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Come sono cambiate le carceri italiane con il Covid-19
Questa emergenza sta portando a galla tutto ciò che il nostro paese ha sbagliato negli ultimi anni, dai tagli in sanità, a una burocrazia immobile, fino al grande classico dei nostri scheletri nell’armadio: il carcere.
Le nostre carceri sono sovraffollate, e questa non è certo una novità. Lo abbiamo sempre saputo, dall’indulto del 2006, da quando nel 2010 emerse la cosiddetta “emergenza carceri”. Da quando la corte Europea dei diritti dell’uomo tre anni dopo ci ha condannati con la sentenza Torreggiani ad un risarcimento a carico dello stato italiano di 110.000€ perchè «La grave mancanza di spazio sperimentata dai sette ricorrenti per periodi variabili costituiva di per sé di un trattamento contrario alla Convenzione per cui “ogni prigioniero deve essere detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana”, come del resto richiede anche l’art. 27 della nostra Costituzione.
Lo sapevamo insomma, ma lo abbiamo dimenticato
Il carcere è un argomento scomodo, sebbene il dibattito venga incessantemente portato avanti da diverse voci “storiche”, come quelle dell’associazione Antigone e dei Radicali, la maggior parte delle altre realtà politiche lo evita per non perdere consensi. Occasionalmente se ne torna a parlare, sempre in momenti di emergenza come quello odierno, ma si rischia di viziare il dibattito con una visione distorta di cos’è il carcere, di chi lo vive e di cosa ruota intorno agli istituti, ma soprattutto il rischio è di spersonalizzare i numeri da cui veniamo sommersi. Il 120% di sovraffollamento di cui oggi si parla non è retorica, dire che il numero dei detenuti a inizio Marzo era di 61.230 individui, a fronte di meno di 50.000 posti, significa che in una cella dove dovrebbero stare 5 persone arrivano ad essercene fino a 9, significa che tutti i servizi che ruotano intorno al detenuto, dai -rari- percorsi di risocializzazione all’assistenza sanitaria, sono tarati su un numero molto più basso di soggetti. Più in generale, carenza di spazi significa anche carenza di igiene e uno stile di vita che rende l’organismo più sensibile a patologie sia fisiche che psichiche, soprattutto in un contesto in cui il tempo si deforma e le comunicazioni sono estremamente limitate -10 minuti di telefonata a settimana e massimo 6 colloqui al mese.
Così contestualizzati, i dati sui positivi al COVID-19 – al 16 aprile erano 111 detenuti e 200 agenti di polizia penitenziaria – assumono una portata decisamente diversa e preoccupante.
L’intervento del decreto “Cura Italia”
Il decreto legge 18/2020 attualmente in conversione interviene sul provvedimento inserito dalla legge Alfano nel 2010, per cui si può scontare a casa l’ultimo anno e mezzo di pena, rendendo più agevoli i passaggi burocratici, ma si nega la possibilità di accedervi a chi è sospettato di aver partecipato alle Sommosse di Marzo e a chi ha subito sanzioni disciplinari.
Questa è già una prima scrematura, bisogna poi tenere conto del fatto che la detenzione domiciliare a norma del decreto “Cura Italia” è subordinata alla disponibilità dei braccialetti elettronici: seconda scrematura. Il governo dopo alcune pressioni ha previsto un piano per installare straordinariamente 300 bracciali a settimana per sopperire alla carenza. Insufficienza di mezzi comunque non giustificata considerato che il bando vinto da Fastweb nel 2017 per il valore di 7,7 milioni di euro l’anno prevedeva l’installazione di 1000 braccialetti al mese.
A tagli fatti gli istituti di pena al 16 aprile contavano 54.600 detenuti, circa 6.000 in meno rispetto al mese scorso. Risultato che però, a detta di chi opera nel settore, non sarebbe certo merito del nuovo decreto, quanto di un diverso atteggiamento della magistratura rispetto alle leggi già in vigore, spronata in via ufficiale anche dalla Cassazione.
La Suprema Corte infatti con un provvedimento del 1 aprile ha ribadito che “mai come in questo periodo dobbiamo ricordarci che il carcere costituisce una extrema ratio”, invitando a privilegiare ancora di più le misure alternative sia in fase cautelare che in fase di esecuzione della pena e incoraggiando gli stessi pm a proporre istanza per chi potrebbe accedere alla detenzione domiciliare. Non da meno ha deciso che l’assenza del braccialetto non deve essere di per sè ostativa all’uscita dal carcere.
