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Gli scorreggioni vs i Nanni Moretti
Passeggiata tra le due anime del cinema italiano
La psicosi dell’autorialità
In Italia la maggior parte dei film è finanziata attraverso fondi ministeriali. Questo ha provocato la nascita di una dimensione di cinema inteso come oggetto culturale, più che di mercato. I parametri delle commissioni del MiBACT (Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo) portano gli autori a dover spesso conferire alle proprie opere una valenza “scolastica”. Uno “statalismo” che si manifesta chiaramente nella stessa genesi di scrittura di un film, concepito e pensato per passare il vaglio delle commissioni ministeriali e non, come in USA, quello del pubblico. Il paletto ministeriale finanziario provoca nel cinema italiano una cristallizzazione della produzione artistica che porta da una parte una serie di autori a sfoggiare l’impegno civile e il valore del messaggio e dall’altra una commedia, anch’essa portatrice di valori civili e caratterizzata da una certa raffinatezza di scrittura ma che viveva dei grandi attori davanti alla macchina da presa, ponte diretto verso il pubblico più generale a cui interessava più la presenza di Sordi che della storia operaia. Per quanto poi, in fondo, il cinema italiano a cavallo tra i ’60 e ’80 viva di mescolanza continua tra tematiche più impegnate e messe in scena leggere.
Questo, oltre ad essere il principio alla base della commedia all’italiana, permette la convivenza delle due visioni contraddittorie, ma non inavvicinabili, del concetto di cinema sia come oggetto culturale che di mercato. Nonostante la stessa commedia all’italiana degli anni ’50, ’60 e primi ’70 sia ritenuta di grande livello da ogni punto di vista, permane tuttavia una psicosi collettiva, diretta conseguenza della logica statale dei finanziamenti, definibile come “l’inseguimento dell’autorialità”. Un’autorialità che non può essere legata alla commedia, data anche la mancanza in Italia di un’idea di “commedia brillante” che negli Stati Uniti si diffonde dall’avvento di Lubitsch, bensì ad una dimensione “seriosa” della storia filmica. Se fai ridere sei entertainment, se fai riflettere sei un autore di impegno civile.
Questa spaccatura limitante e superficiale pone già le sue radici negli anni ’70, manifestandosi in maniera più lampante verso gli anni ’90 e i primi ‘2000. Infatti, se da una parte il cinema “serio” continua a vivere grazie ad un continuo ricambio di autori, tuttavia non a livello di predecessori, come Elio Petri, Florestano Vancini o Francesco Rosi, (anche perché la committenza rimane basata sugli stessi criteri di valutazione ministeriali, quasi invariati nel tempo), la commedia soffre irreversibilmente l’invecchiamento dei loro totem, i cosiddetti “mattatori”, gli attori che avevano dato volto e gloria al genere e ai registi dietro la cinepresa, ai quali con un Sordi dall’altra parte della macchina bastava dire “ciak e azione”. Giungendo all’epilogo con Amici Miei atto II la commedia all’italiana si trovava alle porte degli anni ’80 in qualche modo orfana dei grandi interpreti del genere. Questo perché se ad un Moretti non occorre altro che Nanni Moretti un Monicelli può sentirsi spaesato senza un Sordi.
