Black Lives Matter e la cultura della protesta: cosa ne rimarrà?

19/08/2020

Le manifestazioni negli Stati Uniti continuano a svolgersi da quasi due mesi, a volte ancora con accezioni di violenza, ma l’energia globale sta già diminuendo. Alcuni lottano per l’arresto degli assassini di Breonna Taylor, certi per la smantellamento della polizia, altri per gli investimenti pubblici, altri ancora contro le crescenti dimostrazioni di Blue Lives Matter e chi, invece, per la rivoluzione totale. Però tutti contestano la supremazia bianca e le varie forme che essa va assumendo. Quindi noi ci chiediamo, a parte le riforme politiche che spesso deludono, dove possiamo percepire un cambio sociale reale? Per identificare questo effetto popolare, abbiamo deciso di prestare attenzione all’ambito culturale di Black Lives Matter.

Il momento in cui nasce il cambio radicale

Per offrire un’analisi più completa del movimento sociale Black Lives Matter conviene rivolgersi alla critica fatta dal filosofo molto contestato Slavoj Žižek nei confronti delle London Riots del 2011. Le proteste, sorte dopo l’omicidio di Mark Duggan, un uomo afro-inglese, per mano di un poliziotto londinese, si caratterizzarono per i diffusi saccheggi e istinti violenti perpetrati dai manifestanti. Mentre la maggior parte dei commentatori, da sinistra a destra, si affrettavano per generare spiegazioni più o meno concrete riguardo alla causa oggettiva e darne delle soluzioni, Žižek disse che era “una protesta di grado zero, un’azione violenta che reclamava nulla.” Con ciò non s’intende la prova tangibile dell’ottica liberale occidentale che dagli anni ‘90 proclama la supremazia della politica pragmatica e razionale e la morte dell’ideologia, ma anzi rappresenta una delle due scelte proposte dall’attuale sistema politico-sociale: “giocare secondo le regole” o fare ricorso alla “violenza (auto)distruttiva.” Citando Zygmunt Bauman, Žižek spiega che si tratta di “consumatori difettosi e squalificati”: un’ironia consumista e capitalista, cioè altrettanto partecipe all’ideologia alla quale si oppone. Il ruolo di queste proteste violente fu inquadrato da lui con il termine hegeliano negazione astratta, cioè “una violenza non veramente autoassertiva”: le dimostrazioni londinesi, alle quali aggiunse altri movimenti sociali definiti “con spirito di rivolta ma senza rivoluzione,” quali i moti delle Banlieues parigine del 2005, certi aspetti della Primavera araba particolarmente in Egitto e il movimento spagnolo nonviolento degli Indignados (che non avendo un programma politico ci ricorda un po’ la formulazione delle Sardine odierne), ebbero vita solo come reazione d’ira contro il sistema oppressivo o corrotto o quel che sia, senza aver definito nuovi valori ed ideologie alternativi per i quali si dovrebbero lottare: le parole chiavi sono contro e per.

Quando un movimento sociale rimane solo nell’aspetto dell’opposizione – nella forma sia di una rabbia astratta sia diretta a qualcosa di determinato – finisce per dissolversi nell’ideologia dominante verso la quale è diretta tutta la sua energia e dalla quale spunta, proprio perché si dedica solo al negare invece del creare. Il grande saggista anti-colonialista Frantz Fanon lo dice chiaramente: “il risentimento, il legittimo desiderio di vendetta non possono alimentare una guerra di liberazione…l’odio non potrà costituire un programma” (Dannati della Terra, 1961). Diviene dunque imprescindibile il processo di sviluppo di un’alternativa culturale se si vuole effettuare un vero cambio sociale – il radicalismo vero resta non nella reazione, ma nella creazione, che seguendo sempre Fanon fiorisce con lo sviluppo di una nuova coscienza nel processo di un’autentica politicizzazione delle masse. È tramite proprio questa lente d’ingrandimento che possiamo guardare il movimento statunitense nato a maggio a Minneapolis, fatto scattare dall’omicidio di George Floyd per mano della polizia.

