Episodio II, Martedì 29-09-2020
ore 23:08
Cantai e la mia anima fu fiera
nel fulgido mattino, nell’incerta sera
cantai mil volte ancora e senza posa
ovunque udissi la campana più chiassosa.
Se ad un campanil m’incateno
libero ne sono in un baleno,
sicché mai a nessuno fui super ligio
Yo soy er Guelfo Grigio
Non è facile avere le possibilità di appartenere di diritto e contemporaneamente a fazioni avversarie,
a sottogruppi interni, a schiere amiche, o sconosciute, a Clan affiliati, o confederati, all’odio e
all’amore, all’amore per l’odio dell'uno per l’altro, nel rispetto reciproco, o nell’indifferenza, in
tutto, in niente, e viceversa. Io ci riesco senza problemi. Sono molto impegnato però, la mia agenda
è quella di un militante dedito e stacanovista. Per me non esistono weekend, non esiste Comincio
da lunedì, martedì, mercoledì eccetera, o meglio, dal prossimo lunedì comincio ma non è che ho
detto mo’ comincio da lunedì, come se dice co’ la dieta, e poi non lo faccio, nono stai sicuro che lo
faccio, stavolta è successo che capitasse de lunedì, poteva benissimo essere un giovedì, o un
mercoledì, sì insomma, senza rinchiudere i giorni in nomi, o in un ordine sequenziale
oggettivamente figlio di un criterio campanilistico-religioso cioè stamo nel 2020 mica stamo a dà
retta ancora a ‘ste cose, ecco allora un giorno vale l’altro. Ad esempio quando Marco Aurelio m’ha
detto de venì Martedì sera alla festa d’addio io c’ho messo un po’ a realizzà che era oggi. M’è pure
toccato disdire la riunione Elitaria, guarda un po’ te pe’ ‘na volta che trovo qualcuno che mi
permette di pensare come vorrei me tocca pure rimandà di un’altra settimana. Riunione rimandata
a Lunedì prossimo, me toccherà inventà una scusa con gli Artisti, ma con loro si rimanda facile.
Mercoledì però non posso che ci sta il summit con gli Spritzaroli anche se sinceramente stanno un
po’ a fini’ le idee — è questo che la gente non capisce, il rinnovamento idealistico va ricercato, è
quasi fisiologico rompese i cojoni ad esse coerenti per mesi con un concetto che sicuro invecchierà
male. Lo Spritz tra poco sarà superato, eppure la gente perde ancora tempo a berlo.
Per non parlare degli Stoici, che stanno in ritardo de duemila anni. Marco Aurelio è un bravo
ragazzo e tutto, ma gli ideali non traslano col tempo, non evolvono.
Muoiono appena accesa la miccia.
Quelli che durano più a lungo sono quelli senza miccia, o quelli che la miccia non ce l’hanno. Ma
nonostante io sia un grande collezionista, di ideali s’intende, forse addirittura il più grande, non mi
azzarderei mai ad accumulare un ideale ignifugo. Bisogna lasciarli spenti, immacolati. Accenderne
uno che dovrebbe rimanere spento non è consigliabile, altrimenti non sapete su quanti avrei potuto
mettere le mani.
Limitare lo spargimento per evitare la prosciugazione, dedicarsi a quelli esistenti finché c'è polpa,
più ce n’è, meglio è. Certo, polpa di qualità, va da sé. Scegliere di pensare una cosa che non si vuole
pensare è da stupidi, imho. Mo’ stasera se riesco a trova un cazzo de parcheggio faccio cambià idea a
Marco Aurelio. Lo convinco, domani manco ce sale su quell’aereo. Uno come lui è sprecato così.
Zitto che forse l’ho trovato — no, manco ‘sta volta.
La Punto davanti a noi è una di quelle indecise. Nonostante io non sia propenso ad alcun tipo di
esortazione sonora alla guida — moderato uso del clacson, urlacci raramente pervenuti— questo
suo andamento tormentato mi snerva, vorrei incitarlo, ma allo stesso tempo provo empatia per il
guidatore, poverino, lacerato dal dubbio, che non sa se andare avanti e abbandonare ogni speranza
di parcheggio oppure perseverare nell’ottimismo di questo valzer di frecce, inchiodate, prima,
seconda e frizione. Alla fine mi concedo una suonata liberatoria per entrambi, una suonata che
doni corpo e sostanza a quei fari incombenti dietro a lui, cioè noi, pe’ faje capì che se deve dà ‘na
mossa. E allora lui prende la sua vita per mano, ha preso coscienza che qui parcheggio non se trova,
mette la terza e sfreccia affanculo giù per il Lungotevere, non vedendo però quello spazietto dietro
la Panda, poverino, e quindi stavolta le freccia la metto io, e a rosica’ tocca a quello dietro.
