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Otto canzoni per celebrare il Black History Month
Ecco le canzoni selezionate da Stereo8 per festeggiare la black music e ampliare i propri orizzonti musicali
Durante l’ultimo decennio la black music è diventata con ogni probabilità la principale forza motrice della musica mondiale. Stimolata dalla progressiva tendenza all’ibridazione di stili, ha portato alla ribalta e dato nuova linfa vitale a generi come il neo-soul, il grime, la drill, la dancehall e l’R&B. La sua storia è ultracentenaria e ha visto alternarsi e convivere anime diverse – da quella di protesta a quella spiritual – sempre pronte a riaffiorare e reinventarsi. In occasione del Black History Month, Stereo8 ha deciso di attingere a piene mani dal patrimonio musicale americano, inglese e canadese per proporre un viaggio negli ultimi cinquant’anni di black music. Tra artisti di culto, incursioni anticonvenzionali in altri generi e perle dimenticate, una playlist alternativa per raccontare uno spaccato culturale in continua evoluzione.
Shuggie Otis – Inspiration Information (1974)
Shuggie Otis, figlio della leggenda dell’R&B Johnny, fece il suo debutto discografico addirittura nel 1965, a 12 anni, trasformandosi poi in un polistrumentista che scriveva, arrangiava e suonava le sue stesse canzoni – e che ha rifiutato di fare da sostituto a Mick Taylor dei Rolling Stones. Il suo quarto album Inspiration Information floppò a livello commerciale e fu il suo ultimo, decretando il sipario su di un artista incredibilmente eclettico che aveva ancora molto da offrire. Il brano che dà il titolo alla sua ultima fatica è un compendio di funk e psichedelia di un altro livello, trascinato dalle invenzioni di Shuggie alla tastiera e dal suo timbro esile ma evocativo.
Tracy Chapman – Why? (1988)
Salita alla ribalta per aver suonato al posto di Stevie Wonder durante il concerto per il settantesimo compleanno di Nelson Mandela a Wembley nel 1988, fino a qualche anno prima Tracy Chapman era ancora una studentessa della Tufts University che si esibiva per le strade di Boston. Nel giro di pochi giorni il suo omonimo album di debutto, una collezione di ballad delicatissime e anthem di protesta trascinata dalla hit Fast Car, si issò in vetta alle classifiche. In Why? la semplicità delle domande sociali poste dalla Chapman fa tenerezza, ma nonostante tutto riesce a toccare con la sua ingenuità e con la forza dell’amalgama folk tra percussioni e chitarra acustica.
Soul II Soul – Happiness (1989)
“Non riuscivamo a far entrare altra gente ai nostri party perché non era rimasto più nessuno per strada” raccontava nel 1993 Jazzie B, rapper e fondatore – assieme alla vocalist Caron Wheeler e al produttore Nellee Hooper – del collettivo neo-soul Soul II Soul, che con il suo primo album Club Classics Vol. 1 nel 1989 colonizzò i dancefloor di tutta l’Inghilterra. Dopo un buon secondo disco il gruppo si sciolse, con Hooper che finì per collaborare con Bjork e il solo Jazzie B a rappresentare il nucleo originale in mezzo a continui cambi di lineup. Happiness spicca in mezzo alla produzione solidissima dei Soul II Soul per lo spazio e la centralità che vengono riservati a voce, melodia e ritmica, ognuno libero di espandersi in libertà e allo stesso tempo di esaltarsi nel groove dub che sorregge il brano.
Fishbone – Pray To The Junkiemaker (1991)
Uno dei pochissimi gruppi rock afroamericani, i Fishbone si formarono a Los Angeles come i Red Hot Chili Peppers, diventando un’attrazione di culto della scena losangelina per i loro live dall’atmosfera quasi circense e per il loro blend inconfondibile di ska, punk, metal e funk. The Reality Of My Surroundings fu l’album della svolta commerciale e di pubblico, un disco che esulava da qualsiasi classificazione – troppo black per essere rock e troppo black per essere rock – e che spingeva ancora di più l’acceleratore su chitarroni e assoli al fulmicotone. In un album così particolare Pray To The Junkiemaker è la scheggia impazzita in mezzo all’uragano, un trip fusion all’insegna della commistione tra rock e reggae.
Digable Planets – Where I’m From (1993)
Nati in un periodo nel quale il rap dall’impronta positiva di De La Soul e A Tribe Called Quest stava prendendo sempre più piede, il trio newyorchese dei Digable Planets ha fatto da apripista all’affermazione del jazz rap nella seconda metà degli anni ‘90. Il loro album di debutto Reachin’ (A New Refutation of Time and Space) fu una ventata d’aria fresca che dimostrava come si potesse spingere al limite il concetto di hip-hop, attraverso un’odissea allucinogena e visionaria che attingeva a piene mani da funk e prog rock. Where I’m From è uno storytelling che racconta un giorno nella Grande Mela, tra shout-out a Marx, riferimenti astrali e un sample inconfondibile di James Brown.
Floetry – Floetic (2002)
Le Floetry, al secolo Marsha Ambrosius e Natalie Stewart, sono nate prima come autrici che come gruppo: tra fine anni ’90 e inizio 2000 hanno firmato hit per pesi massimi del calibro di Michael Jackson, Bilal e Jill Scott. Floetic, nel 2002, è stato il loro modo per rivelarsi al grande pubblico come artiste a tutto tondo, anticipando di qualche anno l’ondata neo-soul che avrebbe travolto l’Inghilterra con Amy Winehouse e Adele. La title track dell’album è un vortice sensuale ed energico, nel quale il rimbalzare continuo tra rap e crooning lascia l’ascoltatore inebetito a fare sì sì con la testa.
K’NAAN – Soobax (2005)
La storia di K’NAAN è talmente incredibile che merita di essere raccontata: nato e cresciuto in Somalia durante la guerra civile, si è trasferito in Canada con l’ultimo volo disponibile esibendosi anche in open mic in giro per il mondo, per poi entrare nella stratosfera del pop con Wavin’ Flag, scelta come canzone dei Mondiali in Sudafrica del 2010. Ma è stato il suo debutto discografico del 2005 The Dusty Foot Philosopher a far alzare più di un sopracciglio, grazie alla schiettezza dei suoi testi e all’uso di suoni e strumenti dall’Africa. Soobax è indubbiamente l’hit del disco, una cronaca della vita di strada a Mogadiscio che grazie all’abilità poliglotta di K’NAAN al microfono si trasforma in un inno alla rivalsa dei più deboli.
Robert Glasper – Move Love (2012)
Il pianista texano Robert Glasper ha costruito la propria carriera artistica sulla capacità di unire jazz e hip-hop, sviluppando un sound distintivo che l’ha portato a fare ospitate negli album di Kanye West, Common e J Dilla, tra gli altri. Con Black Radio, unendo sperimentazione e tradizione black, ha finalmente trovato la quadratura del cerchio dopo tre dischi ancora un po’ fuori fuoco, vincendo il Grammy per il miglior album R&B nel 2013. Nell’oasi di collaborazioni killer del progetto, che vede la partecipazione anche di Erykah Badu e Lupe Fiasco, quella con We Are KING in Move Love lascia il segno e fa respirare la tracklist con il suo tappeto di tastiere minimal elevato dal timbro al velluto del gruppo ospite.
Articolo di Jacopo Andrea Panno