La rabbia contro

Prima di tutto serve dare un’occhiata al lato contro delle manifestazioni stesse perché la resistenza all’ordine presente, che procede sia politicamente sia fisicamente, è indubitabilmente il punto di partenza di ogni movimento. L’ambito delle dichiarazioni politiche si può dire esser diventato quasi da subito ampissimo e variegato, del quale offriamo un breve riassunto non esaustivo: il lato d’opposizione nelle manifestazioni parte dal classico nato negli anni ‘80 (visto anche nel rap di N.W.A., Wu Tang Clan, ecc.) con il boom del prison-industrial complex e la War on Drugs che portano agli arresti e l’incarcerazione di massa: l’intramontabile f**k the police!. Si procede poi per i messaggi più concreti quali defund the police (“smantelliamo la polizia”) ad altre reclamazioni per eliminare il razzismo sistemico e istituzionale, sino a raggiungere la “macro” dichiarazione: “lo stato e il capitalismo sono implicitamente razzisti e colonialisti”.

La rabbia contro che si rivela in queste denunce politiche e sistemiche allo stesso tempo si identifica fisicamente nei saccheggi, vandalismi e incendi dentro e fuori le proteste. Questa violenza diretta al sistema economico e poliziesco, che per esempio a New York si è vista principalmente nei quartieri benestanti e commerciali di Manhattan, spesso per mano di ragazzi giovani di colore non attivisti, è una testimonianza del fatto che le comunità afroamericane possiedono una profonda coscienza della loro oppressione in tutte le sue forme. Fanon parla dell’esistenza di una rabbia storica: una rabbia definita dalla violenza, perché la violenza è sempre stato l’unico mezzo di comunicazione rivolto al popolo colonizzato (in questo caso oppresso in un modo diverso ma strettamente relazionato). Utilizza tale concetto per spiegare questa coscienza di oppressione che permette ai ceti meno “colti” della popolazione di cogliere i discorsi più intellettuali sul capitalismo e l’oppressione sistemica, una descrizione che si potrebbe imporre ai saccheggiatori statunitensi. In un’intervista del 1972 in una prigione statale della California, Angela Y. Davis analogamente afferma: “quando qualcuno mi chiede riguardo la violenza lo trovo incredibile perché ciò che significa è che la persona che sta ponendo quella domanda non ha assolutamente idea di cosa abbiano vissuto le persone Nere in questo paese sin dal primo giorno che sono state rapite dalle coste dell’Africa.” Evitiamo dunque di alienare i saccheggi dal “vero” movimento come fanno i mass media poiché grazie a questi scrittori e pensatori interpretiamo la violenza come emblematica appartenente ad una rabbia storica, giustificata e proveniente dalla memoria e dalla coscienza collettiva dell’essere oppressi.

La lotta e l’amore per

In un’intervista dell’11 giugno di quest’anno, Žižek anche in questo caso critica una violenza e una negazione senza un programma articolato. Ma dando un’occhiata dal di dentro, capiamo che il filosofo non coglie in quelle poche frasi la reale alternativa culturale costantemente in evoluzione (questa crescita e autocorrezione indefinita è anche ciò che lo definisce) che offre questo movimento. L’alternativa che il filosofo non è stato in grado cogliere è il lato della lotta per, cioè il lato del positivo, dell’amore radicale che equilibra la negazione, la rabbia fondamentale. Lo spazio in quest’articolo non basta per un’analisi esaustiva di tutte le forme culturali che si stanno creando, per quello rivolgiamo l’attenzione all’esempio delle manifestazioni e degli spazi di giustizia sociale sviluppatisi a New York come microcosmo del desiderato paradigma – il motivo è semplicemente che chi scrive sta vivendo questi spazi ogni giorno.

