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L’evoluzione del genere nel cinema “high-budget” americano
Per un passo avanti nella tecnica, un passo indietro nei contenuti
Nel caso del Live-Action
In un’intervista per la Rai del 1998 Gillo Pontecorvo individua nel progresso digitale sia un’opportunità che un pericolo. Infatti, da una parte sostiene che l’immagine sintetica possa conferire al regista le medesime potenzialità creative dello scrittore, dall’altra teme un abuso degli effetti speciali tale da tradire una delle disposizioni originarie del cinema: raccontare l’essere umano. Sono passati più di vent’anni da queste affermazioni e il dibattito in merito all’uso delle nuove tecnologie risulta ancora di grande attualità nel mondo del cinema.
In ogni caso gli sviluppi più recenti ci mostrano il delinearsi di una tendenza nelle grandi case di produzione, quella di investire su film visivamente spettacolari con l’obiettivo di riscuotere successo al botteghino. È il caso della Disney e dei Marvel Studios che con Avengers Endgame, solo nel primo fine settimana, hanno riscosso al box-office più di un miliardo di dollari, per poi diventare, dopo una seconda uscita in sala, il film con maggior incassi nella storia del cinema. Il fenomeno sui generis del Marvel Cinematic Universe è la punta dell’iceberg di questa tendenza che tuttavia non sempre si è rivelata efficace. Emblematico è il tentativo della Warner Bros che da anni rincorre il successo con i film del DC Extended Universe. In particolare le pellicole di Zack Snyder difficilmente hanno incontrato il favore della critica cinematografica, ma anche dall’opinione del pubblico sembrano emergere opinioni contrastanti. Il grande flop è rappresentato da Justice League, un’opera visivamente ed economicamente infelice, dal momento che Deadline Hollywood ha riferito la perdita di circa 60.000.000 di dollari. In sostanza Justice League rappresenta il pericolo ravvisato da Pontecorvo. I personaggi non sono sviluppati in nessun modo, anzi, alcuni sono addirittura inutili ai fini della trama, supereroi come Aquaman, il cui ruolo si limita alla bella presenza, o Flash, a cui spetta il tragico compito di divertire gli spettatori, simile alle linea comica di Martellone ne “Gli occhi nel cuore”. La trama è delle più banali, si tratta della solita storia dove i protagonisti si trovano ad affrontare un cattivo generico che mira senza un preciso motivo al potere e alla distruzione. Ma il vero disastro sono gli effetti speciali, il punto forte che si rivela deludente. L’abbondante utilizzo della CGI è invasivo e fastidioso, non solo nelle confuse scene di azione ma anche nelle rappresentazioni di Steppenwolf, l’antagonista, e dei Parademoni, i tirapiedi. In generale l’abuso degli effetti speciali, dalla ricostruzione digitale dei palazzi fino alla messa in scena dello scontro finale, danneggia ancora di più un’opera che poneva le sue basi sulla spettacolarizzazione delle immagini.
Se Justice League è la dimostrazione del pericolo dell’avanzamento della tecnica digitale, al contrario Mad Max: Fury Road è il frutto del lavoro di chi sulla soglia dei 70 anni ha sfruttato al meglio quest’opportunità, George Miller. Dopo quasi vent’anni dall’idea di un quarto capitolo della saga sul personaggio di Max Rockatansky, il regista australiano nel 2015 riesce finalmente a dare alla luce un film composto quasi unicamente da scene d’azione, con pochi dialoghi e una grande attenzione al comparto visivo. Ne è la dimostrazione l’assenza di una sceneggiatura, infatti Miller – grazie all’aiuto di Brendan McCarthy, un disegnatore britannico – ha creato un enorme story-board con circa 3500 immagini. Un film che fa leva quasi esclusivamente sulla sua estetica, attraverso la quale ritorna all’ennesima potenza il franchise western-punk di Mad Max: la desolazione dello scenario post-apocalittico, in contrasto con i colori molto saturi, fa da teatro a un incessante e incredibile inseguimento. Le inquadrature sono formidabili, in due ore di azione la regia è sempre chiara senza mai cadere nella confusione e il montaggio scandisce perfettamente, insieme alla colonna sonora, il ritmo della pellicola. In più la cura per i dettagli è spaventosa, ogni ambientazione, ogni veicolo, ogni personaggio è creato con lo scopo di rendere credibile e affascinante un contesto surreale dove i protagonisti ricercano un minimo di umanità. Ma forse ciò che rende ancora più spettacolare Mad Max: Fury Road è l’utilizzo oculato, invisibile della CGI. Miller non solo ha deciso di far costruire tutti i veicoli, ma ha anche scelto di girare la maggior parte delle scene d’azione, persino quelle più impensabili. Pensiamo allo schianto della “blindocisterna”, che è effettivamente avvenuta sul set per mezzo della coreografia tra stunt-driver e resa ancora più magnifica in fase di VFX, oppure alle sequenze dei pali, per le quali la produzione ha ingaggiato membri del “Cirque du Soleil”. Ovviamente ciò non significa un’assenza politica della CGI, semplicemente il regista ha preferito limitarne l’uso. Per continuare la lista di esempi: oltre alla rimozione in post-produzione di cavi e altri elementi necessari alla sicurezza degli stunt-men, ci sono l’impressionante tempesta di sabbia, ricreata granello per granello; il braccio mozzato di Furiosa, la coprotagonista; gli scenari ambientali, la maggior parte situati in Namibia, i quali prendono atmosfere oniriche grazie al massiccio lavoro in post-produzione. Questo perché Miller, regista nato artisticamente quando l’utilizzo del computer era seminale, si è reso conto dei limiti della computer grafica e se avesse optato per una larga applicazione degli effetti speciali forse non parleremo del film in questo modo.
