Come lottare, secondo Gherardo Colombo: tra giustizia e politica

Come lottare, secondo Gherardo Colombo: tra giustizia e politica.

Gherardo Colombo, classe 1946, è stato il volto di una generazione. Ex magistrato, giurista e saggista, ha visto e fatto la storia d’Italia, collaborando ad inchieste celebri quanto drammatiche per il nostro paese: la scoperta della Loggia P2, il delitto di Giorgio Ambrosoli, i fondi neri dell’IRI, il Lodo Mondadori, oltre alla nota Mani Pulite. Queste, insieme alle sue esperienze come consulente per la Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo (1989-92) e sulla mafia (1993), lo rendono uno dei maggiori esperti dei lati più oscuri d’Italia.

 

In questa lunga intervista, incentrata sull’impegno civile, ci racconta cosa, secondo la sua esperienza, sta alle origini delle difficoltà del nostro paese, ripercorrendo attraverso diverse vicende l’importanza della lotta in un contesto di imperante prevaricazione personale. 

 

Lei ha indagato i meandri più oscuri dello stato Italiano: la mafia, la loggia P2, l’omicidio Ambrosoli, i fondi neri dell’IRI. Se dovessimo vedere tutti questi come sintomi di un sistema malato, quale dovremmo identificare come il male principale?

 

È abbastanza difficile da dire. Secondo me, sono tutti bene o male figli della stessa cultura: la cultura del rifiuto di riconoscere la dignità dell’altro. Cioè una concezione tradizionale di società secondo cui si sta insieme attraverso un ordine gerarchico, secondo il quale chi sta in alto comanda e chi sta in basso invece obbedisce, chi sta in alto può e chi sta in basso deve. Le regole di una società del genere passano attraverso la liceità sostanziale – anche se magari le leggi dicono il contrario – di usare i mezzi più svariati per mantenere la propria posizione di vetta e gli altri in sudditanza. La mafia opera perseguendo proprio questa idea di fondo: o comando io o ti anniento. È un’idea che sta alla base della filosofia delle associazioni segrete e della corruzione. Si tratta di molti mezzi diversi, di cui è impossibile fare una graduatoria, ma il cui fine è sempre lo stesso: quello di escludere l’altro. Lei ha letto “Il Grande Inquisitore”? È un capitolo dei Fratelli Karamazov, e secondo me, letto e meditato, dà la possibilità di capire tante cose.

 

Molti giovani sono nati dopo che tutti questi ‘mali’ sono emersi, e conoscono fenomeni come Tangentopoli quasi “per sentito dire”. Quant’è importante conoscerli per capire la cultura politica italiana di oggi, li si può dire ormai superati?

 

Noi abbiamo bisogno di sapere da dove veniamo, e di conseguenza abbiamo bisogno di sapere quel che è successo. Perché siamo così, oggi: proprio perché sarà successo qualcosa ieri. Allora andiamo a vedere cosa è successo ieri, e ieri è successo questo. Ma perché è successo questo? Perché l’altro ieri è successo quest’altro, eccetera eccetera eccetera. Il presente si può vivere completamente solo conoscendo il passato, e il futuro può essere progettato in modo appropriato solo conoscendo il passato. È impossibile altrimenti, tant’è che si rischia di cadere nella trappola dell’oblio del passato che porta inevitabilmente ad usare gli stessi metodi che si cercano di contestare. Operare in segreto vuol dire imbrogliare la gente, scaricare versioni di latino da internet vuol dire imbrogliare la gente: vedi che c’è un filo logico, no? Purtroppo è molto facile cadere nella cultura della prevaricazione. È molto facile perché lo stare insieme secondo quel modello risale a chissà quanto tempo fa. In Italia quando si è proposto il referendum, se continuare a vivere in una monarchia o se invece cominciare a vivere in una repubblica, tantissime persone hanno dimostrato di preferire essere sudditi piuttosto che cittadini.

 

Che cos’è mancato, nella storia del nostro Paese, che ha impedito il superamento di questa cultura?

 

Secondo me la cosa importante è la formazione: il riflettere, l’approfondire, il cercare di capire quali sarebbe opportuno che fossero le regole per stare insieme. La nostra Repubblica nasce dopo vent’anni di fascismo, che bene o male era più che supportato dagli Italiani. Sono vent’anni di conferma esasperata di una cultura che esisteva già prima: il fascismo è stato un’esasperazione, non un cambiamento rispetto a quello che esisteva prima. Prima c’erano persone che sulla carta d’identità avevano scritto “professione: benestante” o “professione: possidente”, e quel possidente voleva dire “non faccio niente e c’è qualcun’altro che lavora per me”. Anche per questo nella costituzione c’è scritto che “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, non sulla rendita: sta qui la vera rottura col passato, il tentativo di superare la cultura della prevaricazione.

