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Come Erdoğan sta sfruttando politicamente il terremoto
Il governo di Erdoğan, un corollario di censure e arresti
«Non riesco a esprimere i miei sentimenti in un modo che non mi faccia finire in prigione» sono state le parole dell’attore Feyyaz Yigitdel, in uno dei post più condivisi subito dopo i primi terremoti nel sud-est della Turchia. Il governo turco ha infatti fin da subito imposto una censura sulle notizie relative al terremoto dello scorso 6 febbraio. Secondo alcuni osservatori, Erdoğan starebbe strumentalizzando il disastro naturale in vista delle elezioni del prossimo maggio.
I soccorsi, minimi, del governo turco
Un’area vasta circa 464 km tra la Turchia meridionale e la Siria settentrionale il 6 febbraio è stata colpita da due forti scosse di terremoto di magnitudo 7.8 e 7.5. Edifici e palazzi in un attimo si sono trasformati in un cumulo di macerie che hanno schiacciato e intrappolato chi in quelle abitazioni fino a un attimo prima ci viveva, inconsapevole di quello che sarebbe successo di lì a poco. Sono stati oltre 5mila gli edifici crollati, decine di migliaia di persone sono rimaste ferite, ma il dato sicuramente che sottolinea quanto in effetti il terremoto sia stato letale è il numero delle vittime. Solamente quattro giorni dopo il terremoto, considerato ad oggi uno dei più devastanti e catastrofici degli ultimi due decenni, il bilancio dei morti si aggirava a più di 20mila vittime, dopo circa una settimana i numeri sono balzati a quasi il doppio, sfiorando ad oggi quasi i 46 mila morti.
Il governo turco ha dichiarato lo stato di emergenza per dieci province per i prossimi tre mesi, cercando in questo modo di arginare in qualche modo il disastro naturale e umanitario in cui versa lo Stato. Nonostante negli ultimi anni la politica di Erdoğan abbia deteriorato le relazioni con moltissimi stati a livello internazionale, tutti i leader dei 27 paesi membri dell’Unione europea si sono espressi in termini di vicinanza e cordoglio per le vittime del terremoto, inviando squadre di soccorso in ausilio, per le ricerche che non sono mai state del tutto sospese. Secondo Aram, un giornalista curdo intervistato da Scomodo, il quale ha preferito non rilasciare altri dati personali riguardo alla sua professione, questo sostegno verrà strumentalizzato da Erdoğan come un suo merito. La direzione governativa turca non è stata esente da aspre critiche interne, soprattutto riguardo la tempestività dei soccorsi per i residenti delle zone colpite. Le forze militari e le squadre di pronto intervento infatti sono arrivate sui luoghi interessati con molto ritardo.
Secondo quanto riportato dal magazine TIME, molti residenti avrebbero cercato di contattare l’AFAD (Presidenza per la gestione dei disastri e delle emergenze), senza però avere alcun riscontro, e un residente della città di Antakya, una delle più colpite dal terremoto, ha affermato che nei primi due giorni e mezzo le squadre di soccorso professionali o le attrezzature predisposte dal governo erano poche, di certo insufficienti rispetto alla necessità reale. Molte persone che sono riuscite ad uscire dagli edifici durante le scosse di terremoto sono rimaste infatti a lungo in attesa prima che le squadre di emergenza arrivassero, ad oggi si contano circa 1.5 milioni di sfollati.
Il Presidente Erdoğan ha riconosciuto l’impreparazione del governo, giustificandosi con l’impossibilità di trovarsi pronti ad un disastro di questa portata: una dichiarazione non del tutto vera, perché la Turchia si trova in una zona altamente sismica. Già in passato è stata colpita da terremoti di forte intensità, e la mancanza di preparazione della classe politica al governo è stata in questo caso, più di altri, fonte di molta rabbia da parte dei cittadini. In linea con questo malcontento è stata la voce di Kemal Kilicdaroglu, leader del Partito Popolare Repubblicano, il principale partito di opposizione della Turchia che sostiene l’inevitabile consequenzialità tra l’enorme portata del disastro e la politica governativa, che si è rifiutata nei vent’anni precedenti di predisporre misure di prevenzione per il tanto atteso terremoto.