Il progresso digitale si è rivelato di grande impatto soprattutto nel cinema di fantascienza, è dal successo negli anni ‘90 che gli effetti speciali dominano questo genere. Eccetto qualche caso quel trionfo ha segnato l’inizio di un cinema che punta su ritmi veloci e sulla spettacolarità dell’azione, tralasciando spesso i contenuti che vanno al di là dell’intrattenimento. Un esempio calzante è quello di Ghost in the Shell, l’adattamento live action del manga di Masamune Shirow. È sicuramente una pellicola figlia di quella tendenza instauratasi nelle grandi case di produzione, di fatti è chiara l’intenzione di rendere fruibile al grande pubblico occidentale un contenuto fortemente nipponico. Per il conseguimento di questi intenti, “white-washing” a parte, la DreamWorks ha puntato sulla creazione di un mondo digitale, che si sposa con il contesto cyber-punk del manga, preferendo lo spettacolo visivo avanguardistico alla filosofia della storia. Il risultato è quello di un film godibile dove, in un contesto futuristico, sono valorizzati gli effetti speciali – come gli eccezionali ologrammi o le strade della città – e le scene d’azione, sminuendo così i temi e le complessità dell’opera originale.
In merito all’Animazione
Al contrario della colossale e ben nota pellicola live-action con protagonista la Johansson, il capolavoro originale d’animazione Ghost In The Shell, diretto dal maestro giapponese Mamoru Oshii, è ancora oggi di grande influenza. Il film del 2017, difatti, ricava tristemente ben poco dalla complessa filosofia dell’anime. Sebbene presenti spettacolari effetti visivi, Rupert Sanders in qualità di regista pone in modo scorretto e lievemente nostalgico il futuro distopico di Oshii, che rende realtà l’intima fusione tra essenza umana e tecnologia. Ghost in the Shell può essere considerato un vero e proprio salto rivoluzionario nel genere cyber-punk, mettendo in mostra una società futuristica completamente soggiogata dal web e tendente alla donazione gratuita di dati personali. L’immenso spettacolo di Oshii raggiunge velocemente un pubblico occidentale ancora ignorante su temi d’animazione giapponese. Si insidia nella mente del pubblico affrontando la tematica del capitalismo informatico, interamente virtuale, disegnando una storia spaventosamente realistica fatta di violenza e alienazione, con tratto dettagliato ed effetti visivi all’avanguardia. È uno dei primi film d’animazione ad affiancare il disegno animato tradizionale all’animazione computerizzata, utilizzando la computer graphic come un mero mezzo e non un fine. Sia per il volume di opere realizzate che per la quantità considerevole di studi indipendenti, è difficile stabilire un confine tra un’anime sperimentale e prodotti di grande diffusione, come per il caso di Oshii. Paradossalmente, questo genere inizia a porre in ombra produzioni internazionali portando una contestazione sull’assegnazione del Leone d’Oro ad Hayao Miyazaki nel 2005. Fondatore dell’omonimo Studio Ghibli assieme a Isao Takahata, Toshio Suzuki e Yasuyoshi Tokuma, Miyazaki sconvolge il vasto mondo dell’animazione narrando in modo magicamente sovversivo storie basate su tradizioni e fantasia. Lo Studio del capolavoro Nausicaa della Valle del Vento fu toccato da un successo internazionale tale da essere in competizione per incassi e visibilità con i blockbuster americani e non solo con il cinema nazionale. La capacità di Hayao nell’unire in modo coerente diversi piani narrativi, riscuote l’attenzione occidentale. Prendendo come esempio l’opera Il mio vicino Totoro, Miyazaki presenta il disegno di un paese prossimo a lasciarsi alle spalle un passato infangato dalla Seconda Guerra Mondiale per lanciarsi verso un futuro più prosperoso ma senza radici. Questa passione per le tematiche complesse viene sostenuta da un attento studio fisico e psicologico dei personaggi e da un approccio alle tecniche d’animazione opposto a quello europeo ed americano, animando primordialmente le varie sequenze del film e solo successivamente registrando le voci, obbligandole a piegarsi alle necessità dell’animato. Una delle maggiori particolarità delle opere firmate Ghibli è la predominanza di personaggi femminili, per la libera espressività che offrono. Decide di cancellare le ben radicate aspettative del pubblico nei confronti di un eroe maschile, che ignora il comportamento e le reazioni di un’eroina. Questo “regno dei sogni e della follia”, come presentato nel documentario allo studio, non sfugge all’americana multinazionale