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Black Times, storia e lotte della famiglia Kuti
Panafricanismo e lotta di classe
“Where that black dream brother?
Where that black dream sister?
Where that black information?
So called black education
The black journey is a mystery
With the black fashion of the history
The black story for the children
The black truth for the youth them
The black strength of we mothers
The black pride of we fathers
We must pass the black knowledge to the future black Gods and Goddess”.
Black Times – Seun Kuti & Egypt 80 – 2018
‘Black Times’ è la traccia omonima del quinto disco pubblicato da Seun Kuti e tanto il titolo quanto il testo ci riassumono e introducono al pensiero politico del musicista nigeriano. Oluseun Anikulapo Kuti, classe ’83, è il più giovane tra i figli di Fela, rinomata icona del panorama musicale africano e pioniere dell’Afrobeat, una commistione tra jazz, funk, salsa e ritmi della tradizione Yoruba.
Seun Kuti
Seun scaldava il palco al padre già all’età di nove anni, cantando alcuni brani con il complesso Egypt 80, numerosa formazione che vedeva anche la presenza del fratello maggiore Femi al sassofono tenore, il quale ha però presto abbandonato l’esperienza a seguito di diverbi. Il giovane fa pratica con percussioni e sassofono e a dodici anni è accolto ufficialmente tra i musicisti e collaboratori del padre. Il leggendario Fela Anikulapo Kuti si spegne nel 1997 per complicanze dovute all’AIDS e per colmare la perdita del padre e l’assenza del fratello Femi, il giovane Seun a soli quattordici anni si barcamena tra gli impegni scolastici, la passione calcistica e la leadership della Egypt 80 band.
Il ragazzo e il complesso si esibiscono per qualche anno davanti a un pubblico ristretto in sporadici eventi e concerti ma, ripercorrendo le orme paterne, Seun forza il gruppo a una lunga pausa e a diciannove anni si trasferisce nel Regno Unito per studiare musica popolare e tecnologia del suono all’istituto di arti performative di Liverpool. Nel crogiolo e fucina musicale della città inglese apprezza e suona generi come l’hip-hop e il reggae, trovandosi a suo agio in gruppi funk di cui diventa subito il frontman.
Ritornato quindi a Lagos, il sassofonista riprende i contatti con i membri della Egypt 80 band e finalmente il lungo percorso della battaglia politica in musica può ripartire e la carriera di Seun decolla ufficialmente, portando avanti il vasto repertorio del padre e componendo nuovi brani.
Ma di quale lotta Mr. Kuti si fa portavoce nel contagioso groove in mid-tempo suonato dall’ampio complesso Afrobeat? Seun è chiaro, anzi chiarissimo, nei testi, nelle interviste, nei suoi tweets:
“La più grande sfida dell’umanità è la lotta di classe”.
Per Seun Kuti l’ideologia marxista è direttamente connessa e intrinsecamente inerente al panafricanismo, ovvero il grande sogno di un’unità politica in Africa, la cui dottrina prese piede all’inizio del ventesimo secolo come conseguente riflessione sulla deportazione e condizione delle popolazioni subsahariane nelle Americhe.
Dalla conferenza londinese del 1900, in cui furono denunciati gli abusi commessi dalla ‘British South Africa chartered company’, all’istituzione della ‘Universal negro improvement association’, il panafricanismo vide il suo teorizzatore in W.E.B. Du Bois. Lo statunitense, fondatore della ‘National association for the advancement of coloured people’, fu il primo intellettuale a pretendere nell’incontro di Parigi (1919) l’applicazione del principio di autodeterminazione delle genti d’Africa e a promuoverne la loro unione. Qualche decennio più tardi quanto ideologizzato in precedenza avrebbe potuto trovare una concreta applicazione nel processo di decolonizzazione del continente ma gli incontri della conferenza degli Stati africani indipendenti (1958) e la nascita dell’Organizzazione dell’Unità Africana (1968), per quanto significativi, rimasero occasioni mancate. In seno alle due organizzazioni si formarono, per altro, due correnti circa la dottrina panafricana, una riformista e la seconda apertamente rivoluzionaria e di stampo socialista, a cui Seun Kuti si rifà e con la quale si allinea.