Su questo scenario politico si incastra un’ulteriore dato, ossia la figura di Ismail Palakoglu, capo dell’AFAD. Nonostante il ruolo ricoperto, Palakoglu non ha avuto un’istruzione adeguata in caso di calamità, perché ha studiato teologia. La notizia sulla poca preparazione della persona incaricata si unisce quindi alle diverse critiche politiche riservate al governo di Erdoğan.
La realtà censurata sul terremoto
Ciò che però non può passare in secondo piano è che, nei giorni successivi alle ripetute scosse di terremoto, le attenzioni del Presidente turco si fossero in parte concentrate su una peculiare forma di scrematura delle notizie, che si potrebbe anche definire comunemente con il termine di censura, ma anche di un’attenta riformulazione dei propri obiettivi politici. Inizialmente, ci spiega il giornalista Aram, c’è stata grande disinformazione da parte dei media del regime, i quali hanno dichiarato che non ci fossero stati errori e che tutto fosse stato risolto prontamente. Tante altre agenzie di stampa e utenti sui social media, invece, hanno denunciato informazioni poco veritiere. Il risultato di queste azioni è stato il blocco di Facebook, ed è stato anche negato l’accesso a Twitter per 12 ore. Questo divieto, oltre a rappresentare per i soccorsi l’impossibilità di accedere alla posizione condivisa dalle persone ancora intrappolate sotto le macerie, ha posto una grave limitazione verso la libertà di espressione. Una limitazione disposta, secondo quanto dichiarato dal Presidente Erdoğan, con il solo fine di bloccare le notizie false che in qualche maniera potessero alimentare la disinformazione sulla situazione turca. Il ricorso a questi metodi di censura e filtraggio delle notizie in Turchia sembra ormai definire una prassi che nel tempo si sta sempre più fortificando, soprattutto dopo il tentato colpo di stato militare del 2016, in cui il Presidente Erdoğan ha rischiato di perdere il proprio potere.
I tre canali televisivi HalkTV, Tele1 e FOX TV sono stati multati rispettivamente del 5% e 3% del loro fatturato di gennaio per aver evidenziato carenze nella risposta del governo sul terremoto. Il giorno dopo le prime due scosse di terremoto, l’accademico Özgün Emre Koç è stato arrestato (e rilasciato il giorno dopo) con l’accusa di incitamento pubblico all’odio e alle ostilità dopo aver pubblicato questo post: «Ci sono migliaia di soldati solo nelle baracche situate a Hatay. C’è una brigata di comando, ci sono unità meccanizzate che possono arrivare ovunque, ci sono comandi di reggimento… Anche se non hanno fatto nulla, avrebbero potuto sgombrare le macerie, distribuire zuppa alla gente e sollevare il morale della gente. Ma non l’hanno fatto. Siete dei traditori». Il 10 febbraio la Türk Polis Teşkilatı (la Direzione generale della sicurezza turca) tramite un tweet ha riferito che il numero degli utenti di social media presi in custodia erano più di 300, i fermi 37 e gli arrestati 10, con l’accusa di aver condiviso post provocatori sul terremoto sulle piattaforme dei social media.
Dai dati forniti dalla Commissione per la protezione dei giornalisti, in Turchia fino all’1 dicembre dello scorso anno i giornalisti detenuti per attività svolte durante l’esercizio della propria professione erano quaranta. Il paese si colloca così tra i paesi con il più alto numero di incarcerazioni giornalistiche con Cina, Iran, Myanmar. Aram ci dice infatti che da quando c’è stato il terremoto moltissimi giornalisti nel dare le notizie iniziavano tutti con una premessa «anche se dovessi essere arrestato», a dimostrazione del fatto che tutti sono a conoscenza del fatto che rischiano la detenzione.
