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Ius scholae, sulla cittadinanza l’Italia è indietro di trent’anni
La legge sulla cittadinanza italiana è ferma al 1992: non esattamente un capolavoro di modernità. Di certo c’è che dal 1992 il mondo è profondamente cambiato, e oggi che le crisi demografiche e sociali riecheggiano in slogan d’allarme della politica, un nuovo concetto di cittadinanza più moderno e inclusivo stenta a trovare spazio. L’ennesimo tentativo di riformarne la legge in merito questa volta prende il nome di “ius scholae”, il cui testo, a firma di Giuseppe Brescia (M5S), dopo una lunga fase in commissione Affari Costituzionali della Camera è stata calendarizzata per la discussione in Aula il 24 giugno.
Lo ius scholae supererebbe l’attuale meccanismo di acquisizione della cittadinanza sullo stile dello ius sanguinis, per cui si può diventare cittadini se nati da genitori italiani (anche uno solo dei due) o dopo aver soggiornato almeno 18 anni in Italia se figli di stranieri. Ma anche questa volta la politica e i partiti rimangono vittima di loro stessi e del periodo elettorale, dove una minima concessione alla parte avversaria non può essere tollerata, seguendo logiche di schieramento, sempre sulla pelle di chi oggi necessita di tutele.
La situazione attuale
Per comprendere al meglio le tortuose vicende della cittadinanza in Italia, occorre cominciare dal punto di partenza, ovvero la legge che attualmente ne disciplina l’acquisizione. La legge di riferimento è la numero 91/1992, dove nel primo articolo viene specificato quello che in gergo si definisce comunemente principio dello “ius sanguinis”, per cui acquistano di diritto alla nascita la cittadinanza italiana coloro i cui genitori, o uno dei due, siano cittadini italiani.
Un altro meccanismo diffuso è quello esposto qualche articolo dopo, per cui uno straniero nato in Italia può fare richiesta di cittadinanza dopo aver risieduto legalmente, e ininterrottamente, per 18 anni in Italia, rendendo la norma escludente nei confronti dei cosiddetti “italiani di seconda generazione”. Il carattere poco attuale della norma, motivo per cui da anni se ne chiede il superamento, è legato al contesto storico in cui questa veniva formulata: come spiega lo stesso firmatario del testo di legge, Giuseppe Brescia, la legge del 1992 è figlia di uno scenario completamente diverso rispetto a quello attuale, dove la principale preoccupazione era quella di tenere legati gli italiani al territorio nazionale, in un periodo storico che vedeva forti emigrazioni in cerca di fortuna all’estero.
Oltre alla natura obsoleta, l’idea dello ius sanguinis nasconde anche una forma di pensiero preoccupante: l’idea, infatti, che l’“italianità” sia un fatto puramente di sangue, sposta il discorso della cittadinanza su un piano di patriottismo grottesco, per cui l’appartenenza ad una nazione non è conseguenza di un impegno civile, o di una concezione multietnica ed universale dei diritti, ma tragga origine da un’eredità profonda e di sangue. Ci si riferisce così a quello che nella retorica conservatrice e tradizionalista, viene spesso definito “DNA italiano”, richiamando inquietanti legami con un’epoca in cui si guardava con sdegno a qualsiasi forma di “meticciato”, motivo per cui a difesa dello ius sanguinis storicamente si schierino non a caso movimenti di estrema destra ed ultra-conservatori.
La proposta di Ius Scholae
Il testo attualmente in discussione alla Commissione Affari Costituzionali della Camera prevede invece il meccanismo dello ius scholae, promuovendo un concetto di cittadinanza più dinamico e legato al percorso di istruzione come primo passo di integrazione. La proposta di legge ne accorpa tre precedentemente prese in esame, ovvero quelle di Laura Boldrini (PD), Renata Polverini (FI) e Matteo Orfini (PD), introducendo due nuovi articoli con l’intento di modificare il meccanismo di acquisizione: nel primo articolo la nuova legge disporrebbe che per ottenere la cittadinanza il minore straniero nato in Italia, o che vi abbia fatto ingresso entro i 12 anni di età, dovrebbe frequentare regolarmente, nel territorio nazionale, uno o più cicli scolastici per un periodo di almeno cinque anni.
Per chi lo promuove, lo ius scholae rappresenta anche un’adeguata risposta ad un dato preciso: secondo i dati del MIUR nell’anno scolastico 2019/2020 gli alunni stranieri accolti nelle scuole italiane erano circa 877.000, ovvero il 10% del totale, salendo al 12% nella scuola dell’infanzia a primaria. Inoltre, per tornare al tema delle seconde generazioni, si calcola che questi rappresentino il 65,4% degli studenti con cittadinanza non italiana. Lo stesso Giuseppe Brescia ha dichiarato di voler far sì che con questa legge si “consideri la scuola come una pratica di cittadinanza, poiché alimenta le relazioni dinamiche che connettono il cittadino alla comunità e alle istituzioni, politiche e sociali”.
Il meccanismo dello ius scholae si avvicina dunque a quello che viene comunemente definito “ius culturae”, con l’intento di promuovere un’idea di cittadinanza attiva e radicata nella socializzazione. Ad oggi, uno dei principali dubbi rimane la scarsità di casi simili in altri paesi simili, essendo ius sanguinis e ius soli temperato (cittadinanza acquisita se nati in Italia con prerequisiti variabili a seconda della nazione) i sistemi prevalenti nel resto del panorama europeo.