I principi fondamentali che oggigiorno si manifestano maggiormente sono quelli del mutuo soccorso e della rivendicazione di una cultura dal basso da persone storicamente trascurate. Le manifestazioni newyorkesi si organizzano spontaneamente, non per volere degli organizzatori, ma per senso comune e buona volontà: bici che fanno sgombrare il traffico, macchine fornite di mangiare e bere che accompagnano le masse, volontari indipendenti che distribuiscono mascherine e amuchina, paramedici pronti a ripartire occhialini e curare vittime in caso di lacrimogeni o altri scontri, ed esperti che spiegano cosa fare in caso di arresto o tensioni con la polizia. Oltre a questi elementi basici, esiste un’intesa collettiva del fatto che le persone bianche dovrebbero camminare ai confini della vulnerabilità (letteralmente posizionandosi come barriere umane attorno al perimetro delle dimostrazioni) per proteggere le persone di colore dai poliziotti. Black Lives Matter è inoltre uno dei movimenti più multietnici e variegato della storia: la solidarietà è alimentata da tutti i marginalized groups (“gruppi emarginati”) ed ampi sono gli sforzi atti a smantellare la divisione storica che esiste fra i diversi gruppi etnici di colore negli USA, riconoscendo anche la complicità di certe model minority (le “minoranze esemplari” che come concetto è ugualmente oggetto della smantellazione) nell’oppressione dei Neri. Nonostante ciò, tutti capiscono che queste dimostrazioni sono spazi dove si devono rendere prioritarie le voci, storie, esperienze e sentimenti della diaspora africana perché non esiste altro luogo dove sono libere di esprimersi. C’è un’intesa che questo spazio di solidarietà, giustizia, sostegno, e amore lo dobbiamo creare noi, da manifestanti newyorkesi, ma anzitutto da membri di un mondo del quale siamo responsabili.

La cultura delle manifestazioni: l’abolizione è creazione

Queste proto-comunità non centralizzate create durante le manifestazioni si sono concretizzate durante Occupy City Hall (poi chiamato Abolition Plaza o Park), l’occupazione del municipio di New York in azione dal 26 giugno fino al 22 luglio, quando è stato invaso ed estirpato dalla polizia, simile a ciò che è avvenuto alla CHAZ di Seattle. Vari gruppi e individui si erano organizzati per fornire alla Plaza un’alimentazione costante, risorse materiali di tutti i tipi, servizi medici e psichiatrici, una biblioteca con lezioni letture e gruppi di studio, un reparto per arte e musica, un meccanico per bici, un chiosco spirituale con varie guide religiose e varie strutture e tende per proteggere dalla pioggia e dal sole. Ci si riuniva in assemblea o nei cosiddetti affinity groups (“gruppi di affinità”, che cioè sono piccoli gruppi di mutuo soccorso che agivano come un sistema di sicurezza orizzontale fondato sulle norme comunitarie) varie volte al giorno per discutere sui problemi e sulle azioni di Abolition Park e per assicurare il benessere di tutti, e in qualsiasi momento quotidiano si “sentivano” e “vedevano” musicisti, scrittori, poeti, oratori e artisti Neri che ogni giorno – sia dentro che fuori gli spazi esplicitamente “d’avanguardia” simili ad Abolition Plaza – continuano a rafforzare l’unione e la cultura collettiva di Black Lives Matter. Ugualmente essenziale per la cultura dello spazio, esisteva un sostegno altrettanto forte, relativo alla situazione, per le voci delle persone queer, donne, disabili, giovani e anziani.