Gli arresti e i fermi seguiti ai post di critica verso il governo di giornalisti e comuni cittadini manifestano la già nota limitata libertà di stampa e di opinione in Turchia, che nel 2022 è il 149esimo paese su 180 secondo l’indice di Reporters Without Borders. Ad aggravare la situazione, il 12 ottobre 2022 è entrata in vigore una nuova legge sulla disinformazione. Proposta dall’AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo) di Erdoğan, la legge prevede una sanzione penale per i colpevoli di diffondere informazioni false o fuorvianti riguardanti la sicurezza e l’ordine pubblico. Questa disposizione prende di mira soprattutto i social network, che sono chiamati a consegnare al governo i dati personali degli utenti sospettati di propagare fake news. Si rischia la condanna per il solo retweet di un’informazione ritenuta falsa, e se il reato è commesso omettendo la reale identità dell’utente o per conto di un’organizzazione, la pena è aumentata della metà. Per contrastare queste presunte fake news, il governo turco ha iniziato a pubblicare un bollettino di news settimanale: l’obiettivo sarebbe quello di compensare tali notizie false con notizie approvate dal governo.
La Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa ha sottolineato che la legge potrebbe essere usata per influenzare la popolazione proprio in vista delle elezioni presidenziali: «la vaga definizione di “disinformazione” e la relativa minaccia di detenzione potrebbero avere un effetto spaventoso sulla libertà d’informazione in Turchia». C’è il rischio che questo dia vita a casi di autocensura tra giornalisti e comuni cittadini. La parte più contestata da parte dell’opposizione è l’articolo 29 della legge sulla disinformazione, che prevede 3 anni di carcere per giornalisti e utenti di internet che siano autori di contenuti che possono «creare paura e turbare l’ordine pubblico». Lo scorso 4 marzo, il giornalista Sinan Aygül è stato condannato a 10 mesi in carcere per aver «disinformato il pubblico» con il suo reportage sull’abuso sessuale di una quattordicenne da parte di alcuni poliziotti. Ad ottobre 2022, durante il dibattito prima dell’approvazione della legge, il deputato del CHP (Partito Popolare Repubblicano) Burak Erbay ha tirato fuori uno smartphone e ha iniziato a martellarlo. «Vi rimane solo una libertà: il telefono in tasca», ha detto, «Se la legge passa in parlamento, potete rompere il vostro telefono e buttarlo. Non vi servirà più a nulla».
Strategia politica
Non è un caso che questa censura si verifichi in concomitanza con la preparazione per elezioni politiche previste per il 14 maggio. Dopo il colpo di stato fallito del 2016, Erdoğan governa il paese in maniera estremamente autoritaria. La riforma costituzionale del 2017, che elimina la carica del primo ministro e attribuisce alla presidenza enormi poteri anche in campo giudiziario, è solo un esempio. Ma il consenso per Erdoğan sta calando, e sempre meno cittadini sembrano credere alle promesse del governo. Di fronte alle dichiarazioni sulla recente “catastrofe inevitabile”, moltissimi hanno denunciato online la mancata preparazione dello stato rispetto a simili eventi. La Turchia è un’area fortemente sismica, e alcune personalità vicine allo stesso governo hanno affermato che i 20mila morti di febbraio sono stati causati dalla politica e non dalla catastrofe naturale. Queste affermazioni derivano dalla dibattuta amnistia edilizia dichiarata nel 2018, per la quale le costruzioni fatte senza certificati di sicurezza erano state legalizzate. Moltissimi di questi edifici sono crollati nel recente terremoto, e il governo turco, in uno slancio d’ipocrisia, sembra essersi attivato per perseguire coloro che li hanno costruiti senza tener conto di alcun principio di sicurezza. Questo è il caso dell’arresto di Mehmet Yaşar Coskun, al quale era stato proibito di lasciare il paese in quanto responsabile della costruzione delle Rönesans Rezidans ad Antiochia, collassate durante il terremoto.