firmata Disney che ottenne, con un accordo negoziato nel 1996, la cessione dei diritti internazionali sugli home video di alcuni film dello Studio e la distribuzione nelle sale occidentali della Principessa Mononoke, che fece guadagnare allo Studio circa 159 milioni di dollari. Nel corso degli stessi anni, la Disney attraversa un periodo d’animazione incentrato sulla ricerca di storie originali o tradizionali con ambientazioni esotiche per il pubblico statunitense, cercando di non cadere nel più banale esotismo, obbiettivo raggiunto con Mulan. Per la Disney, l’innovazione tecnologica diviene nuovamente motivo d’orgoglio con l’utilizzo della deep canvas in Tarzan, unendo CGI e disegno tradizionale in modo da ottenere un’ardita profondità di campo. Non tutti sanno però che nel grande mondo dell’animazione Disney, tra i primi a fiutare potenzialità nel computer per la realizzazione dei film ci fu John Lasseter che, dopo essere stato licenziato dagli Studios di Walt, nel 1986 diventò membro fondatore della Pixar, il leggendario studio che ha reso possibile la vasta espansione di storie animate d’alta qualità. Nel 1991, lo studio indipendente Pixar firmò la partnership con il colosso Disney, per produrre insieme animazioni che avrebbero fatto la storia. Toy Story fu il primo lungometraggio interamente in computer grafica ed ebbe un successo senza precedenti. La particolarità del film, nonché caratteristica della Pixar, fu la distinta comprensione delle relazioni genitore-figlio. Il film, infatti, narra di una bambola che desira giocare con il bambino, e non solo il contrario. Come i bambini si incapricciano dell’attenzione dei genitori, allo stesso modo i giocattoli in Toy Story vogliono catturare l’attenzione di Andy, un bambino di 6 anni. Lo stesso film, però, presenta diversi errori e difetti quali la scomparsa e i cambiamenti totalmente senza senso di oggetti di scena tra un frame e un altro, la dimensione più grande di un occhio rispetto ad un altro o anche la visibilità dei modelli dei personaggi in 3D. Mettendo da parte i vari difetti, Toy Story, con il suo forte potere sentimentale, ha entusiasmato sia un pubblico infantile che adulto, dimostrando che anche l’utilizzo massiccio della computer grafica poteva regalare pellicole capolavoro. La Pixar rifiuta l’idea disneyana e si ribella, sulla base che lo studio punta all’eccellenza e al volersi superare animazione dopo animazione. Guardando il mondo con gli occhi di un bambino, la Pixar ha mischiato le carte in tavola e ha affrontato 15 anni di spettacolare creatività, offrendo animazioni tecnicamente magici. Si parte dal muovere milioni di ciocche di pelo in Monsters & Co,nel 2001 e dal catturare gli animati giochi di luce nelle acque marine di Nemo nel 2003, per finire alla resa grafica iper-realistica della cute nell’ultimo film sugli Incredibili. Anche se la qualità tecnica è stata velocemente eguagliata da altre aziende, la Pixar mantiene alto il titolo narrando storie di ineguagliabile profondità e sofisticazione. La chiave del successo del suo cinema è l’appagare equamente e contemporanemente un pubblico adulto e infantile, connettendoli emotivamente. Questa magia ha iniziato a svanire dopo l’uscita di Toy Story 3, l’ultimo film degno dell’età d’oro dell’azienda. I film successivi, come i sequel Cars 2 e Monsters University, seppur tecnicamente molto migliorati e più studiati rispetto agli originali, mancano di qualsiasi tipo di tematica e messaggio. Diversamente dalla Disney, la Pixar ha sempre deciso di fare soldi secondo i suoi termini. Anche se lo stesso Lasseter ha iniziato a supervisionare gli Studios della Disneytoons, divenendo produttore esecutivo di Planes e del sequel, due film vergognosamente prodotti per afferrare montagne di soldi. È l’era dei film piatti, progettati e concepiti per divenire attrazioni nei parchi a tema. Il mercato dell’animazione americana, globalmente, ha preso una parabola chiaramente discendente a livello di contenuti e consistenza, senza sensibilità, sebbene abbia preso una parabola ascendente in quanto a tecnicismi e mercato. Se prendesse come modello il grande concorrente, il Sol Levante, probabilmente questa parabola potrebbe ricominciare a salire, poiché questo, pur avendo budget decisamente meno elevati, è divenuto d’ispirazione fondamentale alla bandiera a stelle e strisce, per i messaggi e i traguardi in campo sentimentale che l’animazione americana non riesce più a raggiungere come un tempo.
Articolo di Giacomo Bergamo e Giulia Tore