Di grandissima importanza, notato anche dal New York Times, è il fatto che questa comunità veniva frequentata da moltissimi senzatetto, ai quali, come tutti quelli che entrano nella zona, tutte le risorse erano offerte senza costo o domande. È chiaro che si trattava di una comunità di e per i più vulnerabili: una ripresa dei diritti, della cura e della cultura che, dallo stato e dalla nostra società generale, gli sono stati storicamente negati. Rispondendo a una domanda posta dal Times sulle tensioni fra i senzatetto e il loro ruolo nel movimento, gli organizzatori risposero che questa instabilità è un sintomo inevitabile del “‘disimparare e riapprendere” concetti di controllo, proprietà e sicurezza’”. Oltretutto venivano organizzate varie sessione di de-escalation training (lezioni di distensione) per diffondere un nuovo approccio alla risoluzione dei conflitti. Nonostante certi momenti inevitabili di tensione, girando la piazza si vedevano giovani studenti, lavoratori senza casa e anziani organizzatori radunati a discutere temi quali la violenza sistemica, l’oppressione e la liberazione, crescendo insieme e imparando sia la teoria sia la pratica per una vera convivenza demarcata dall’amore per la comunità. Il presupposto non solo dell’occupazione, che fu solo un esempio concentrato del lavoro culturale e sociale che procede indefessamente negli innumerevoli spazi di giustizia sociale nonostante la caduta di Abolition Plaza, ma di tutto il movimento Black Lives Matter – dopotutto è un’affermazione positiva – è ciò che descrive la geografa Ruth Wilson Gilmore nella frase che circola per tutta Abolition Plaza: “l’abolizione è una presenza, non un’assenza.” La presenza la vediamo innanzitutto con la celebrazione della vera Black abundance (l’abbondanza Nera di cui parla Kiese Laymon nella sua autobiografia Heavy, diventato un termine diventato parte del vocabolario di questi spazi). La fioritura di questa gioia e immaginazione radicale dei più oppressi (la Black radical joy e la radical imagination, anche questi termini sviluppatosi nel lessico del movimento, il cui incessante dinamismo linguistico è altra indicazione della creazione di cultura dal basso), nata inizialmente come rabbia contro il sistema attuale, è a sua volta il segnale molto atteso dello spuntare di uno spirito di creazione e di una cultura alternativa provenienti dall’altrisimo degli oppressi—cioè l’idea che la condizione degli oppressi deriva da e si perpetua grazie al fatto che vengono considerati “altro” rispetto alla norma bianca, uomo, etero, abile, ecc., ma che da questa alienazione esistono gli strumenti per riscoprirsi, ridefinirsi, ricrearsi in un nuovo paradigma personale e culturale, liberandosi dall’etichetta dell‘altro. È questo il concetto che rimane sempre al centro delle speranze dei grandi pensatori e scrittori della liberazione (fra cui Fanon, Davis, Morrison e gli stimati leader dei Black Panthers, ma anche Hegel, Sarte, Gramsci, De Beauvoir, e soprattutto la Scuola di Francoforte): la promessa di un cambio dal basso che porterà a un futuro di giustizia e solidarietà umana.

Il movimento newyorkese si può considerare una forma concentrata di un effetto popolare di cambiamento e creazione molto più ampio. Lo spazio qui non basta per un’analisi culturale esaustiva che tenga conto di tutte le sue sfaccettature. Però, possiamo riflettere su come alcune conseguenze dell’uso della “protesta” possano essere utili per pensare, elaborare ed eventualmente ri-pensare riguardo al momento storico che stiamo vivendo.

George Wallace diceva: “segregazione oggi, segregazione domani, segregazione sempre”. Aveva ragione?

