Come l’export di armamenti italiani all’Egitto viola legge e diritti umani

04/08/2020

Più di un mese fa, il governo italiano ha dato il via libera alla vendita di due fregate Fremm all’Egitto, la “Emilio Bianchi” e la “Spartaco Schergat”. La cessione delle due navi, inizialmente destinate alla Marina militare italiana, potrebbe essere in realtà parte di una commessa ancora più grande per un valore tra i 9 e 11 miliardi di euro: comprenderebbe altre 4 fregate, 20 pattugliatori d’altura di Fincantieri, 24 caccia Eurofighter Typhoon, un satellite di osservazione e 20 velivoli di addestramento M-346 di Leonardo S.p.A. L’accordo tra Roma e Il Cairo è spesso chiamato “la commessa del secolo”: sarebbe export di armamenti ottenuto dall’Italia dalla fine della Seconda guerra mondiale e la più importante mai conclusa dall’Egitto.

La vendita degli armamenti è stata criticata su vari fronti, sia legali che politici, poiché non rispetterebbe alcune disposizioni della legge 185 sull’esportazione delle armi e aggiungerebbe legna al  fuoco repressivo del governo egiziano. La sua viabilità è stata perciò discussa alla Camera dei deputati il 13 giugno. Durante l’interrogazione parlamentare, il ministro degli Esteri Luigi di Maio ha riferito che le valutazioni sulla commessa “sono ancora in corso”. Ma la rassicurazione non regge su alcuna base solida, dato che difficilmente il governo italiano logorerebbe le relazioni commerciali con il suo principale destinatario dell’export di armi. Solo nel 2019, l’Egitto ha infatti acquistato armamenti italiani per il valore di 871 milioni.

Il settore fruttifero dell’export di armamenti

La controversia egiziana rientra nella generale ambiguità della politica esportativa militare. Come fa notare Michele Nones, vicepresidente dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), durante l’intervista per Scomodo, «il flusso delle esportazioni militari scorre tra due rive: da una parte la logica del controllo delle esportazioni per evitare che finiscano nelle mani sbagliate, dall’altra il sostegno delle esportazioni, totalmente l’opposto, per delle ragioni strategiche e militari legate ad esempio ai costi di produzione dei sistemi d’arma (più aumenta la produzione più scende il costo unitario e quello della manutenzione successiva). Nel caso italiano la contraddizione tra queste due logiche di controllo e sostegno presenta un ulteriore elemento di ambiguità: lo Stato italiano è azionista della Leonardo e Fincantieri, due grandi aziende dell’industria militare, mentre dovrebbe essere solo il regolatore del mercato.» Il Ministero delle Finanze e dell’Economia italiano è infatti il principale azionista delle due imprese, detenendo il 30% della prima e quasi il 60% della seconda. Lo Stato è così giudice delle sue stesse azioni, in conflitto d’interessi tra il guadagno e la supervisione. Beneficiando dello sviluppo della Leonardo S.p.A e della Fincantieri, difficilmente limiterà la loro produzione, soprattutto se il suo valore può raggiungere gli 11 miliardi di euro.

In più, l’export di armamenti è un settore fruttifero per l’Italia, nona al mondo nel campo. Nel 2019 la vendita di materiale bellico italiano ha raggiunto la quota di 5,71 miliardi di euro, di cui il 62,7% verso Paesi non appartenenti all’Unione Europea. Il dettaglio quasi “divertente” è che il principale destinatario dell’export di armamenti dell’Italia sia l’Egitto, che nel conflitto armato in Libia dovrebbe essere suo avversario. Quella che a primo impatto sembrerebbe una svista conferma in realtà l’univocità dell’interesse del governo italiano in Libia a sfruttarne le risorse e la posizione strategica, senza veramente tentare di “portare pace” nel territorio.