Nonostante le promesse, il terremoto potrebbe cambiare le aspettative di Erdoğan di estendere il suo governo di un terzo decennio con le elezioni del 2023. Infatti, lo stesso tipo di propaganda edilizia portato avanti nel 2018 è stata reiterato nelle ultime settimane proprio a fronte del terremoto nel sud-est turco. La promessa, questa volta, è quella di ricostruire tutti gli edifici entro un anno, con lo scopo di raccogliere maggiore consenso per le elezioni. Temendo l’opposizione, Erdoğan sa che la gestione dell’emergenza, o se non altro la sua narrazione mediatica, è la chiave del suo destino politico. Per questo motivo, il presidente ha visitato le aree colpite dal sisma e ha annunciato lo stato di emergenza per tre mesi nelle dieci province più colpite al sud del paese.
Nonostante il tono allarmista, lo stato di emergenza nel sud-est turco non è niente di nuovo. Infatti, la zona corrisponde in gran parte con il Kurdistan turco, che è in stato di emergenza dagli anni Ottanta per via del conflitto curdo-turco, se non per via di brevi interruzioni tra i primi anni 2000 e il 2016. Con il colpo di stato del 2016, lo stato di emergenza è stata una politica messa in atto sempre più spesso, con lo scopo non tanto di proteggere la popolazione quanto di sospendere i diritti dei cittadini e le libertà fondamentali. Aram riferisce che lo stato di emergenza permette di reprimere con più facilità i gruppi di opposizione, chiudendo associazioni e limitando l’azione delle ONG presenti sul territorio. Secondo quanto riporta dalla sua esperienza sul campo, è sempre più frequente il rimpiazzamento di un funzionario pubblico eletto a livello regionale con un funzionario governativo vicino alla cerchia di Erdoğan. L’obiettivo finale è il controllo tanto della regione quanto dell’emergenza, facendo in modo che la gestione del terremoto sia solamente in mano ad AFAD e alla Metre Kızılay (Mezzaluna Rossa), enti che secondo varie fonti di fatto si trovano sotto il controllo di Erdoğan.
Quindi, Erdoğan sta strumentalizzando la gestione di questa emergenza in vista delle elezioni. Le regioni filo curde e anti-governative sono state estremamente penalizzate nei soccorsi, nonostante si trovino vicino all’epicentro del terremoto: il 7 febbraio l’HDP (Partito Democratico dei Popoli) di Patnos, nel Kurdistan turco, ha twittato che il loro veicolo di soccorso diretto verso una zona colpita è stato sequestrato dall’ufficio del governatore distrettuale. Aram riferisce che città a maggioranza curda come Kahramanmaraş, Elbistan e Adıyaman, che sono state fortemente colpite, inizialmente non hanno ricevuto alcun tipo di aiuti; lo stesso è valso per altre città a maggioranza curda o araba. Varie fonti hanno riportato questa mancanza di soccorsi, e il governo è intervenuto con una campagna di spopolamento delle zone per aiutare i civili a trasferirsi verso aree più sicure.
Ad oggi è difficile predire come questi fatti influenzeranno le elezioni di maggio, soprattutto se si considera il consenso in calo nei confronti di Erdoğan. La settimana scorsa i tifosi delle squadre di calcio Fenerbahce e Besiktas hanno protestato contro il governo: durante le partite, hanno lanciato in campo giocattoli raccolti per i bambini colpiti dal terremoto, urlando per le dimissioni del governo. Di fronte alle proteste, il Ministro degli Interni Süleyman Soylu ha dichiarato: «Se qualcuno vuole fare politica, ci sono le elezioni […] chi vuole trasformare lo sport in un’arena politica dovrebbe prestare attenzione agli sforzi dello Stato, della nazione e della società civile». Nonostante la tensione politica tra le forze governative e le forze di opposizione, è certo che lo stato di emergenza, la divisione interna all’opposizione stessa e la legge sulla disinformazione indeboliscono la resistenza al regime, già provata da decenni di autoritarismo.
Articolo di Lucia Bertoldini e Federica Carlino