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La confusione condanna le Università nella sfida al Coronavirus
Il “migliore dei mondi possibili” non è quello degli universitari italiani nell’era del Covid-19
Gli studenti universitari italiani hanno dovuto fronteggiare diverse sfide imposte dall’emergenza: dapprima il grande esperimento della didattica online “auto-organizzata” senza distinzione della facoltà d’appartenenza o di ateneo, e poi la convivenza con quest’ultima. Alcune università italiane hanno predisposto per l’inizio dell’anno accademico 2020/2021 l’erogazione di quasi ogni corso in modalità da remoto. Altre, “le più coraggiose”, hanno invece predisposto servizi di prenotazione in aula per poter sostenere le lezioni dal vivo evitando l’accalcamento (o meglio, l’assembramento). Nella macro-categoria degli studenti universitari colpiti dalle conseguenze del coronavirus, ci sono delle sottocategorie degne di nota: gli studenti fuori sede, gli studenti affetti da DSA e coloro che hanno inserito nel proprio piano studi accademico un tirocinio curriculare da svolgere in presenza.
Coronavirus e Università
Il concetto complesso di vulnerabilità ci catapulta immediatamente nelle sue sfere d’azione per poterla comprendere: da una parte una dimensione individuale e propriamente umana e dall’altra, invece, la dimensione sociale. Entrambe intercorrono tra i binari comuni di fragilità e di debolezza, e le studentesse e gli studenti universitari italiani ne hanno dimostrato le conseguenze durante il viaggio dei tre mesi di lockdown sperimentato per la prima volta tra marzo e maggio di questo anno.
L’imprevedibilità di un avvenimento – quale è stata l’emergenza coronavirus – nella propria vita quotidiana costringe a confrontarsi con l’insicurezza della società in cui si vive, oltre che con la propria, individuale e intima. Paolo Raciti, pedagogista e ricercatore nell’ambito delle politiche sociali, afferma che la riflessione riguardo la vulnerabilità nella sua accezione di sociale possa interpretarsi come una «riduzione costante delle risorse necessarie a vivere tale condizione, e la contrazione delle capacità individuali e collettive necessarie a trasformare tali risorse in progettualità».
Di fatto, la vulnerabilità sociale emerge, si mette a nudo, quando si attua un indebolimento di tre sfere principali: il mercato del lavoro, la famiglia e il welfare state. La domanda dunque sorge spontanea: il Covid-19 non ha forse indebolito tutte le connessioni tra le tre sfere? Quali risorse e quale progettualità sono state messe in campo per il mondo universitario italiano post-lockdown?
Se il lavoratore fragile non è abbastanza
Considerato il concetto di vulnerabilità sociale, secondo le parole presenti all’interno della circolare n.13 interministeriale (emanata lo scorso 4 settembre) del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e del Ministero della Salute, il lavoratore fragile diventa una categoria sociale. In particolare, si afferma che «il concetto di fragilità va individuato in quelle condizioni dello stato di salute del lavoratore o lavoratrice rispetto alle patologie preesistenti che potrebbero determinare, in caso di infezione, un esito più grave o infausto e può evolversi sulla base di nuove conoscenze scientifiche sia di tipo epidemiologico, sia di tipo clinico. Con specifico riferimento all’età va chiarito che tale parametro, da solo, anche sulla base delle evidenze scientifiche, non costituisce elemento sufficiente per definire uno stato di fragilità nelle fasce di età lavorative». Si aggiunge, inoltre, che la condizione di fragilità non vada accertata tramite espediente clinico. Se la tutela normativa avviene nel mondo lavorativo, perché questo concetto di fragilità non può essere declinato anche per tutte e tutti coloro che frequentano gli atenei italiani?
Inoltre, il concetto di “studente fragile”, esonerato dall’obbligo di frequentare in presenza le lezioni per motivi di salute fisica, non sembra contemplare all’interno del sistema universitario quella parte di studenti che presentano difficoltà cognitive o emotive nell’apprendimento.