In mezzo all’espansione del cinepanettone e all’ormai crepuscolare ma sempre gittata saga fantozziana, nei primi anni ’90 si sviluppa un certo cinema medio che, con un livello decisamente più basso di scrittura, sancisce un certo compromesso tra messaggio sociale e intrattenimento. Questo si fa ponte tra il cinema di impegno civile e la commedia leggera, compromesso che in qualche modo riesce a soddisfare critica e pubblico. Una tendenza che si può grossolanamente sancire con i primi film di Paolo Virzì, autore da un certo punto di vista non inferiore rispetto ai commedianti del passato, e che prende decisamente piede dai primi 2000 ad oggi con l’autore più emblematico nel rappresentare la categoria, Paolo Genovese, e didascalicamente raffigurata dal cinema di Massimiliano Bruno e da i film con Paola Cortellesi. L’ultimo successo dell’appena citata, Come un gatto in tangenziale, ne è un ottimo esempio. L’affermazione di questo cinema medio, ponte tra quello che noi definiamo in maniera vagamente astratta “cinema di stato” rispecchiante i valori di impegno civile e la commedia più leggera e di massa, come il redditizio cinepanettone prima vanziano e poi parentiano, è un processo lento che tuttavia si concretizza proprio con il decadimento di quest’ultimo che, per via di diversi elementi, ha mantenuto in vita l’attenzione del pubblico verso la commedia e ha resistito nonostante la mancanza del facile appeal attoriale delle generazioni precedenti. Il film di natale, il cinepanettone, un tipo di pellicola che fino a poco tempo fa dominava le scene, per una serie di istanze caratterizzanti diventa il “nemico” principale del cinema “serio”, ed il modello che impartisce è sicuramente un esempio di cinema “liberista”, di film fatti in funzione di pubblico pagante e product placement non rispettando, almeno secondo le logiche del finanziamento statale, i principi impartiti dal MiBACT.
Gli scorreggioni vs i Nanni Moretti
Oltre quattro milioni e mezzo di spettatori e 28 milioni di euro. Queste sono le cifre di un singolo film: Natale sul Nilo. Cifre simbolo di 27 anni di cinepanettone, termine inizialmente dispregiativo poi adottato dagli stessi autori per definire quella che, insieme ai film di Fantozzi, è probabilmente la “saga” più redditizia della storia del cinema italiano. Il genere pone le sue fondamenta nel filone vacanziero che già caratterizzava un certo tipo di commedia tipica degli anni ’50 e ’60. Alla base di Vacanze di Natale, capostipite della serie c’è Vacanze d’inverno, film del ’59 di Mastrocinque con Sordi e De Sica (padre), da cui il cult dei Vanzina riprende sia gag che snodi narrativi. La factory targata De Laurentiis riusciva con un solo film a incassare 28,3 milioni di euro, solamente al cinema. E proprio il cinema inteso come luogo, che negli anni ’80 vide una profonda crisi con l’avvento della televisione, torna a vivere con le pellicole Filmauro, in grado di fissare quello in sala come l’appuntamento immancabile del periodo natalizio. “Gli italiani vanno al cinema solo quando fa freddo”, dice con sarcasmo Andrea Minuz, professore di storia del cinema presso Università la Sapienza, questo per farci capire quanto il film di natale, oltre ad una valenza di costume sia stata una vera e propria intuizione di mercato, incidendo sul ritmo circadiano dello spettatore e consumatore italico. Uno spettatore che si è ciclicamente avvicinato alla sala, prima sotto gli effetti di uno “star system” di cui Sordi e Totò erano protagonisti o per la ricerca della tetta nel film d’autore, poi sotto le luci di un cinema liberalista dove l’attore rimane in copertina ma è il genere a suggestionare la visione, in particolare per quanto riguarda il carattere corale della storia. Il cinepanettone si propone innanzitutto come film popolare, un tipo di film letto sempre in maniera problematica in Italia e si aggancia direttamente con la commedia italiana più popolare, quello che faceva il padre Steno, solo che a differenza di quest’ultimo e dei registi di quella generazione a mancare è proprio il Sordi e il Gassman di turno, quindi avendo nel film personaggi televisivi come Jerry Calà o Ezio Greggio, attori sicuramento non a livello di quelli sopracitati, la coralità diventa obbligata. I grandi registi della commedia all’italiana avevano il grande privilegio di poter costruire film su misura a grandi attori. È per questo motivo che probabilmente i Vanzina si sono sentiti valutati inferiormente rispetto ai predecessori del genere, per la mancanza del grande attore.