Il decreto insomma ha cambiato ben poco le carte, anche a detta del CSM. Al Palazzo dei Marescialli, nonostante Nino di Matteo e Sebastiano Ardita – il primo togato indipendente, il secondo appartenente ad Autonomia e Indipendenza – parlino di “indulto mascherato”, la maggioranza del consiglio ritiene inadeguate le misure previste: devono uscire più detenuti. Anche per chi non ha una casa per i domiciliari “Lo Stato ha il dovere, in questa fase, di trovare delle strutture dove collocare temporaneamente i detenuti” secondo le parole del consigliere Cascini.
Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, si unisce alle risposte verso chi non vuole passi indietro sulla certezza della pena: “Ora abbiamo bisogno di pragmatismo, non di una politica che ha paura di arretrare di fronte ai detenuti. Certo che lo stato non può arretrare, ma qui non si tratta di un passo indietro, ma di una gestione sapiente della situazione.” Riguardo alle prospettive sulla conversione “noi abbiamo presentato una serie di emendamenti, ma dalle notizie che abbiamo il ministro Bonafede è irremovibile. Qualcuno sta spingendo per delle misure più incisive, dal PD ad esempio, ma anche lì le anime sono diverse ed è difficile.”
Uscire dal (sistema) carcere
In poche parole le misure degli articoli 123 e 124 del decreto si vanno ad inserire in una lunga lista di provvedimenti legislativi d’emergenza, cosiddetti “svuota carceri”. Per arginare situazioni emergenziali come questa si facilitano le uscite – peraltro con la detenzione domiciliare, misura che costa poco e non richiede uno sforzo di reinserimento – ma per guardare un poco più avanti ed invertire il trend non basta. Secondo Patrizio Gonnella “La crescita dei detenuti è andata aumentando perché non si è messo mano sulle cause dell’entrata. Serve una diversificazione del sistema sanzionatorio”, siamo ancora convinti che la detenzione sia la soluzione principale, ma è in realtà una extrema ratio.
La detenzione spesso non è una soluzione adeguata, a volte non lo è neanche la legge penale: se si guarda a chi abita i nostri istituti detentivi circa un terzo hanno violato il testo unico sulle droghe e una stessa frazione è rappresentata da stranieri. Di questi ultimi in particolare il 42% ha una pena inferiore ad un anno, la percentuale scende man mano che la pena si alza, fino ad un 6% delle condanne all’ergastolo, un dato che lascia intendere una minore possibilità di accedere alle misure alternative, in parte per il timore di una fuga verso altri paesi, ma fondamentalmente per l’assenza di un domicilio.
In carcere nella maggior parte dei casi entra, o meglio resta, chi ha un problema sociale, chi non ha una rete di supporto adeguata. “I fatti ci confermano quanto abbiamo sempre detto: che alle porte del carcere c’è una grande selezione sociale. Entra con molta più facilità il povero, perchè il ricco ha migliori strategie di sopravvivenza, ha la capacità di chiedere più facilmente le misure alternative, per cui va dimostrato al magistrato di avere una casa -e un campo rom non è considerato tale.” ci riferisce sempre Marietti.
Di fronte a questo, per una soluzione lungimirante la mano severa della legge penale non è il mezzo migliore, almeno non da sola, senza contare che molte condotte potrebbero essere più efficacemente disincentivate con sanzioni amministrative. Punire non basta, serve una rete sociale più efficace.
Serve un cambio di rotta più incisivo che ci faccia uscire dal sistema carcerocentrico, altrimenti non faremo altro che inseguire le emergenze di sovraffollamento. Basta vedere i dati dal 2010 ad oggi: siamo tornati quasi alle stesse cifre di sovraffollamento che avevamo prima della sentenza Torregiani.
Se andiamo ad analizzare il trend poi, notiamo due fatti curiosi. Innanzitutto, dal 2013 sono aumentati i soggetti in misura alternativa, ma di pari passo ha continuato ad aumentare la popolazione carceraria. In generale, l’introduzione e l’implementazione di misure di questo tipo può portare a due risultati diversi: o si pongono come reali alternative alla pena detentiva, e quindi si adottano queste piuttosto che quella, oppure si ha un fenomeno di net-widening. Significa che la crescita della popolazione detenuta continua a seguire il suo percorso e semplicemente si utilizzano i nuovi strumenti per allargare il controllo penale. In poche parole, detenzione domiciliare e affidamento in prova diventano misure alternative alla libertà.