Seun ne è convinto: panafricanismo è credere nella ‘black ability’ e nel professarlo, promuovere e istituire un’agenda politica i cui punti dovranno risolvere le annose e innumerevoli questioni irrisolte degli stati africani. Veicolando questa visione nella musica e nei suoi testi Mr. Kuti anela a diffondere e infondere fiducia e stima nelle competenze e abilità dei ‘youth them’, i giovani e le giovani di Nigeria e Africa tutta. Saranno costoro a dover praticare gli insegnamenti che l’Afrobeat mette loro a disposizione, saranno questi a governare le nazioni e a creare la bramata coesione politica tra esse e loro, infine, a portare avanti la mai scontata e sempre attuale lotta di classe.
Tuttavia, la propaganda dell’élite sociopolitica africana promuove un’accettazione dell’immutabile realtà alle classi soggiacenti. Inoltre, la spietata macchina di oppressione dispiegata dalla medesima verso qualunque forma di dissenso costituisce un evidente ostacolo al raggiungimento dell’ideale dell’unità delle genti d’Africa.
Storicamente, la classe agiata, una piccola ma non trascurabile porzione della popolazione, ha preso parte alla causa panafricana (si vedano movimenti come ‘United Gold Coast Convention’del Ghana e la ‘Zimbabwe African National Union’) ma più che fomentarla o darvi un contributo effettivo essa ne ha fatto strumento per raggiungere i propri scopi economici all’interno delle nazioni nascenti. I ceti disagiati furono sostanzialmente illusi di aver dato il loro nel processo di indipendenza dei propri paesi ma nel concreto sono stati solamente utilizzati al netto del valore numerico.
È a quest’altezza cronologica, cioè nel processo di smantellamento delle colonie, che nasce la propaganda tanto accusata da Seun, ovvero una narrazione monolitica che descrive tutte le classi sociali coese nel processo di svincolamento dall’oppressore Europeo. Si trattò in realtà di una lotta per nulla omogenea e i cui soli beneficiari furono i benestanti (borghesi e militari), che a stati costituiti, adottarono una dottrina liberale senza alcun intento o volontà di seguire realmente l’ideale panafricano.
Per il musicista, dunque, il proletariato d’Africa vive nella disillusione e ignoranza da circa 400 anni, cioè a partire dalla schiavitù coloniale, seguendo la nascita dei governi locali e arrivando alla contemporaneità, in cui essi sono abbandonati e per i quali nessuna pianificazione di progresso sociale è stata disposta.
“Do you know fake news, man? Everywhere I go, in Europe and America, for the last two years; Everybody’s crazy about this ‘shit’; Everybody’s losing their mind: Fake news they cry! Relax everybody, take it easy and calm down. You see in Motherland where I’m from We have been under fake news for 400 years. Welcome to the party”.
(Seun Kuti rivolto al pubblico durante un’esibizione al Montreux Jazz Club, 2019)
Questa propaganda manipolata dall’élite sopracitata rimosse, almeno in parte, la causa panafricana dalla coscienza collettiva, arrivando a eliminarne anche fisicamente gli esponenti di spicco (si veda l’assassinio di Patrice Émery Lumumba) ma paradossalmente la dottrina fu appresa proprio dai figli di questa intellighenzia nella loro formazione all’estero. Ne è un significativo esempio il fatto che Fela Kuti nel 1969 si trovasse a Los Angeles e che proprio nella città statunitense avvenisse l’incontro decisivo per la sua maturazione politica. Fela conosce Sandra Smith, un’attivista per i diritti civili degli Afroamericani. La donna ha appena scontato tre mesi in cella per aver assalito un ufficiale di polizia durante un corteo della Pantere Nere.
