Il caso Suarez dimostra che la cittadinanza vale ben più di 10 milioni di euro

Lasciatemi cantare, perché ne sono fiero, sono un italiano, un italiano vero”, cantava Toto Cutugno nel lontano 1983, dipingendo il ritratto del perfetto italiano attraverso le sue abitudini più diffuse. Fortunatamente non si è mai stati giudicati italiani per legge secondo i parametri espressi in modo goliardico dal cantante napoletano, come la religione, i gusti culinari, o tantomeno il pallone, ma oggi il tema della cittadinanza italiana è tornato ad essere parte del dibattito pubblico proprio per una di quelle cose che nel testo caratterizzano un “italiano vero”:il calcio.

Nell’ambito di un argomento mai realmente arrivato a una svolta, cercheremo di entrare nel merito delle questioni a nostro avviso più importanti: la crescente difficoltà per diventare italiano a causa di quanto le leggi siano state modificate nel corso degli anni, il rapporto tra l’Italia e gli altri paesi europei, e come recentemente il governo abbia agito in materia con il nuovo Decreto Sicurezza. Per analizzare la questione nel miglior modo possibile, abbiamo deciso di avvalerci di testimonianze di esperti che vivono in prima persona le difficoltà del sistema burocratico italiano per la concessione della cittadinanza. 

Le fondamenta giuridiche: la legge 91/1992

Per parlare di un argomento così complesso, bisogna anzitutto fare un salto indietro nel tempo in modo da capire come si è arrivati alla situazione attuale. In Italia, in base alla legge n.91 del 5 febbraio 1992, la cittadinanza si ottiene iure sanguinis, quindi solo se si nasce o si viene adottati da genitori italiani, oppure per matrimonio se ci si sposa con coniuge italiano. Per quanto riguarda coloro che non sono nati in Italia, si richiede necessaria la residenza per 10 anni consecutivi e un reddito annuale minimo di 8.500€ negli ultimi 3 anni, mentre per apolidi o rifugiati politici sono richiesti 5 anni. In poche parole, condizioni molto rigide.

Nel corso del tempo si è discusso molto se questa legge vecchia ormai di 30 anni non fosse troppo rigida, come infatti testimoniano le proposte di due nuove misure di accoglienza, ius soli e ius culturae, trattate già nello speciale monotematico di Scomodo sul razzismo sistemico nel nostro paese. Nel 2015 l’Italia pareva disposta a concedere entrambe, rivoluzionando così il tabù della cittadinanza; la riforma, però, rimase intrappolata in Senato per la mancanza di parlamentari sufficienti per la votazione, a causa dell’ostruzionismo dei 5 Stelle e delle varie forze di destra che non si presentarono alla seduta. 

La controriforma di Salvini pone una barriera linguistica  

A mettersi ulteriormente di traverso tra gli immigrati di seconda generazione e la tanto agognata cittadinanza fu l’ex Ministro dell’Interno Matteo Salvini, che con il D.l. 113 del 4 ottobre 2018 è intervenuto in materia. Non solo ha allungato i tempi per la conclusione del procedimento da 2 a 4 anni, ma ha anche stabilito una maggiore conoscenza della lingua italiana, aumentando il livello a B1. Il dettaglio ancor più importante, però, è che la legge era retroattiva. Dunque, chi era vicinissimo a diventare cittadino italiano ha subìto un passo indietro di due anni. Più che una riforma, si può definire una controriforma… 

Innalzare il livello di competenza linguistica di fatto è un’ulteriore barriera all’accoglienza degli immigrati, che vengono visti come una minaccia nell’attuale situazione di crisi e insicurezza sociale.

“Per migliorare il riconoscimento dei diritti, fra cui quelli linguistici, bisognerebbe fare i conti con questo senso comune regressivo e antisociale, incapace di accogliere l’idea dell’universalità della condizione umana, e bisognerebbe fare dunque i conti con l’uso politico appunto irresponsabile di questo senso comune. Sarebbe un vantaggio per tutti: per chi arriva, ovviamente, fornito dello strumento più importante per trovare un posto legittimo e dignitoso; e per chi lo accoglie, che vedrebbe nuovi cittadini in grado di interagire adeguatamente e non una entità sempre sospesa tra forza lavoro senza voce e presunta minaccia perturbante.” Così si è espresso a Scomodo Pietro Cataldi, Rettore dell’Università per Stranieri di Siena.

