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Cosa vogliono gli attivisti del Climate Social Camp
Parco Colletta, zona nord di Torino. Le tende si smontano e ciascuno lascia un prato di incontri, di speranze e lezioni apprese guardando all’autunno. Tra i pertugi dei picchetti si sente ancora l’eco di chi ha parlato per una settimana intera di una grande mobilitazione sociale imminente. Il Climate Social Camp e il meeting europeo di Fridays For Future svoltisi nei giorni scorsi nella ormai dismessa ex capitale industriale della più avanzata classe operaia italiana, hanno reso evidente la capacità di attrazione, anche in termini numerici, del movimento per il clima, e del suo tentativo di convergere e fare rete fra i diversi ed eterogenei elementi che lo compongono.
A rendere questo passaggio ancor più significativo ha contribuito l’improvvisa anticipazione delle elezioni politiche: le prime elezioni “climatiche” della storia repubblicana (nel marzo 2018 questa fase del movimento per il clima non si era ancora aperta). Il 25 settembre si formeranno nelle urne gli equilibri di una legislatura che coinciderà con gran parte del tempo residuo, 6 anni e 11 mesi, per l’esaurimento del carbon budget (la CO2 che possiamo ancora emettere) nello scenario che ci dia maggiori possibilità di restare sotto 1.5 °C di aumento della temperatura media globale.
Fridays For Future quindi, nel suo processo di allargamento della base sociale coinvolta nel movimento per il clima, (guardando quindi al movimento sindacale e alla silenziosa maggioranza sfruttata, disillusa e astensionista del paese) si trova coinvolto in un periodo di intensa campagna elettorale che precede un autunno che avrebbe voluto e vuole ancora “scaldare” a fianco della classe lavoratrice. Negando qualunque volontà di fare endorsement a partiti tutti impreparati dinanzi alla crisi climatica e sociale, non può astenersi dal sollevare alcuni punti programmatici che ritiene cruciali e auspica di ritrovare negli orizzonti delle coalizioni in gioco.
Al centro quello del trasporto pubblico gratuito. Un’idea di società in cui non ci si dovrebbe preoccupare di acquistare il biglietto per la corsa, dove un autobus o un treno sarebbero beni comuni tanto quanto un marciapiede o un’ascensore; dove il conflitto costante con controllori e autisti verrebbe infine superato. E in cui soprattutto la scelta della mobilità collettiva diverrebbe più economica di quella della mobilità privata. Un esperimento partito in Lussemburgo già prima della pandemia e ripreso, seppur in forme diverse, per contrastare la crisi energetica e il rialzo del prezzo dei carburanti, anche da Germania (con il biglietto unico mensile di 9 euro per i treni, già in vigore) e Spagna (con la gratuità delle corse sulle reti statali da settembre e con interventi paralleli attuati dalla municipalità di Barcellona), oltre che in Austria e Irlanda. In tutti questi casi, pur trattandosi di una misura temporanea ed emergenziale, si è registrato un significativo aumento degli utenti del trasporto pubblico.
Oltre la crisi però, quello del trasporto pubblico gratuito deve essere un modello da normalizzare per colpire uno dei settori che più conta per emissioni di CO2 (un quarto delle emissioni totali in Europa, di cui il 60% da auto private secondo l’Agenzia Europea dell’Ambiente), e un blocco di interessi economici, quello dell’automotive legato alla mobilità privata, pernicioso anche per i suoi piani di transizione di massa all’auto elettrica (insostenibile sostituzione di ogni auto a combustione interna con un’auto elettrica).
Dinanzi a questa idea di società, il contributo trasporti di 60 euro approvato con il decreto aiuti del maggio scorso dal nostro governo, utilizzabile una sola volta per l’acquisto di un abbonamento mensile o annuale, oltre ad essere pensato solo come (insufficiente) sostegno ai redditi medio-bassi, è ancora legato alla logica del bonus inserita in un piano di mantenimento dello status quo tipicamente italiano. Agirebbero invece la gratuità e l’investimento nel trasporto pubblico anche come forte strumento redistributivo se fossero finanziati con una effettiva progressività fiscale e se riuscissero inoltre a collegare ai centri urbanizzati le aree interne del paese che sopportano un destino diverso e deteriore rispetto ai primi soprattutto a causa delle carenze dei trasporti. Per questi numerosi territori la gratuità avrà un senso solo se accompagnata dalla costruzione di efficienti reti e infrastrutture.
Non è un sogno ma una misura realizzabile e realisticamente finanziabile. Che “tutto il bene del mondo è oltre il ponte” ne siamo oltremodo convinti. Questo è solo uno dei molti punti con cui vorremmo provare a superarlo combattendo il vuoto politico e la disonestà intellettuale “che abbiamo di fronte”.
Articolo di Giorgio De Girolamo