Una fragilità politica che non aiuta
Ciò che ancora una volta non stupisce, è l’inadeguatezza della classe politica nell’affrontare un tema delicato ed importante per centinaia di migliaia di persone, appiattendosi invece su ottuse logiche di partito ed egoistiche manovre elettorali. La reazione rocambolesca ed isterica del centrodestra ne è un perfetto esempio: anche in questa discussione i conservatori si sono discostati agilmente dal cuore del dibattito per concentrarsi sul vecchio e caro ostruzionismo in Commissione, presentando diverse centinaia di emendamenti.
Da quanto riporta sempre Giuseppe Brescia, che svolge anche il ruolo di Presidente di Commissione e valuta l’ammissibilità degli emendamenti, ne sono stati presentati in tutto 728, di cui 210 respinti, rallentando drasticamente il processo di votazione. I tentativi di correzione del testo da parte di Lega e alleati svariano da prove scritte sulle sagre di paese da sottoporre ai minori che richiedono la cittadinanza, alla conoscenza delle festività locali fino alla richiesta, da parte di Forza Italia, di sottoporre la questione anche ad un fatto di merito, facendo sì che possano diventare cittadini italiani solo i “primi della classe”.
Nel frattempo il centrosinistra, in perfetta riproduzione del disastro politico sul ddl Zan dove la ricerca della maggioranza per l’approvazione della legge ha costituito un vero e proprio campo minato, fatica a costruire un consenso condiviso dei partiti attorno ad un testo ragionevole e senza compromessi al ribasso. A meno di un anno dalle elezioni, la politica ancora una volta rovescia la prospettiva: gli ultimi mesi pre-campagna elettorale potrebbero invece essere utili a cercare una coesione su materie importanti, per non destinare questa legislatura solo al ricordo di decreti sicurezza, flat tax e valanghe di decreti su Covid e materia militare.
Le testimonianze
Al di là degli aspetti tecnici, rimane il drammatico impatto che l’attuale meccanismo ha sulla vita delle persone. L’obsolescenza della regolamentazione sulla cittadinanza, e la sua natura discriminatoria, spesso incontrano anche ostacoli materiali che hanno a che fare con i tempi della burocrazia, e che complicano ulteriormente la questione.
È questo il caso di Samia, studentessa dell’Università di Bologna, che racconta la difficoltà della sua esperienza personale. Partita dal Marocco per arrivare in Italia a sei anni, dopo un lungo periodo di tempo in cui dipendeva da permessi di soggiorno legati ai suoi genitori, dalla maggiore età ha potuto fare richiesta di cittadinanza: “sono finita in un limbo durato più di tre anni, seppur quando avessi iniziato la procedura ne erano previsti massimo due di attesa; con i decreti sicurezza di Salvini il periodo si è prolungato e la norma aveva efficacia retroattiva, quindi anche sul mio caso”.
Questo ha avuto anche delle ricadute sul percorso accademico: “ho cominciato il mio Erasmus in Francia da cittadina non comunitaria, questo ha comportato dei problemi non da poco. Ho dovuto muovermi in due labirinti burocratici diversi, dove non sembrava mai trovarsi una soluzione. L’esperienza è stata frustrante, e non sono l’unica a cui accade, purtroppo”. Un meccanismo come quello dello ius scholae, dunque, avrebbe un impatto certamente diverso, permettendo di evitare casi di disfunzionalità simili, oltre a porre l’accento sulla dimensione sociale della scuola, che ancora una volta prende il posto della politica all’interno di un processo di avvicinamento alla vita pubblica. Lo sottolinea il prof. Giovanni Moro, sociologo politico e professore di “Teoria e pratica della cittadinanza” alla Università degli studi di Roma La Sapienza: “La scuola è diventata l’elemento sostitutivo di tante altre centrali di socializzazione, è il luogo in cui si gestiscono varie assenze, prima di tutto quella della politica. Quest’ultima spesso si occupa solo di fare le leggi, senza occuparsi poi di tutto quello che viene dopo”.
La grande assente dal dibattito sulla cittadinanza, dunque, rimane una seria e completa riflessione sul concetto di integrazione, seppur quest’ultimo concetto venga contestato, per come oggi è inteso, dal prof. Moro: “È una questione culturale e sociale: quando due gruppi umani si incontrano non succede mai che A lasci fuori tutte le sue caratteristiche (culture, modi di vita…) per accedere a quelle di B. Sarebbe più giusto definirlo un processo di ibridazione: il processo di integrazione, così come lo abbiamo ereditato, presuppone che esista una comunità culturale in cui integrarsi caratterizzata da elementi rigidi, che siano materiali o astratti . Questa idea di comunità non sta più in piedi: le cittadinanze oggi mirano a ridefinirsi in termini di comunità di destino.”
Comunità di destino, la nostra, che di certo come oggi è strutturata rischia di rappresentare solo l’opposto di qualsiasi forma di inclusione: “Lo ius scholae – conclude Samia – sarebbe un riconoscimento importante, di cui spesso l’adolescente che si sforza di integrarsi avrebbe bisogno. Cresci in un Paese che senti tuo, ma sai che per quel Paese sei ancora uno straniero. Sai solo quello che non sei: crescendo capisci di essere un compromesso, e di appartenere solo parzialmente alle realtà dove cresci. Tutto ciò porta a sentirsi persi”.
Articolo di Nicolò Morocutti