Nel nostro caso, è evidente, la strada intrapresa è stata la seconda.
Il secondo dato curioso è la stessa crescita della popolazione carceraria, se si considera che la criminalità è diminuita sensibilmente, si parla del -9,5% di reati denunciati negli ultimi cinque anni. “L’andamento della criminalità evidenzia la distanza tra sicurezza vera e sicurezza percepita, tra delitti commessi e delitti immaginati.” si legge nel Quindicesimo rapporto sulle condizioni di detenzione di Antigone.
La risposta sanzionatoria è quindi sproporzionata rispetto alla reale esigenza di sicurezza e tende ad allargare le maglie del controllo penale fin dove è possibile, allontanandosi dal disegno costituzionale che la concepisce come extrema ratio.
Il carcere come un non luogo
La narrazione della criminalità e del carcere viaggia distante da quella che è la realtà dei fatti, e questo si riflette sull’adeguatezza delle leggi, non di rado adottate per generare consenso di fronte a fatti di cronaca e con poca conoscenza dei dati.
Talvolta questa distanza porta il legislatore a codificare soluzioni che nella pratica esistono già da diversi anni, ne è un esempio la parabola dei carceri minorili: la riforma del sistema penitenziario del 1975 riguardava solo gli adulti, con una norma transitoria che ne estendeva le misure anche ai minori, aspettando nell’immediato una riforma analoga per i minori. L’intervento legislativo è arrivato solo quarantatre anni dopo, ma nella pratica la visione del riformista del ’75 aveva già preso vita da più di vent’anni nel sistema della giustizia minorile, dove ad oggi su 13.000 controllati solo 350 sono in detenzione.
La vita in quei “non luoghi” che sono gli istituti di pena infatti il più delle volte segue la sua strada, complice la pressoché totale assenza di un intervento centralizzato. Il ruolo primario dello Stato da almeno tre secoli è il mantenimento del benessere e della tranquillità sociale, e in questo il carcere dovrebbe esserne la rappresentazione, ma finisce per essere paradossalmente il luogo dove lo Stato non c’è. Il risultato è un panorama a macchia di leopardo dove tutto è lasciato alla discrezionalità, sia questa del direttore penitenziario, dell’operatore di prossimità, del tribunale di sorveglianza. La coordinatrice nazionale di Antigone ci parla anche di tale problema, “Il direttore penitenziario è una sorta di dio in terra; ti determina se un carcere è chiuso o aperto e democratico, dipende dalla sua capacità al livello umano e imprenditoriale. Addirittura a volte dipende dal singolo operatore che tipo di galera uno si può fare e questo è veramente triste. Ed è tutto fuorché conforme agli articoli 3 e 13 della Costituzione.” Lo Stato non ha una strategia unitaria neanche per il fine risocializzante della pena, il cui perseguimento è lasciato alla buonanima dei volontari: “l’istituzione un po’ pachidermica, un po’ con poche risorse, un po’ incapace è ben contenta di lasciare che chi ha voglia gli levi le castagne dal fuoco, a maggior ragione se lo fa gratis.”
Le misure legislative non vanno neanche sottovalutate nella loro portata, sulla lunga distanza i cambiamenti normativi diventano cambiamenti culturali. Intervenire sul sistema penitenziario con una certa prospettiva, anche se con scarsa efficacia nel breve termine, incide sulla cultura degli operatori e su quanto la magistratura di sorveglianza si sente legittimata a concedere le misure alternative. Ne è stato un esempio la vicenda della giustizia minorile, e lo vediamo anche oggi quanto un messaggio di necessità possa incidere sulla realtà dei tribunali e dell’opinione pubblica. In questo quindi possiamo sperare: l’emergenza che oggi viviamo non ha portato grandi innovazioni legislative, ma la magistratura ha mostrato di saper cambiare atteggiamento in modo efficace, e forse anche la popolazione sta cambiando la percezione che ha degli istituti di pena. Allora vale la pena riportare alla luce la questione carceri nella sua complessità e andare a fondo sulle falle del nostro sistema, e su un modo diverso di concepire la pena, che possa addirittura non essere la detenzione. Vale la pena capire quali atteggiamenti delle istituzioni hanno permesso che si creasse una tale distanza dal modello che la costituzione dipinge. Vale la pena, per questo Scomodo ha deciso di dedicare l’intera sezione del “focus” di questo mese al grande dimenticato: il carcere.
Articolo di Chiara Falcolini