Negli anni ‘60, gli statunitensi erano ben consci di cosa volesse dire protestare e affermarsi consapevoli di un possibile e conseguente cambiamento politico. In generale, il mondo utilizzava questa forma di espressione politica in modo incondizionato per portare non solo l’attenzione ai più ma per coinvolgere attivamente (da qui, il filone di ciò che oggi definiamo “attivismo politico”) tutta la popolazione interessata. Nel seguire degli anni, le forme di protesta sono mutate pur non abbandonando mai il loro contenuto che viene, di fatto, reiterato nella storia. Per capirci, basti pensare alla rivolta dei moti di Stonewall e alle odierne parate del Pride oppure alle consuetudinarie marce femministe dell’8 marzo conseguenti all’affermazione e rivendicazione dei diritti delle donne (ancora tutt’oggi denominate come una categoria sociale di minoranza). Le stesse basi di partenza per una riflessione simile si potrebbero applicare al sentiero che gli afroamericani hanno dovuto percorrere, passando da una guerra d’Indipendenza e una civile (ed altri molteplici “bricks in the wall”) per raggiungere la serenità di essere americani, in America, Neri.

Tuttavia, gli americani pur avendo ben chiara la loro storia ed il loro cammino verso l’American Dream sembrano aver perso, il 25 maggio 2020 – il giorno dell’uccisione di G. Floyd – dal loro orizzonte culturale uno dei capisaldi su cui si fonda la nazione stessa: la fine della segregazione razziale. Nei giorni successivi, il vaso di Pandora viene scoperchiato: la serenità di cui sopra diventa fragilissima, forse, si pensa fosse addirittura inesistente. Infatti, qualche anno precedente (precisamente nel 2013) diventa virale un hashtag che sarà poi la la punta dell’iceberg della protesta intra-razziale che l’America ed il mondo stanno vivendo oggi: Black Lives Matter. Il messaggio è chiaro e nasce un movimento internazionale: il razzismo è evidente e si declina in tutte le forme di oppressione socio-politica. Tuttavia il potere della piazza e della folla, a distanza di alcuni decenni dai primi moti, torna ad essere visibile; non solo meramente visibile ma mediatico e globale. Per una volta, nella lunga assenza delle proteste per le strade, gli spettatori erano meno dei partecipanti: questa è la vera rivoluzione per l’auspicato cambiamento della coscienza culturale americana. In altre parole, ciò che può darci speranza domani. Le proteste odierne di tipo spontaneo sono le più numerose e internazionali mai avute in precedenza; rappresentano l’unificazione a vasta portata di tutti tipi di “minoranze”, osservabile nei gruppi di nome “South Asians”, “Queers” e “Latinx for Black Lives” (quest’ultimo si vede anche nell’inno e motto “¡la migra, la policìa, la misma porqueria!” che lega l’oppressione da parte dell’ICE dei latini con quella della polizia nei confronti dei Neri). James Miller, accademico e storico americano, racchiude con l’espressione “democracy is in the streets” il sentimento di una generazione che sì, esisteva nel ‘68 ma che, grazie e a causa di quel video, ci ha fatto rivivere la stessa emozione trasformativa.

Forse, alcuni potranno pensare che questo impeto di protesta possa essere stato anche innescato dal lungo periodo pandemico che ci ha costretti a rimanere in silenzio, sempre davanti ad uno schermo e a riflettere; ma di certo tutti i dubbi e le riflessioni, anche in questo caso, appartengono alla folla che si accumula nelle strade.