È lei stessa, con la forza delle parole, a insinuare nella coscienza di Fela, un musicista nigeriano di buona famiglia, la calda questione del panafricanismo e a rendere in lui evidente la difficile condizione a cui la gente africana, nella sua diaspora, è sottoposta. Sandra donò a Fela l’istruzione di cui il futuro attivista politico necessitava, parlandogli di politica e storia e soprattutto prestandogli la propria copia dell’autobiografia di Malcom X.
Nel 1970 Fela Anikulapo Kuti era pronto a tornare nella patria lasciata dodici anni prima. Niente più musica modellata sul canone occidentale, non più testi spensierati, ma attivismo e militanza, messaggi chiari, accuse dirette verso la dilagante corruzione politica (ad esempio nel brano ‘International Thief Thief’), verso la violenza sistemica da parte delle forze dell’ordine (da ascoltare la traccia ‘Sorrow, Tears & Blood’) e audaci critiche contro la squallida realtà post-coloniale (come nel brano ‘Colonial Mentality’). De facto, una volta in patria il musicista fondò la band Afrika 70, scartò l’inglese in favore del Pidgin Nigeriano al fine di farsi comprendere in tutta la nazione, allestì uno studio di registrazione e una clinica medica gratuita sul terreno posseduto dalla famiglia al numero 14 di Agege Motor Road in Lagos, l’allora capitale.
Ben presto proclamò questa comune indipendente e autonoma rispetto alla giunta militare presieduta dal generale Obasanjo e la nominò ‘Kalakuta Republic’, dal nome di una delle numerose celle in cui soggiornò causa della sua attività politica e musicale; chiamata a questo modo dagli ospiti che vi abitarono e che nel pidgin di Nigeria indica il toponimo ‘Calcutta’.
Qui Fela e i suoi musicisti si esibirono regolarmente e qui incisero più di trenta tra dischi e singoli, animando profondamente la coscienza e opinione pubblica, soprattutto per la portata di brani quali ‘Zombie’.
“Zombie no go stop, unless you tell am to stop
Zombie no go think, unless you tell am to think
Tell them to go straight
No break, no job, no sense
Tell them to go kill”.
Zombie – Fela Kuti & Afrika 70 – 1976
Gli zombies erano i militari dispiegati dall’esercito, accusati di essere privi di pensiero e sentimenti, macchine pronte a soffocare qualsiasi malumore, braccia armate al servizio del generalissimo. Il brano divenne una ‘instant hit’ tanto da intimorire le alte sfere che per vedetta, disposero una spedizione punitiva.
Un reparto dell’esercito composto da mille uomini fu mobilitato e la comune di Kalakuta completamente data alle fiamme. Ci furono percosse e arresti, la strumentazione fu distrutta, Fela venne pestato a sangue mentre sua madre Francis, attivista femminista e politica, fu barbaramente defenestrata.
Indirizzare la protesta
Quelle violenze sperimentate da Kuti padre e dai suoi concittadini persistono e si trovano oggi amplificate dalla potente combinazione media e social network che ne documentano la gravità. Il 20 ottobre 2020 un imponente corteo guidato da giovani, esasperati da mesi di restrizioni dovuti alla pandemia, è stato bloccato e contenuto nei pressi dell’uscita autostradale di Lekki, nello stato di Lagos. “We have no leaders”, urla uno dei cartelli più gettonati durante le manifestazioni pacifiche per l’abolizione del corpo di polizia denominato SARS (Special Anti-Robbery Squad), macchiatosi di abusi e delitti impuniti, di cui i manifestanti rivendicano giustizia ma da cui hanno ricevuto pallottole.
Stando ai dati riportati da Amnesty International sono stati in totale cinquantasei i manifestanti morti e a centinaia ammonterebbero i feriti. L’esercito ha negato ogni coinvolgimento nelle uccisioni dei civili, parlando di ‘fake news’, mentre il premier Buhari (lo stesso che nel 1984, al governo, fu responsabile della più lunga permanenza di Fela in carcere) nel lungo discorso che ha tenuto alla nazione lo scorso 22 ottobre non si è minimamente soffermato sul terribile accadimento, ribattezzato poi dalla stampa come il ‘Massacro di Lekki’.