Le violazioni dei diritti umani e della legge 185

Come per l’export di materiale bellico italiano avvenuto negli anni precedenti, il comunicato della maxi-commessa ha suscitato l’indignazione di molte organizzazioni per i diritti umani e per il disarmo. In particolare, Amnesty International, Rete Disarmo e Rete della Pace hanno lanciato l’iniziativa #stoparmiEgitto, chiedendo “al Governo di bloccare qualsiasi ipotesi di export di armamenti all’Egitto di al-Sisi” e di dar vita ad un “dibattito aperto e chiaro in Parlamento” sulla controversia. «La legge 185 prevede che in caso di circostanze eccezionali il Parlamento debba essere obbligatoriamente coinvolto quando si tratta di autorizzazioni all’export di armamenti. Il caso eccezionale di specie è il fatto che le due fregate in questione fossero originariamente destinate alla Marina italiana, quando improvvisamente è cambiato il destinatario» dichiara il portavoce di Amnesty International Italia Riccardo Noury alla redazione di Scomodo. «La decisione è stata presa in maniera non trasparente in una riunione notturna del Consiglio dei ministri. Per questo la campagna #stoparmiEgitto pretende ancora un passaggio parlamentare. Se non ci sarà, stiamo pensando alla possibilità di ricorrere ad un giudice che deciderà se il governo avrà violato la legge 185. Al di là del fatto che il governo italiano ha mandato le armi ad un Paese che presenta un grave violazione di diritti umani e che si trova in pieno conflitto libico».

Negli ultimi anni, infatti, l’Egitto si è distinto per una serie di pesanti violazioni dei diritti umani che hanno colpito anche il cittadino italiano Giulio Regeni e lo studente egiziano all’Università di Bologna Patrick Zaki. La repressione del governo egiziano del presidente al-Sisi nei confronti della popolazione è in contrasto con la legge 185, in quanto quest’ultima prevede espressamente il divieto per l’Italia di esportare armamenti e sistemi militari “verso i paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani” (art. 1, c. 6c). La “maxi-commessa” viola anche il comma 6b dell’articolo 1 della legge 185. Con questo accordo commerciale, l’Italia vende infatti armamenti ad un Paese “la cui politica contrasta con i principi dell’articolo 11 della Costituzione” (art. 1, c. 6b, legge 185), che “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli” (art.11, Costituzione). L’Egitto si presenta come tale: basta pensare al suo appoggio verso il generale Haftar nel conflitto libico e il suo coinvolgimento nel conflitto dello Yemen.

Secondo Nones, invece, per influenzare l’Egitto e pressare sulla tutela dei diritti umani, l’Italia dovrebbe mantenere i rapporti commerciali con al-Sisi. «Bisogna far emergere in Egitto la parte sana, influenzando il Paese dall’interno. Ad esempio, favorendo l’interscambio universitario per rendere gli studenti o professori egiziani testimoni di un diverso modo di vivere. Credo molto nella connessione di carattere culturale. Questo vale anche per i militari egiziani, entrando a contatto con quelli italiani. Alla lunga influenzeremo di più l’Egitto in questo modo che non con un atteggiamento di chiusura. Per altro, le sanzioni non sono quasi mai servite, se non stabilite dalla comunità internazionale.»

Se l’Italia decidesse di non procedere con la commessa, purtroppo, altri Paesi potrebbero sostituirla. «Se la domanda è presentata ufficialmente da una società italiana ed è respinta, scatta il sistema europeo definito dalla Posizione Comune europea sull’esportazione a Paesi terzi. Per evitarlo gli Stati membri preferiscono scoraggiare le imprese dal presentare la domanda quando la risposta è presumibilmente negativa» afferma il vicepresidente dell’IAI. «In ogni caso gli altri Paesi devono poi semplicemente comunicare allo Stato membro coinvolto che intendono procedere ad una esportazione precedentemente negata. Se decidono di proseguire, devono fornire a tutti gli Stati membri le ragioni per cui continuano. Il sistema funziona se si tratta di un Paese a rischio, ma sono convinto che gli altri Stati membri non condividerebbero le nostre ragioni legate al solo caso Regeni (gravissimo per noi, ma solo sul piano etico, non su quello strategico). Se fossero stati solidali, lo avremmo già visto in questi anni. La verità è che dopo aver annunciato la vendita delle navi, un tardivo rifiuto italiano porterebbe ad una reazione imprevedibile da parte egiziana.» Il Ministero degli Esteri, responsabile delle autorizzazioni, avrebbe dovuto quindi bloccare la transizione in partenza. La decisione, per quanto “ancora in corso” come dichiarato da Di Maio, è stata presa tempo fa. Senza consultare il Parlamento discutere con trasparenza, consapevoli di ciò.