La lingua di fatto, da ponte per la comunicazione e contatto tra le persone, è divenuta uno strumento di discriminazione ed esclusione, ponendo il migrante in una condizione di discutibile subalternità.  

“Come Lorenzo Milani ha ricordato molte volte chi conosce più parole ha più potere, e farsi carico dell’educazione di massa (anche linguistica) non è solo un avanzamento di civiltà, ma anche un gesto di riconoscimento sociale, un gesto di egualitarismo democratico. La cosa opposta, cioè, del privilegio di classe e della logica del profitto.”

Anche i test di valutazione costituiscono strumenti di potere, oltre che di politica sociale e migratoria: dal risultato ottenuto dipende infatti la possibilità di continuare a vivere e lavorare in un Paese. Ma al di là della difficoltà oggettiva delle prove d’esame, e della molto spesso mancante struttura organizzativa, bisogna riflettere sull’efficacia di tale sistema ai fini della tanto decantata integrazione. Innanzitutto, il valore di una certificazione si fonda su una struttura altamente formalizzata, che fornisca ai diretti interessati spiegazioni e indicazioni riguardo alle prove, in secondo luogo, oltre ad un complesso sistema strutturato, è necessaria la disposizione di strumenti adeguati. Il Paese ospitante richiede sì agli stranieri una determinata competenza linguistica, ma deve altrettanto fornire i mezzi per raggiungerla, attraverso una maggiore organizzazione sia delle risorse sia dei percorsi di formazione e informazione. “Sarebbe come pretendere che un bambino dimostri di conoscere la lingua parlata in famiglia senza che nessuno gliela abbia insegnata. Uno straniero che giunge in un paese nuovo è, dal punto di vista linguistico, come un bambino: la responsabilità di accoglierlo, anche linguisticamente, dovrebbe stare innanzitutto sulle spalle di chi la lingua conosce già, cioè, praticamente, sulle strutture pubbliche che potrebbero farsene carico.”

Troppo spesso, infatti, sono solo le associazioni di volontariato a seguire e aiutare gli stranieri e gli “Italiani non ancora italiani” nel lungo procedimento burocratico previsto dalla legge. Si dovrebbe intervenire prima sul contesto anziché sul soggetto “diverso”, cominciando da un cambiamento culturale interno, così da costruire un processo continuo verso l’inclusione. “Se per integrazione si intende un processo a senso unico, si rischia di prolungare le strategie della colonizzazione in ciò che hanno avuto di più pervasivo e orribile: di voler cioè cancellare la cultura dell’altro e di imporgli la nostra, dando per scontato che la nostra sia non solo superiore ma l’unica accettabile. Il problema non è insomma insegnare l’italiano agli immigrati che arrivano nel nostro paese, cioè non è solo questo; il problema è cambiare atteggiamento e insegnare l’italiano come riconoscimento di un bisogno reciproco.”

Oltre alle realtà spontanee di volontariato, nel nostro paese manca ancora quella mentalità che ha portato altri Stati europei a gestire l’integrazione (culturale) dei migranti con investimenti e modelli nazionali distinti.  

 

ll paradosso (spiegato) dei numeri nel rapporto tra Italia e paesi europei

Rispetto a noi gli altri paesi europei sono allineati su una maggior flessibilità riguardo i requisiti per ottenere la cittadinanza, dove non bisogna affatto aspettare i 18 anni grazie a una maggiore facilità di trasmissione di essa da parte dei genitori, dal momento che i tempi di residenza minimi sono decisamente più brevi che da noi.