Il cinepanettone convive con i suoi detrattori ma continua a essere visto e ad incassare. Questo succede fino al 2011, con il film che si può davvero definire ultimo vero appartenente alla saga, Vacanze di Natale a Cortina, opera fatta anche con l’intento di riconciliarsi a quella che fu la pellicola madre. Il grande filone che ha portato tanti soldi all’industria cinematografica giunge al suo epilogo per tanti motivi. Il pubblico si stanca, non è scemo e ad un certo punto smette di farsi propinare la stessa formula tutti i natali. Un’altra ragione è sicuramente da ricercare nella crisi della sala, difatti il film di natale funzionava in quanto appuntamento annuale in sala, ora con Netflix e binge watching lo spettatore se ne sta a casa sotto le coperte a guardarsi le serie.
Lo spettatore stanco a cui non puoi più proporre gli stessi contenuti e che ormai non va più in sala non rappresenta un problema per “l’altro” cinema italiano, quello autoriale e impegnato, spesso sorretto dai finanziamenti statali, per mezzo di parametri più culturali che economici che hanno portato ad un’interdipendenza tra valori statali e produzione creativa. Negli anni ’70, dopo il Decameron di Pasolini, qualsiasi film che avesse un vago accenno a Boccaccio prendeva finanziamenti statali, pure film come Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda. I criteri di valutazione spesso fumosi del ministero per finanziare un film fissano tuttavia un principio di base: il film deve avere una valenza sociale o “culturale”, nell’accezione più ampia del termine. Un muro di Berlino che divide in due i Nanni Moretti da una parte e “gli scorreggioni” dall’altra. Quello che film come Perfetti Sconosciuti sono riusciti a fare è stato quello di andare a stabilire una commedia di mezzo, media, brillante, accessibile al pubblico ma comunque di livello per andare appunto a spaccare quel muro. Il muro è stato sicuramente abbattuto, e il cinepanettone è morto. Però un tempo c’è stato un cinema liberista che vogliamo immaginare come antagonista inoffensivo di un certo Soviet del cinema italiano.
Il drammatico epilogo del pecoreccio
Ora, guardandoci indietro di qualche mese al Natale del 2019, di scorreggioni non vi è traccia. Se osserviamo la natura dei film in gara per il podio al box office natalizio troviamo quasi più Nanni Moretti. Non considerando i film in gara statunitensi, Rise of Skywalker e Jumanji: Next Level, le tre pellicole in sala al 19 di Dicembre erano La Dea Fortuna (Ozpetek), Pinocchio (Garrone) e Il Primo Natale (Ficarra e Picone). A vincere la triella natalizia sono stati quest’ultimi, con una cifra intorno ai 15 milioni di euro di incasso. Se uno volesse incasellare questi film nelle categorie sopracitate andrebbe incontro a qualche difficoltà. Sicuramente una dose massiccia di cinema d’autore, anche se poco “morettiana”, e dall’altra degli “scorreggioni”, molto poco scorreggioni. Il duo siciliano, infatti, ha sempre conferito al suo cinema un forte aura di non volgarità, insieme a toni garbati e battute alla camomilla. Tuttavia alla fine della corsa arrivano ad un incasso sopra i dieci milioni, battendo il regista turco (poteva avere chance?) e un Garrone decisamente sottotono. Può dirsi soddisfatto il duo siciliano. I 15 milioni di incasso de Il Primo Natale sanciscono il suddetto film come il loro maggiore incasso. Eppure quella cifra davanti al Re Mida Zalone, al di sopra delle parti, fa ridere. Anche se la deviazione “morettiana”, si fa per dire, dell’ultimo film del comico barese non ha portato ai risultati di Quo Vado, non ci si è neanche avvicinato, anche se parliamo sempre di cifre record (con 46 milioni è il quinto incasso della storia del cinema italiano). E quella nota di impegno che si è registrata nell’ultimo film di Zalone ci fa pensare che, forse, veramente, gli scorreggioni non potranno mai tornare.
E se torneranno, ci comparirà davanti l’ombra sbiadita di loro stessi.
Articolo di Cosimo Maj