Cambiare la legge 185?

È forse troppo tardi per le scuse, ma non ancora per evitare controversie simili in futuro. Secondo Noury, è necessario migliorare l’applicazione della legge 185, che controlla minuziosamente l’export italiano degli armamenti. «La legge 185 è molto importante. E la sua importanza sta nelle varie occasioni in cui è stata violata. Le norme importanti si ricordano più per la loro violazione clamorosa che per altro. Va migliorata nella sua applicazione, cioè nella capacità delle autorità competenti di fornire informazioni con chiarezza, trasparenza, puntualità, sottoporle al Parlamento in maniera comprensibile. Rispetto alla questione egiziana, la mancata comunicazione tra il governo e il Parlamento è un punto dolente enorme.»

Secondo Nones, invece, «la 185 non è una buona legge. Lo dimostra anche il caso Regeni. È nata durante la guerra fredda, è vecchia. Non è mai stata cambiata tranne che per adattarsi ad un regolamento europeo. Non ha tenuto conto che dopo la fine della guerra fredda è nato un mondo multilaterale. Io sono favorevole alle leggi di carattere generale e poi ai regolamenti attuativi perché sono più snelli e possono più facilmente essere cambiati. O una legge è completamente generale poiché afferma principi sempre validi oppure, se specifica, deve evolversi. Dobbiamo avere il coraggio di cambiare la 185. Nel gennaio del 2000 il governo D’Alema ha approvato in Consiglio dei ministri un disegno di legge di riforma completa della 185. Al tempo lavoravo come esperto alla presidenza del Consiglio dei ministri. È possibile che se vent’anni fa il governo ha avuto il coraggio di affrontare un tabù come quello della legge 185 ora sia ancora considerata una questione intoccabile? Bisogna ragionarci su in maniera seria e trasparente e pensando alle conseguenze dei cambiamenti con l’obiettivo non di impedire ma controllare le esportazioni. La legge è basata su controlli ex-ante (prima e non dopo la vendita), esclusivamente burocratici. Bisogna anche controllare ex-post dove finiscono gli armamenti, come fanno gli altri Paesi moderni. È anche necessario cambiare le sanzioni, devono essere credibili. Se troppo estreme, nessuno ci crederà. La legge italiana dice ad esempio che un’impresa che incorre in una sanzione per quanto riguarda la vendita delle armi deve essere cancellata dal registro delle imprese. Non sarà mai applicata. È come se uno Stato dicesse di avere solo la bomba atomica per proteggersi. Tanto vale non averla, perché non la lancerà mai. Devi avere un ventaglio di strumenti dal piccolo al più grande da usare tenendo in considerazione lo scopo e la gravità della situazione. L’ultimo punto: è possibile che in Italia non ci sia un comitato di ministri che discuta delle grandi scelte di politica esportativa militare? Deve esserci formalmente un consiglio di ministri competenti che si assuma la responsabilità delle decisioni».

La lezione da trarre

L’accordo tra Italia ed Egitto è solo la punta dell’iceberg delle violazioni della legge 185, emersa, per fortuna o sfortuna, a causa delle precedenti relazioni tra i due Paesi. Senza un carico pendente come quello del caso Regeni, probabilmente, la notizia sarebbe passata quasi del tutto inosservata. Invece, quella che di fatto si rivela come trattativa sottobanco (laddove la legge per l’export di armamenti preveda la discussione parlamentare per un caso così sensibile) ha rilevato la tendenza a bypassare del tutto l’organo di rappresentanza per eccellenza. Il che, forse, apre uno spiraglio di possibilità nel sensibilizzare l’opinione pubblica a proposito di violazioni così rilevanti della legislazione in materia del commercio delle armi. Oltre che, possibilmente, della posizione che l’Italia mantiene nei confronti della guerra “come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

 

Articolo di Elena D'Acunto