Il locale non è molto distante e Zanna sa la strada e quindi va avanti lui. Il cellulare mi vibra,
Francesca chiede se alla fine ho trovato la macchina. Io le dico di no, che la sto ancora cercando.
Ho altri messaggi ma non ho voglia, chiudo la notifica di Instagram e metto via.
Il Tribe, dice Zanna, è uno di quei posti che se non conosci potresti ignorare di sana pianta
passandogli accanto. E non è questione di diottrie, è che semplicemente il proprietario, un tale
Evaristo, a discapito della massa e a favore dell'Elusività, l’ha proprio concepito così — il primo, ed
unico, locale Elusivo di Roma. E non pensiate che sia basato sul modello degli speakeasy — così
Evaristo avverte i suoi detrattori — quella è monnezza, robaccia vecchia de cent’anni che è bona
solo pe’ fregà i fessi, quelli che se sentono unici solo dopo che un Mizio random ar telefono je dice
Daje apposto prenotato per quattro a nome Sandro me raccomando la password de stasera è
JULIOBAPTISTATITOLARE, bella lunga così la conosci solo te, me raccomando de nuovo
Sandrì nun te la scordà.
La prima cosa da sapere è che il Tribe ha diverse entrate sparse lungo i quattro lati del palazzo, la cui
totalità è stata pretesa a gran voce e sorprendentemente ottenuta in gestione da un giovane Evaristo
al tempo privo delle disponibilità economiche che solo l'Elusività può concedere. Queste entrate
non sono mai tutte aperte contemporaneamente ma seguono uno schema facilmente crackabile —
a detta di Giuggia, l’ex di Zanna. Essendo le 11, Zanna ci porta giù per Via degli Scavi Interrotti ,
verso l’entrata delle grandi occasioni.
Due piante con rispettivi vasi sono ai lati di una porta scorrevole in quello che sembra essere vetro,
o plasticone. Ti aspetteresti una fila in attesa ma oltre alle piante e a una telecamera non c’è nulla,
manco l’insegna, un nome o qualcosa. La via è silenziosa, e capisci come un locale possa far
successo solo con l’appoggio del vicinato, che normalmente sorvola su tutto a patto che la notte
possa dormire tranquillo.
Ma te sei sicuro che sia questa l’entrata?
Fidate Cima, quando ci venivo con Giuggia era sempre così, vuoto fuori e pieno dentro.
Si ma è passato un anno, può anche essere che abbiano cambiato gli orari di apertura delle porte,
no?
Ci avviciniamo aspettando che le porte si aprano, ma a quanto pare è più di quanto sia lecito
aspettarsi. Cerco con gli occhi un campanello che però non esiste, mi giro verso gli altri, ne sanno
meno di me, manco Zanna azzarda qualcosa. Busso ma niente. Ci spostiamo verso il lato opposto
della strada. Noto che la telecamera ha seguito il nostro spostamento, e mi ritrovo stranamente
divertito. Ma do’ cazzo semo finiti? Ribe propone di telefonare a Marco Aurelio, che in effetti
sarebbe un’idea molto saggia se il suddetto non avesse gettato il cellulare nelle fiamme della
Manifestazione Stoica, evento pubblicizzato sottovoce nell’underground romano, anno di grazia
2019, con evento finale alla discarica della Salaria, dove Marco, in piedi su una montagnola di
rifiuti, si spogliò francescanamente del superfluo, facendo precipitare nello spiazzo ai suoi piedi
cellulare, tablet, chiavi della macchina di Lucilla (la madre), portafogli, e addirittura le scarpe, e
dovette tornare a casa scalzo in autobus in quello che non penso essere un ricordo piacevole — una
presa di posizione forte, una manifestazione memorabile.
Me sa che Evaristo a forza de renderlo elusivo lo farà sparì del tutto ‘sto locale, dico io.
Ma poi elusivo de che?, chiede Cima, Cioè capisco tutto, le quattro entrate, la non-insegna, il vuoto
di fuori...ma a me più che elusivo me pare chiuso.
Chiuso non è, la telecamera ce seguiva, dico io.
Elusivo nel senso latino del termine, interviene Zanna, sì, insomma, nel senso che ce pija per il culo.