 

E lei, davanti a tale cultura, come ha mantenuto la forza, l’integrità, per riuscire a lottare in nome della giustizia?

 

Io credo che sia necessario guardarsi dentro, magari grazie ad un aiuto dall’esterno, che può essere la lettura, le esperienze personali. È necessario avere un atteggiamento notevolmente critico, e pensare “Io cosa ci sto a fare qui? Mi sta bene quello che succede oppure no? Sono d’accordo o non sono d’accordo?”, e se, come me, pensi che sarebbe una bella cosa che ciascuno di noi avesse le stesse possibilità degli altri, allora ci si dovrebbe impegnare. Senza tener conto tanto della possibilità di raggiungere il risultato, perché poi magari risultato lo si ottiene dopo generazioni. È successo, quante volte è successo, per esempio con l’emancipazione del genere femminile: siamo ancora sulla strada, però di passi ne sono fatti. E magari questi passi, come il suffragio universale che arriva in Italia nel 1945 e si manifesta concretamente nel ‘46, hanno delle radici che risalgono a secoli prima. Nel 1789, la rivoluzione francese – un secolo e mezzo prima – aveva ancora come presupposto l’idea che cittadini potessero essere soltanto soltanto i maschi. Io sarei folle se mi aspettassi che quello che sto facendo oggi possa dare i suoi frutti domani. Voi siete giovani e avete poche esperienze, che è un vantaggio per certi versi: permette di non disilludersi, per esempio, di avere un entusiasmo maggiore di chi ha un’età come la mia, perché di cose se ne vedono tante. Voi siete nelle condizioni di poter fare dei passi che 50 anni fa non si facevano.

 

Parlando appunto di progresso, il suo ex-collega Antonio Di Pietro sostiene che in realtà la tangente oggi non è meno comune, ma è stata “ingegnerizzata”. Cioè la corruzione oggi avviene tramite scambi di favori e complessi passaggi economici e legali, che hanno reso le tangenti ancora più invisibili e difficili da dimostrare. E’ d’accordo?

 

Sì, questo succede, ma capita ancora che delle persone vengano colte con mazzette di contanti. Dipende dai livelli: consulenze fittizie, fatture false per operazioni inesistenti, erano tutte cose esistevano anche allora. Per esempio, noi avevamo trovato disponibilità occulte all’estero, anche di somme notevolissime con cui si facevano scambi di favori che passavano attraverso delle operazioni bancarie.

 

Da questo punto di vista, in un’epoca di crescente globalizzazione anche finanziaria che sta permettendo una crescente “evasione legale”, lei è preoccupato per la tenuta dello Stato?

 

Io sono preoccupato perché è stato cancellato il valore della competenza, il fatto che per saper fare le cose bisogna di studiare e fare esperienza nella vita. Questo mi preoccupa tantissimo, perché se manca la competenza allora poi non si è capaci di usare strumenti adeguati allo scopo, e questo è un problema grosso. Poi tutto il resto viene sostanzialmente di conseguenza: se noi continuiamo per esempio a pensare che il problema della trasgressione si risolve attraverso il rendere le leggi più severe, l’introdurre sanzioni per qualsiasi comportamento, allora magari siamo sulla strada sbagliata.

 

Nota questa mancanza di competenza anche nel dibattito – ancora molto attuale – tra giustizialisti e garantisti, anche all’interno del governo?

 