Ciononostante, l’Italia è sorprendentemente il paese con il maggior numero di acquisizioni di cittadinanza negli ultimi 5 anni, oltre che uno dei tassi di crescita di acquisizioni di cittadinanza tra i più alti d’Europa (89%), e negli ultimi 10 anni 1 milione di persone sono diventate cittadini italiani.  

I numeri, però, devono essere interpretati: i dati che rapportano l’Italia con gli altri paesi sono frutto dei flussi di almeno 5-15 anni prima, il tempo che ci vuole per ottenere la cittadinanza, e una delle risposte politiche al grande flusso migratorio avvenuto tra fine anni ’90 e inizio 2000 è stata una sanatoria che ha regolarizzato 634.000 persone con la legge Bossi-Fini del 2002. L’impennata è iniziata nel 2010, proprio quando sono maturati i 10 anni di residenza per i regolarizzati nel 2002. Dunque, risolta l’incongruenza, nonostante i numeri il problema della cittadinanza è tutt’altro che risolto, e per farlo bisognava intervenire prima di tutto sulla legge più recente -e intransigente- a proposito: il Dl Salvini.

Dopo mesi di discussioni, a inizio ottobre il Consiglio dei Ministri ha finalmente ripreso in mano il testo già pronto con le modifiche ai decreti dell’ex Ministro dell’Interno. Sono stati trasformati tanti aspetti importanti, dalla protezione umanitaria al permesso speciale di soggiorno, ed è stata introdotta una maggior flessibilità verso le azioni delle ong; quello che è stato toccato di meno, invece, è proprio la riforma della legge sulla cittadinanza, che prevede una riduzione dei tempi di attesa massima da quattro a tre anni senza migliorare in alcun modo il testo di legge.

 

Chi si oppone per un’Italia migliore? Gli “Italiani senza cittadinanza”

“Mettiamola così: più che un effettivo miglioramento lo vediamo come uno sconto di pena”. A parlare sono i membri del movimento “Italiani senza cittadinanza” , nato nel 2016 quando fallì il tentativo di realizzazione dello ius soli. 

Da un punto di vista operativo a comporre il movimento sono alcune centinaia di membri, ma esso coinvolge e rappresenta molte più persone, unite per fare i conti con la burocrazia italiana. “Il modo di entrare in contatto con chi ha bisogno di aiuto è attraverso i nostri canali social: riceviamo numerosissimi messaggi da chi si sente solo nella sua battaglia personale”.

A “Scomodo” hanno raccontato le storie di alcuni di loro, per farci capire quanto sia difficile oggi diventare cittadino italiano, e per questo si impegnano per cambiare lo stato attuale delle cose. E’ grazie al movimento, ad esempio, se si è deciso che i comuni dovessero avvisare i richiedenti cittadinanza della finestra di tempo di un anno dal compimento della maggiore età. Ma non solo. Vanno nelle aule di scuola e anche in quelle del Senato, dove hanno potuto assistere a delle sedute.  L’obiettivo che si pongono per il futuro è uno solo: “Portare i tempi di ottenimento da tre a un anno, come avviene negli altri paesi europei -ci dicono in coro-. Non smetteremo finché non avremo raggiunto il nostro obiettivo.”

Oggi, in Italia vivono 5 milioni di stranieri, quasi il 10% della popolazione residente. Se una parte di chi vive in un paese non determina le scelte che in quel paese si fanno, il significato della parola democrazia perde il proprio significato pregnante. È necessario dunque riformulare i criteri di attribuzione della cittadinanza italiana in modo tale da proiettare il senso di appartenenza verso il futuro, e per costruire una società dinamica oltre che aperta e inclusiva. La partecipazione alla vita politica e civile dei giovani di origine straniera è un elemento imprescindibile per l’Italia che verrà, e la comunità italiana di domani non potrà che avere come protagonista anche chi è nato e vissuto nel nostro paese. Ciò che ci si aspetta dal governo attuale, è che si adoperi quanto prima per far sì che il più possibile di queste persone diventino italiani veri. Proprio come cantava Cotugno.

Articolo di Emanuele Caviglia, Elena Lopriore e Gianluca Braga