Me l’ha spiegato Evaristo l’anno scorso. Certo devi esse stata ‘na bella pippa al liceo, m’ha detto. Io
ho sorvolato, fatto finta di niente; ma pure Giuggia, che a latino era ‘na spada, mica stava a capì. Poi
ce l’ha spiegato. Eludere, composto dal prefisso e — cioè fuori, e —ludere, giocare: uscire dal gioco.
E allora là je faccio Scusa ma che c’entra uscire dal gioco co’n verbo che significa schivare? E lui me
risponde dicendo qualcosa del tipo Il vincitore che ner gioco batte l’avversario, se ne prende anche
gioco, lo surclassa in bravura e scaltrezza — praticamente lo percula. Da quello che ho capito,
eludere inteso come giocare ad acchiapparella, invogli l’avversario a prenderti sottraendoti alla
presa. Al massimo te fai sfiorà, ecco là sta il trucco. E così facendo smetti de giocà, esci dal gioco,
perchè sei talmente più forte — più intelligente, mo’ non me ricordo la parola esatta che ha usato,
vabbè più svejo dell’avversario — che manco ne varrebbe la pena continuà. Ed è per questo che ci
sono un sacco di entrate, o almeno c’erano. Ora so cambiate pure queste. Te cliente che vuoi entrà
devi batterli nel giochetto.
Poi ci guarda uno ad uno, un sorrisetto compiaciuto, aspettando qualche commento, una reazione
positiva a questo sfoggio di cultura. Cima si lascia scappare un mecojoni, ma niente de più.
Ma quindi, interviene Ribe, non è che sotto sotto ce sta a pija per il culo pure mo’?
Penso che Zanna l’abbia reso abbastanza chiaro, dico io.
Sì, ho capito. Ma Zanna saranno mesi che non ce torna no?
Più di un anno.
Ecco vedi. Io non so del mestiere, ma magari ‘sti Elusivi professionisti cambiano trucchi a fine
stagione, diversificano le prese per il culo.
E me sà proprio de sì, dico io. Forse è meglio controllà le altre entrate.
Giriamo a sinistra su una via fotocopia di quella di prima, vuota e silenziosa. Davanti a noi un
vicolo che ha l’aria di essere il sito di una centrale nucleare in attesa di un nuovo referendum che dia
il via libera, c'è urgenza e gravità e consapevolezza, e tutto punta all’entrata del Tribe.
Quello che si offre alla vista sono i resti di un impatto ambientale che ha modificato
morfologicamente il territorio, che ne ha intaccato le risorse e deformato i lineamenti. Il punto di
fuga è stato rimosso dal fondo della via e rilocato nei pressi degli stessi due vasi visti in precedenza,
le stesse piante, la stessa porta di vetroplasticone verso cui ogni linea sembra convergere. Avanziamo
in silenzio, otto occhi e una telecamera inamovibili sullo stesso bersaglio. Da qualche parte sul lato
buio ed opposto della strada le finestre si sforzano a rimanere chiuse per ricordare quelle su Via
degli Scavi Interrotti, e la luce che i lampioni gettano in terra si sbriga a conformarsi stiracchiandosi
nella direzione imposta dall’ordine costituito. Sembra che la totalità della strada, dai sanpietrini
all’intonaco sbiadito del palazzo, sia un’estensione de ‘sta porta che continua a non aprirsi, come se
un unico set teatrale emergesse dall’interno del palazzo e ad esso volesse ritornare, riprodotto per le
quattro vie che circoscrivono il Tribe, buca per buca, murales per murales, e ogni dettaglio è
informato e necessario, ogni entrata con soprastante telecamera la sorgente e la foce di tutto. Mo’
sta pure a tira’ un venticello che rende la scena un po’ più lirica, la luna, il silenzio, le foglie delle
piante all’ingresso che però restano immobili — vedendo meglio anche le piante sembrano fatte de
plastica, forse un composto simile a quello della porta ma con uno sprint de pigmento verde, non
saprei.
Zanna aveva torto, se non fossi a conoscenza della presenza del locale sarei lo stesso soggetto al
magnetismo. Magari non saprei dare un nome alla sensazione di trascinamento e non capirei di
trovarmi nei pressi di un club, quello sì. Scambierei ‘sto senso di straniamento per altro e
rimanderei l’indagine delle cause al prossimo semaforo rosso. Vedendo la telecamera potrei anche
azzardare una boiata complottista da titolone in prima pagina: Bighellone scopre laboratorio sovietico
nel cuore di Roma, magari con intervista annessa. Cominciando con domande personali e
biografiche, a cui risponderei senza troppe frivolezze, l’intervistatore si concentrerebbe poi sulla
scoperta della base, e io direi senza indugio tutto quello che ho scoperto, di come io abbia
prontamente capito che si trattasse di una base risalente alla guerra Fredda non appena uscito
dall’ascensore nascosto dietro la porta di vetroplasticone, di come io abbia poi riesumato
documenti che il mondo occidentale pensava perduti, di come questi fogli compromettano in
maniera irreversibile personaggi di spicco di cui ora mi spiace ma non posso proprio fornire i nomi.