L’ondata di proteste è sorta a seguito della circolazione sui social di un filmato in cui agenti della SARS sono mostrati uccidere il 3 ottobre un giovane nella città di Ughelli, nel sud del paese, video che lo stato nigeriano ritiene falso. La SARS nacque nel 1992 con l’obiettivo di gestire al meglio i furti, i crimini a mano armata e i sequestri di persona. Il modus operandi del nucleo originario di Lagos consisteva in tattiche di infiltrazione nelle bande di rapinatori e vere e proprie imboscate.
Nel 2002 il governo promosse l’istituzione di simili corpi in tutti gli stati della repubblica e negli anni a seguire la squadra speciale diventa essa stessa fautrice di crimini che era chiamata a sventare: estorsioni, stupri, omicidi e sequestri a danno della popolazione. La mobilitazione è cominciata su Twitter nel 2017, e grazie agli hashtags #EndSars ha catturato l’attenzione di tutto il mondo. Seun Kuti, ne segue i passi, ne studia i movimenti e propone di allargarne gli orizzonti.
Il musicista vede nella violenza sistemica delle forze dell’ordine l’ultimo residuo della mentalità coloniale, una realtà dove il padrone bianco ha lasciato il posto all’intellighenzia locale che detiene e intrappola l’intera ricchezza nazionale, atteggiandosi essa stessa come schiavista verso la maggioranza proletaria e sguinzagliando le proprie truppe nel nome dell’ordine pubblico.
Per Seun le proteste ‘EndSars’ sono un ritorno allo scontro ma non certo il focus della lotta. Esse potranno rappresentare per i giovani l’introduzione alla ‘Black Struggle’ e quindi alla ‘Class Struggle’, poiché non è sufficiente ottenere l’abolizione del reparto “speciale” ma occorre sbarazzarsi delle compagnie estere radicate sul suolo e dei governanti aguzzini, al fine di costituire alternative politiche indipendenti e coese che favoriscano l’equa distribuzione dei beni sul continente africano. L’artista riassume l’intero concetto nel brano ‘Rise’:
“We must rise up against the petroleum companies
Dey use our oil to destroy our land
We must rise against the diamond companies
Dey use our brothers as slave for the stone
We must rise against our African rulers
Dey be black man for face, white man for yansh”
A metà novembre Seun ha rivitalizzato il movimento politico, ‘Movement of the People’, già fondato dalla preveggenza paterna, formato da una coalizione socialista e panafricanista, i cui militanti ideali sarebbero proprio i ceti più infimi e quello medio. Il movimento ha sancito il suo atto di rinascita attraverso la lettura del proprio manifesto e la presentazione dei rappresentati in una lunga diretta streaming su Twitter e nei giorni immediatamente successivi, come conseguenza, minacce e ammonimenti sono giunti da parte della polizia ai membri della famiglia Kuti.
L’impatto sull’immaginario collettivo nigeriano della musica di Fela è enorme e molti vedono Seun Kuti come degno prosecutore oltre che successore dell’attività paterna, ed è quindi ragionevole ritenere che l’eredità del primo abbia fatto quantomeno da sfondo alle recenti proteste, mentre ci si può domandare se e quando l’attività e il ruolo del figlio abbiano fornito un serio supporto all’intera faccenda.
Seun potrebbe davvero incanalare i malumori di una grande fetta della nazione e indirizzarli verso una più strutturata battaglia ma al momento il suo proselitismo è confinato alla sola rete. Il 2021 sta confermando, infatti, la lunga serie di restrizioni dovute alla pandemia ed egli, in quanto musicista, ne sta risentendo decisamente. L’Afrobeat è propedeutico all’indottrinamento e all’ideologizzazione e per quanto riproducibile un disco o un servizio streaming, la militanza in presentia è l’atto costituente dell’organizzazione della lotta, di cui l’esibizione dal vivo del sassofonista si fa carico. Mr. Kuti si trova quindi in uno stallo, almeno parziale, ma appare ragionevole ritenere che stia programmando le prossime mosse.
Articolo di Dario Limongelli, Eleonora Varriale e Brando Carasso