Nel Rapporto di Talents Venture, società di consulenza milanese volta al sostegno dell’istruzione universitaria, riguardante gli impatti del Covid-19 sugli universitari italiani si osserva una forte preoccupazione da parte della maggioranza degli studenti in merito alla qualità di una didattica poco inclusiva come quella da casa, invece molto apprezzata dagli universitari affetti da DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento). Per questo motivo ad ottobre 2020, con la ripresa delle lezioni in presenza per molte università, l’Associazione Italiana Dislessia non ha gradito le affermazioni di Francesco Sinopoli, segretario generale della FLC-CGIL (Federazione Lavoratori della Conoscenza), dettosi contrario all’utilizzo di videoregistrazioni per la didattica a distanza. Sinopoli aveva espresso il suo dissenso inviando una lettera ai Rettori delle Università italiane in cui contestava l’obbligo imposto da alcuni atenei di registrare le lezioni tenutesi didattica a distanza. Secondo il segretario la scelta di quale metodo didattico utilizzare dev’essere a discrezione del professore o, nel caso delle lezioni registrate e condivise online, limitata a una situazione emergenziale (quale è stato ad esempio il lockdown). Al contrario l’AID evidenzia come la didattica a distanza abbia giovato agli allievi con DSA e debba essere considerata uno strumento insostituibile per garantire loro il diritto a poter fruire dell’apprendimento con accorgimenti e mezzi adeguati attraverso la videoregistrazione obbligatoria non limitata alla sola emergenza attuale. B.B., pedagogista clinica, nell’illustrare a Scomodo la situazione, sottolinea quanto per uno studente con DSA possa risultare difficile e/o impegnativo seguire un percorso di studi universitario, sentendosi spesso scoraggiato in partenza dall’intraprendere il cammino verso la laurea. Il lockdown e, nello specifico, la didattica a distanza adottata dagli atenei italiani durante questo periodo ha dimostrato come un metodo d’insegnamento più inclusivo e adeguato alle necessità di coloro che hanno un disturbo dell’apprendimento possa essere un incentivo a proseguire gli studi dopo il diploma.
I tirocini in Università durante il Coronavirus
Gli studenti “fragili”, dunque, costituiscono una fascia ampia. In molte e molti, per il conseguimento di conoscenze e competenze inerenti al proprio percorso di studi, necessitano di esami e corsi in presenza.
Alessandra è studentessa di Medicina a Salerno, e racconta che «da febbraio a giugno non si è svolta alcun tipo di attività di tirocinio in presenza, soltanto online. A luglio si è sbloccato qualcosa, ma non più di tanto. Da poco ci è arrivata la comunicazione che sarebbero cominciati i tirocini online ma del quando-come-e-perché non sappiamo nulla. Il nostro corso prevede a partire più o meno dal terzo anno, per ogni esame, una quantità di numero di ore da dedicare al tirocinio che noi chiamiamo “FP”. Quindi, in pratica, in base al numero di crediti formativi ne consegue un numero di ore per il tirocinio. Il problema è che da febbraio non abbiamo fatto nulla, zero. Ovvero, le lezioni che si sarebbero svolte normalmente in presenza sono state ampiamente sopperite con la didattica da remoto che ha funzionato comunque bene. Per quanto riguarda i tirocini invece è un discorso pratico. Non potendo accedere al reparto, sono stati sospesi e non si è fatto nulla, e adesso ci ritroviamo a dover recuperare tutti i tirocini dell’anno scorso, oltre a quelli di quest’anno con, se va bene, il doppio delle ore. Io mi immedesimo anche nella difficoltà del docente nel portarsi il computer o il tablet in reparto o nelle stanze ai piedi dei pazienti, ti rendi conto che è una situazione piuttosto infattibile e non praticabile. Certo, aver saltato tutte queste ore di tirocinio non è stato un bene perché non è all’altezza dell’offerta formativa, anche se durante le ore di lezione comunque i professori hanno presentano dei casi clinici. Un poco di pratica te la fanno fare; certo che è diverso dall’entrare in reparto e vedere con i tuoi occhi cosa succede».