E ci dica, come ha avuto il sospetto che il palazzo potesse essere una copertura per qualcosa di più
misterioso?
Ho avuto una soffiata da un informatore di quartiere.
Caspita, complimenti vivissimi! A noi gli abitanti della zona hanno solo detto di non saper niente e
di non voler saperne niente. Lei deve proprio possedere delle doti investigative fuori dal comune —
mai visto in tanti anni di onorata carriera un talento così cristallino. Le dispiacerebbe abbandonare
la sua vita e unirsi a noi Scribacchini? Diventerebbe il nostro esponente di punta, la nostra stella!
Guardi la sua offerta mi lusinga ma ha sbagliato persona, io sono un Bighellone.
Ora che ci penso forse il vicinato è zittito in un silenzio omertoso, o magari è stato sfrattato perché
a favore di vento. Mica è facile riprendersi una volta entrati in contatto con le scorie.
St’entrata pare ‘na ZTL del centro, ce metto la mano sul fuoco che Evaristo gestisce pure quelle,
dico io.
Ma ‘ndo semo finiti?, chiede Ribe.
Ah boh, vi giuro che quando ce venivo con Giuggia non era così.
Salta un contatto e la luce del lampione ronza per un secondo e allora ormai non ci sono più dubbi,
l’aria è proprio quella là, quella frizzante, sì quella giusta, quella bella da complottismo, bella
potente, da campi magnetici e vibrazioni e onde karmiche. Sono ormai certo che il Tribe altro non
sia che una copertura per qualche tipo de laboratorio segreto trecento metri sotto il Tevere, e
Evaristo, che in verità se chiama Sergej Smith, mica è de Dragona, no macché, è de Dubrovka, ‘na
ventina de minuti fuori San Pietroburgo, da dove è fuggito negli anni Settanta per scappare dalla
patria in cui si sentiva estraneo, lui figlio di una relazione Fredda che non doveva succedere, e c’ha
confuso tutti quanti con la sua parlata da ragazzo di vita e il DajeRomaDaje tatuato sulla coscia,
self-made-man ‘sto cazzo, da buttafuori a imprenditore, e la gente che abbocava, mentre invece
chissà che fa là sotto, dopo tutti quei traumi da ragazzino, qualche genere d’esperimenti genetici
sull’orfani e prigionieri de guerra come minimo.
Un uomo sulla sessantina appare da dietro l’angolo, si ferma davanti all’entrata e non sembra
opporre molta resistenza quando il cane che tiene al guinzaglio punta uno dei due vasi, ne annusa la
base, e ci piscia sopra. La telecamera osserva, immobile.
Zanna da vero capogita si carica il destino della serata sulle spalle e approccia il signore.
Scusi signò, ma sa se è aperto ‘sto locale?
Aperto non lo so, ma se vai più avanti ce sta uno che sta a fumà fuori da una porticina, magari te sa
dì meglio. Noi ringraziamo e nel frattempo il cane caga e il tizio ce saluta dicendo de non
preoccupasse che mo’ raccoglie.
Appoggiato ad una porta diversi metri più in là, un ragazzo vestito di bianco sta per gettare il
mozzicone per terra. Zanna gli si avvicina che la porta non si è ancora chiusa dietro di lui.
Ciao scusa te lavori qua giusto?
Che non se vede?
No no, sì sì. Se vede, dice Zanna. Senti, ma ce puoi di’ come se entra? Ce sta la festa de un amico
nostro, Marco Aurelio, non so se hai sentito. Insomma, io so che ‘sto posto è Elusivo e tutto, ce
venivo spesso soprattutto appena aperto e fino ad un annetto fa, solo che poi me so lasciato…
Senti, io sto a lavorà, se volete entrà passate da qua. Tanto oggi so’ praticamente entrati tutti da ‘sta
porta, sto giochetto nuovo che s’è inventato Evaristo è ‘na merda.
Si sposta dall’entrata e noi scivoliamo dentro, ce dice che alla fine della cucina dovemo girà a destra
e poi a sinistra ‘ndo ce dovrebbe sta il buttafuori con la lista degli invitati.
Un po’ me rode de non ave’ crackato il codice ma alla fine pure ‘sti cazzi.