vita politica di Hong Kong da parte del Partito Comunista Cinese ha però portato ad una graduale rottura di questo schema, culminata poi con l’approvazione della Legge di Sicurezza Nazionale nel 2020 da parte del Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo, che ha de facto posto fine all’amministrazione speciale del territorio e posto la regione sotto il serrato controllo del Partito Comunista cinese. Uno scenario che la Cina potrebbe tranquillamente replicare anche a Taiwan e che spaventa gli Stati Uniti per la già precedentemente citata centralità strategica dell’isola nello scacchiere geopolitico statunitense.
Esiste un rischio di invasione di Taiwan?
In questa serie di fattori potrebbe risiedere la volontà da parte dell’amministrazione Biden di abbandonare la politica dell’ambiguità strategica. Rimane ora da chiedersi se esista ad oggi il concreto rischio di un’invasione dell’isola di Formosa da parte dell’esercito cinese.
La risposta a questa domanda ci viene data proprio dalla stessa Hong Kong. Anche in questo caso infatti, la Cina non ha mai riconosciuto Taiwan e la Repubblica di Cina come uno stato indipendente sovrano, ma lo ha sempre ritenuto parte integrante del territorio cinese. Il Partito Comunista cinese ritiene infatti la Repubblica di Cina decaduta nel 1949, risultando così l’unico partito legittimato a governare in Cina e riconoscendo come propri i territori della Repubblica di Cina secondo la teoria della successione di Stati. Date queste premesse, come per Hong Kong la Cina non ha ancora preso in considerazione l’idea dell’utilizzo della forza militare per ricongiungere il governo dell’isola con quello della Cina Continentale, in quanto non ritiene necessario l’utilizzo dell’esercito per acquisire qualcosa che ritiene già esser proprio di diritto. Evitare un coinvolgimento militare diretto è anche una delle chiavi della strategia internazionale di Xi Jinping, che cerca sempre di giocare sul contrasto tra una Cina pacifica e il costante interventismo militare statunitense. Ad oggi, la Cina non è coinvolta direttamente in alcuno scenario bellico, posizione sempre rimarcata dai rappresentanti cinesi ogni qualvolta siedono al tavolo delle trattative con le altre nazioni per concludere accordi di natura economico-commerciale.
Un’invasione militare di Taiwan smentirebbe totalmente uno dei punti cardine della strategia geopolitica di Pechino. Oltre a questo, pur non essendo certa fino ad oggi, da parte del governo cinese vi è sempre stata la convinzione che l’America avrebbe risposto militarmente ad un attacco nei confronti dell’isola di Formosa, conscio di quanto essa sia strategicamente fondamentale per il controllo delle rotte commerciali del Mar Cinese meridionale.
Le parole di Biden in questo senso hanno diramato gli ultimi dubbi rimanenti sulla posizione statunitense su Taiwan. Pur se ad oggi è difficile prevedere una prossima invasione dell’isola da parte della Cina, il surriscaldamento generale delle relazioni internazionali a seguito dell’ingiustificata invasione russa dell’Ucraina ha portato gli Stati Uniti a lanciare un preciso messaggio alla Cina: anche se con lo sguardo rivolto verso l’Ucraina, gli Stati Uniti non hanno dimenticato Taiwan. In un momento nel quale la guerra torna ad esser protagonista nelle relazioni fra le maggiori potenze globali, l’America di Joe Biden si dice pronta a difendere il proprio vantaggio strategico nei mari del Sud-est Asiatico con la forza del proprio arsenale militare. Un vantaggio che ha proprio in Taiwan la propria principale fondamenta.
Articolo di Luca Bagnariol