Denise, invece, è studentessa di Infermieristica a Catanzaro, ed è stata tra le studentesse a contattare Scomodo in prima persona, raccontando la sua personale esperienza riguardo al tirocinio necessario previsto per tutti i tre anni di studi. Ribadisce poi che a causa del lockdown ha avuto modo di intraprendere un’unica settimana di tirocinio perché, ironia religiosa a parte, nel suo settimo giorno di tirocinio l’intero Paese è stato “chiuso” e la sua università ha scelto di sospendere i tirocini fino a data da destinarsi, per salvaguardare studenti che per decreto ministeriale avrebbero potuto continuare la formazione. «Ci hanno lasciati in balia del niente: ci hanno dato delle slide da leggere da cui poi sviluppare dei casi clinici sui quali ci avrebbero valutati oralmente. Essendo noi matricole non avevamo neanche idea di cosa fosse un caso clinico. Il fatto di non svolgere una formazione pratica per noi infermieri è un grosso limite. Come ci hanno indirizzato non è andata bene e la preparazione ottenuta non è adeguata; non abbiamo imparato niente di quello che avremmo dovuto imparare».
Beatrice, studentessa di Scienze motorie (Asti), spiega a Scomodo la sua esperienza didattica e ciò che è stato fatto per sopperire all’impossibilità di “praticità accademica”. «Il nostro percorso di studi prevede molte materie pratiche, quindi eravamo noi a filmarci e inviare ai professori i video per far vedere che avevamo capito gli esercizi. L’unico modo era quello. Anche un esame che doveva essere sostenuto con la pratica è diventato un test riguardante delle domande plausibili su una qualche attività da svolgersi. Non avendo tuttavia ricevuto le basi per noi era impossibile avere un’adeguata conoscenza pratica». Riguardo al tirocinio prosegue Beatrice: «fortunatamente io avevo 250 ore da conseguire e le ho finite subito. Ho iniziato a settembre in una palestra di CrossFit, ho lavorato fino alle vacanze di Natale comprese e ho ripreso appena hanno riaperto le palestre, ma per i miei compagni che hanno fatto tirocinio nelle scuole… hanno bloccato tutto. Alcuni stanno recuperando adesso il tirocinio dello scorso anno di 250 ore congiuntamente a quello del terzo di 200 ore».
Data l’inadeguata risposta a tutte queste necessità diventa cruciale capire se e come siano stati applicati dei “metodi alternativi” per conseguire la formazione curricolare, e se la didattica possa essere stata efficace e adatta al conseguimento delle necessarie conoscenze e competenze.
Elisa, studentessa di Restauro e Conservazione per i beni culturali (Como), al terzo anno del suo percorso quinquennale, afferma che aldilà di alcuni corsi – quattro su undici in totale – rimandati al periodo estivo, la didattica svolta a distanza è stata adeguata, aggiungendo che: «Non si poteva fare altrimenti. Per esempio, la nostra professoressa di doratura ha provato a proporre due lezioni online, ma purtroppo per quel corso mancava la parte pratica. La professoressa ha fatto del suo meglio ma, se tu mi parli di una sostanza con una densità o un odore particolare, come faccio a percepirlo attraverso uno schermo?».
Mancanza di comunicazione
La percezione della tutela accademica tra le studentesse e gli studenti intervistati da Scomodo è stata univoca, e negativa.
Tra le varie critiche, viene sottolineata la poca chiarezza e comunicazione tra gli atenei e i propri ospiti universitari. A tal proposito Denise afferma che «adesso vociferano che il tirocinio sarà al 70% online e 30% in presenza. Non abbiamo ancora capito però come si possa tenere il tirocinio in presenza tutelando la salute degli studenti, visto l’aumento di casi di Covid-19». Inoltre, l’ateneo di Denise, così come altri, ha suggerito l’introduzione di una clausola riguardante gli studenti residenti fuori dalla regione che saranno esonerati dalle lezioni in presenza. Non solo, allo stesso tempo saranno esonerati dal tirocinio e «di conseguenza perdi l’anno. Perciò chi abita fuori dalla Calabria, che sia uno studente fragile o meno, viene discriminato e privato del proprio diritto da studente, non potendo sostenere il tirocinio di quest’anno. E dunque gli studenti, noi, mandiamo mail per lamentarci, per chiarire la situazione. Non tutti possono affrontare il viaggio, che sia per motivi economici, di fragilità, o per tutelare la propria salute e quella dei propri parenti. Ma non rispondono neanche alle mail, ci stanno probabilmente ignorando».
Articolo di Federica Tessari e Elena Lovato