I presupposti del dibattito attuale, le fonti di pensiero che ne costituiscono le linee guida, sembra che siano incuranti dell’efficienza e dell’effettivitá degli argomenti che producono in vista del raggiungimento di un determinato risultato. Per esempio, chi pensa che sia giusto retribuire col male chi ha fatto del male, ma non gli importa prevenire: perché l’importante è che il male sia punito con il male. C’è invece chi pensa che sia necessario prevenire, e che il carcere sia lo strumento giusto per questo – al di là dell’osservazione di qualsiasi numero, di qualsiasi statistica, di qualsiasi conseguenza. Allora nel primo caso è inutile parlarne, oppure il discorso deve essere preso a livello filosofico (perché se si pensa che sia giusto punire per punire quella filosofica è l’unica discussione percorribile). Poi c’è chi pensa, io credo anche sinceramente, che la pena sia giusta in quanto tale, e però siccome gli sembra sconveniente dirlo, magari anche a livello sub-coscienziale, allora dice che la pena serve anche a prevenire, camuffando con la prevenzione una convinzione retribuzionista. Ci sono invece tanti che pensano che la pena abbia effettivamente una funzione preventiva: nei confronti di questi ultimi sarebbe necessario ragionare sulla relazione che esiste tra lo strumento e la scopo, per andare a vedere se la recidiva è inferiore quando vengono applicate sanzioni alternative al carcere, se la formazione riduce la recidiva, e se questa diminuisce anche se si cura la dignità di chi ha commesso un reato. Io penso che varrebbe la pena anche fare una riflessione per esempio sul perché la mafia ha ucciso Pino Puglisi. Lui era parroco a Brancaccio, un quartiere di Palermo, e lavorava proprio sotto il profilo educativo: questo dava fastidio, credo, ancora di più dell’aspetto repressivo. Tante persone sono state uccise perché interferivano con la mafia proponendo un modello culturale diverso, e mostrando che questo modello è praticabile.

 

Quindi una strategia per far evolvere il sistema dovrebbe basarsi sia su dati quantitativi che su discorsi culturali?

 

Ho scritto un libro che si chiama Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla su questi temi, in cui faccio un discorso su tre livelli. Il primo livello è quello speculativo, “filosofico”: è giusto retribuire il male con il male? Il male più male fa zero male o doppio male? Il secondo è un livello “costituzionale”: la nostra costituzione dice che tutte le persone sono degne tanto quanto le altre, ragion per cui le loro caratteristiche personali non possono creare discriminazione. Terzo, un livello “pratico”, dell’utilità o inutilità rispetto alla finalità: il carcere evita che le persone trasgrediscano? Sono tre aspetti che vanno tutti considerati ugualmente: non possiamo essere tutti utilitaristi. Sono stati gli utilitaristi, Jeremy Bentham nello specifico, a inventare il Panopticon, quel carcere veramente oppressivo in cui puoi essere osservato in ogni momento senza vedere chi lo osserva. Non possiamo solamente pensare all’utilità dello strumento, dobbiamo prima sapere qual è lo scopo: lo strumento può essere utile in relazione a un determinato scopo. Allora dobbiamo prima individuare lo scopo: che cos’è giusto? Che è una domanda molto difficile. È giusto far soffrire chi ha sofferto? La vendetta è un desiderio positivo o negativo?

 

Forse è proprio nella risposta a questa domanda che capiamo cos’è il progresso.

 

Direi di sì. Per esempio, riflettiamo un attimo sulle esperienze, perché sono le esperienze quelle che ci dicono dove andare: quando siamo piccoli succede che la mamma o il papà ci dice di non passare vicino al fornello quando c’è la pentola che bolle perché magari si rovescia e ti scotta, e noi piccolini ci passiamo e non ci importa niente, fintantoché salta fuori una goccina che ci casca sul naso e ci scotta, e allora non ci passiamo più, perché ne abbiamo fatto esperienza. Noi le esperienze le facciamo personalmente, ma ci avvaliamo anche delle esperienze degli altri: la scuola dovrebbe essere esattamente il luogo in cui ci si avvale delle esperienze degli altri – sotto tutti i profili, quello tecnico, scientifico, e anche emotivo (per questo studiamo la letteratura, la musica).

 

Perciò per certi versi, essere giovane oggi, senza aver mai conosciuto la fame o la guerra, implica una maggiore responsabilità?

 

Certamente. C’è una differenza enorme tra me e i miei figli proprio sulla considerazione delle cose. Io sono nato in una famiglia modesta, senza particolari problemi (mio padre era un medico), eppure allora c’era una cultura del non sprecare, che mi è rimasta. Quando io avevo 14 anni anche in casa mia, non che il bisogno fosse impellente, ma succedeva che allungavi il cappotto, rivoltavi la giacca, ma adesso ce le sogniamo queste cose. Pensi adesso quante cose buttiamo via, quante cose vengono fatte essendo destinate ad essere buttate. È una cultura diversa, che dipende proprio dal fatto che ci si è liberati dal bisogno e allora non ci si pensa più. Facciamo così, lei legga “Il Grande Inquisitore”, capitolo quinto dei Fratelli Karamazov, ci rifletta per una quindicina di giorni, lo rilegga, e poi facciamo un’altra intervista, su questi temi, dopo che lei ha acquisito questa esperienza.

 

Ringraziamo Giulia Selvaggi (twitter @giuliaselvaggi2) per aver reso questa intervista possibile.

Articolo di Raffaele di Tria