George Floyd: la scintilla commovente che da luce ad una diseguaglianza storica

Si sa bene che i movimenti sociali, come BLM, non rimangono mai chiusi in loro ma che incidono sulla cultura generale senza considerare se è stato concesso il permesso di cambiare alcuni paradigmi attivi sino a quel momento. Questa sfaccettatura della “creazione di cultura” inevitabilmente sta cambiando la coscienza di bianchi e Neri negli Stati Uniti e forse di tutto il mondo anche se probabilmente in una maniera meno attenzionata e radicale. In un modo più “popolare” si vede più rispetto per l’esperienza afroamericana da parte dei bianchi partendo dal principio di riflessione e di ascolto: comprendere che non si può capire. Un esempio della fattualità di questo principio si può ripercorrere nelle iniziative social e culturali che hanno dipinto di nero un banalissimo quadrante di Instagram in un giovedì qualunque. Il significato è definibile nell’espressione “Be muted. But listening, but learning.” rivolto alla popolazione bianca. L’idea che sta alla base di questa iniziativa è altrochè banale, è un invito all’educazione: l’idea è che i bianchi devono combattere le strutture razziste quanto i Neri, nella legittimazione di vasta portata del discutere e confrontarsi riguardo al razzismo che non è odio individuale ma violenza sistemica. Il New York Times ha pubblicato, per facilitare questa “bianca” auto-educazione, un articolo riguardante proprio i libri da leggere per iniziare un cammino di vera condivisione culturale ed il risultato fu che le mensole delle librerie -online ed offline- sono state prese d’assalto. Potrebbe essere anche questo un punto di riflessione per una effettiva fine della segregazione razziale? Insomma, quel quadrante nero è rimasto nei feed dei nostri Instagram come manifestazione, anche se sicuramente fra le meno sostanziose, di un cambiamento socio-politico a livello internazionale. Anche la cosiddetta “reinterpretazione della storia” che si sta facendo largo nell’ambito dell’opinione pubblica rivela, ad esempio, a partire dallo stato del Mississippi e dai militari americani la spinta (da parte anche dei bianchi all’interno delle sedi di potere) per rimuovere la propria bandiera e i nomi dei confederati, segnalando così una nuova coscienza istituzionale intorno ai simboli razzisti. Tocca poi menzionare brevemente la questione dei monumenti: ci si sta rendendo conto che gli idoli storici con i quali cresciamo rimangono nella memoria collettiva diventando punti di riferimento e simboli urbani, talvolta immeritevoli di tanto clamore. Forse, per effettuare il cambio di paradigma auspicato sarebbe bene anche implementare nel tessuto urbano statue “imbevute” di simboli e valori nuovi. Last but not least, il riconoscimento di vasta portata di Juneteenth — il 4 Luglio degli afro-americani, ovvero il giorno dell’emancipazione dalla schiavitù — sta vivendo, pur’esso, un nuovo fervore nel dibattito americano. Questi sono tutti esempi che mostrano il cambiamento culturale verso una giustizia di rispetto reciproco che ogni giorno diventa sempre più nitida.

Se da un lato, la cultura diviene fondamentale per la scossa di coscienza popolare, dall’altro, quello più legato alla sfera politica, cresce il sentimento da parte degli americani bianchi che né i Repubblicani né il Partito Democratico sono opzioni valide per un cambio reale legato non solo alla lotta contro il razzismo ma alla lotta di classe. Larry Holmes, anni addietro, affermava che è dura essero nero ed è capitato di esserlo solo quando era povero.

Ciò che bisogna riconoscere dunque è che queste proteste stanno gettando le basi per un vero e proprio cambiamento culturale riguardanti alcuni concetti portanti della società americano. In questo importantissimo momento storico si stanno ridestando in un modo più popolare le dichiarazioni del fondamentale Ten-Point Program della Black Panther Party che fu scritto nel 1967 ma che purtroppo oggi è ugualmente pertinente. La soddisfazione di queste reclamazioni tramite l’essenziale cambiamento culturale sarà frutto esclusivamente di un processo sicuramente lungo, difficile e profondamente collettivo, cioè la continuazione del cammino storico della Black radical tradition (la “tradizione radicale Nera” di cui parla anche Angela Davis) nata nei movimenti per l’emancipazione e per i diritti civili. È ciò su cui bisogna concentrarsi di più per ottenere delle conseguenze più durature e più profonde di meri provvedimenti politici — che seppur essenziali, rischiano di avere come obiettivo di riforma solamente quelle istituzioni palesamente discriminatorie (la cosiddetta “punta dell’iceberg”) senza mirare alle profondi radici di un razzismo che si perpetua sistemicamente tramite una cultura di tipo popolare.

Articolo di Sofia Del Gatto e Federica Tessari