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Dopo la Brexit il Regno Unito si trova solo e indebolito
Il Regno Unito, dopo l'accordo raggiunto con l'Ue, si prepara ad affrontare la più grande crisi del secolo solo e disarmato
Dopo quattro anni di disperati tira e molla, sul fino di lana Boris Johnson è riuscito a negoziare un accordo di concerto con la presidente della Commissione europea Ursula Von Der Leyen, sui futuri rapporti tra l’Unione e la Gran Bretagna. Un accordo presentato come la vittoria personale dell’ex sindaco di Londra che ha fatto dei due slogan “Get Brexit done” e “Take back control”, il suo mantra quotidiano, ponendo la parola fine ai cinquantaquattro mesi più folli della storia inglesi, fatti di figuracce internazionali, incertezze finanziarie e della faccia più insolita e schizofrenica della politica di Westminster. Tuttavia l’atteggiamento compiaciuto dell’ex sindaco di Londra sembra perlomeno fuori luogo, data la condizione in cui versa il Regno Unito e le enormi sfide che si troverà ad affrontare nel prossimo futuro.
Il Regno Unito è in ginocchio dopo la Brexit
I mesi di lockdown e della pandemia hanno messo a durissima prova l’economia britannica, che ora si trova tra le mani un debito pubblico imponente (il più alto dagli anni ’60) e un prodotto interno lordo che, dopo il baratro del secondo trimestre e una buona quanto inaspettata ripresa, ora si trova nuovamente sottostimato da un report del ONS. Il numero di licenziamenti nel 2020 ha fatto registrare il nuovo record dal 1992, con il tasso di disoccupazione in crescita vertiginosa già da prima della pandemia. Inoltre, con la nuova variante inglese del virus che attanaglia l’Europa, e che sta facendo registrare nuovi record negativi in tutti gli indicatori, la Gran Bretagna sembra essere decisamente tornata nell’occhio del ciclone dell’emergenza sanitaria. La risalita dal baratro finanziario in cui il continente, e il mondo intero, si trovano, sarà poi più ardua per i britannici: infatti proprio per quella scelta compiuta quattro anni orsono, saranno tagliati fuori dal più grande stanziamento economico della storia recente. L’Unione Europea metterà a disposizione dei 27 Stati membri -tra fondi a sostegno della disoccupazione e le imprese, liquidità stanziata per il tanto discusso “Recovery Fund” e la campagna di acquisti di titoli di Stato da parte della BCE- la cifra monstre di 2490 miliardi di euro, che è inutile negarlo, avrebbero fatto tanto comodo anche ai più convinti tra gli ultrà della Brexit.
Tuttavia le responsabilità politiche di Boris Johnson in questa situazione drammatica sono innegabili, la sua leadership confusionaria e a tratti incosciente -soprattutto durante la prima fase della pandemia- lo costringeranno a fare i conti con l’opinione pubblica e non solo. Non è un caso che l’indice di gradimento del numero uno di Downie Street sia crollato di 10 punti percentuali nelle settimane di emergenza, continuando ancora oggi ad essere in caduta libera. La sua leadership è poi offuscata anche dalla figura del nuovo leader dell’opposizione Labour, Keir Starmer. Il giovane ex avvocato per i diritti umani, ha sostenuto calorosamente un secondo referendum, nonché la permanenza del paese nell’Unione Europea. Proprio durante la votazione per l’approvazione dell’accordo alla Camera dei comuni il 30 dicembre scorso, ha intimato ai suoi di votare l’intesa raggiunta dal governo, poiché sebbene non rappresenta quello di cui la Nazione ha bisogno, l’alternativa sarebbe solo quella di un’uscita disorganizzata che costituirebbe la rovina, “la scelta oggi è tra votare sì per migliorare questo accordo, o votare per un no deal” ha detto, non riuscendo tuttavia a superare i malcontenti tra le sue fila, dove ci sono stati più di qualche astenuto.
Nicola Sturgeon e il futuro della Scozia
Se la leadership del numero 10 di Downing Street sembra essere incerta, ad essere saldissima è invece quella della First Minister di Edimburgo, dove proprio le cicatrici lasciate dalle brexit hanno fomentato il nazionalismo scozzese, facendo gongolare gli indipendentisti forti dei sondaggi che li vedono nuovamente in vantaggio. Giocando sul radicato sentimento europeista scozzese, la leader dello Scottish National Party, Nicola Sturgeon, torna a fare la voce grossa, dicendosi pronta all’indipendenza e alla richiesta di adesione della Scozia all’UE. Nelle scorse settimane ha anche inviato una lettera “ai cittadini europei” per chiedere alle istituzioni di appoggiare il referendum per l’indipendenza che si terrà “qualora lo SNP vincerà le prossime elezioni di maggio”, facendo prospettare uno scenario molto simile a quello avvenuto in catalogna nel 2017. La verità è che la scelta di indire un referendum appartiene a Londra e al Primo Ministro, che ovviamente non lo concederà mai, ma aldilà del Vallo di Adriano sembrano non voler sentire ragioni, facendo aumentare la tensione tra Londra ed Edimburgo.
Sicuramente si è delineata una sfida, che dovrà risolversi in qualche modo e che decreterà inesorabilmente un vincitore ed un vinto, chi tra i due occuperà l’una o l’altra posizione determinerà il futuro dell’Europa stessa, la quale inevitabilmente dovrà adeguarsi al malcontento, non ostinandosi a rincorrere ciecamente i vincoli di bilancio, e cercare di porre un argine alle critiche mosse dai britannici, se non vuole implodere in sé stessa. Tuttavia, nonostante i colpevoli ritardi, l’Ue c’è stata. A mancare l’appuntamento, invece, sono stati proprio i britannici, disarmati dopo la brexit e soli alla vigilia della più grande crisi economica della storia contemporanea.
Articolo di Lorenzo Sangimeni