L’importanza geopolitica dell’Artico

Dove si ritirano i ghiacci avanzano gli interessi nazionali, e le grandi potenze mettono a punto nuove strategie per l'Artico

14/05/2021

A causa della la crisi climatica, il pianeta sta andando incontro a cambiamenti radicali che nei prossimi anni modificheranno drasticamente l’ambiente in cui viviamo. Una delle regioni che più ne subisce le conseguenze in maniera disastrosa già oggi è l’Artico: definito spesso dagli studiosi il “canarino nella miniera”, lo scioglimento della regione è il campanello d’allarme che rende evidente tale metamorfosi. Mentre attiviste e attivisti da tutto il mondo cercano di bloccare questa tendenza, gli Stati stanno silenziosamente gareggiando per la supremazia della zona che nel futuro avrà una grande importanza strategico-economica.

La regione dell’Artico è suddivisa in numerosi territori che appartengono a diverse nazioni: Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Russia, Svezia e Stati Uniti. Attraversata da diversi continenti, la regione è quindi di interesse conteso, ancor più con il riscaldamento globale. Negli ultimi anni, infatti, l’assetto geografico della regione sta drasticamente cambiando e l’immagine idilliaca che ne abbiamo non combacia più con la realtà. Come riportato dallo studio Changes in the Arctic del 2021 del Congresso americano, «i cambiamenti fisici nell’Artico includono il riscaldamento dell’oceano, del suolo e della temperatura dell’aria; lo scioglimento del permafrost; lo spostamento della vegetazione e delle abbondanze animali e le caratteristiche alterate dei cicloni artici.» Secondo il U.S. National Center for the Study of Snow and Ice, la temperatura del mare Artico d’inverno ha infatti avuto un aumento di 2-3°C, segno dell’impatto del cambiamento climatico. In più, come evidenziato dal NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration), nel 2020 la temperatura globale della superficie terrestre si è posizionata come seconda più alta degli ultimi centoquarantuno anni. Dal momento che gli effetti del cambiamento climatico sulla regione sono più rapidi, le conseguenze sull’Artico sono state maggiori rispetto al resto del mondo. Ciò provoca un circolo vizioso: il cambiamento climatico influisce sull’Artico, ma allo stesso modo gli effetti sul Circolo hanno delle conseguenze sul resto del mondo, e così via. 

 

Il rialzo delle temperature ha ridotto l’estensione della banchisa e del permafrost, ovvero il cosiddetto “ghiaccio perenne”, che rimane intatto tutto l’anno. Sempre secondo il Noaa, infatti, «l’estensione della banchisa artica nel 2020 è stato del 16% inferiore rispetto alla media 1981-2010 e la seconda estensione più bassa della banchisa da quando sono iniziate le rilevazioni satellitari nel 1979». In contemporanea, anche il “ghiaccio perenne”, che non dovrebbe sciogliersi, si è ridotto, rilasciando carbonio sotto forma di metano, il quale, come riferito dall’IPCC (the Intergovernmental Panel on Climate Change), ha un impatto trentaquattro volte maggiore della CO2. Il rischio è un feedback loop, un cane che si morde la coda e le prospettive per il futuro sono disastrose. Come dichiarato dal report delle Nazioni Unite Global Linkages del 2019, «anche se il mondo dovesse tagliare le emissioni in linea con l’accordo di Parigi, le temperature invernali nell’Artico aumenterebbero di 3-5° C entro il 2050 e di 5-9° C entro il 2080, devastando la regione.» Leggendo lo studio The production gap, condotto dallo stesso ente nel 2020, però, i Paesi del G20 non stanno neanche rispettando l’accordo. Insomma, si prospetta una catastrofe ancora più grande, che dovrebbe preoccupare anche noi. Infatti, come riportato da Changes in the Arctic, oltre ad influenzare le vite degli abitanti e degli animali dell’Artico, la metamorfosi della regione ha un forte impatto anche su zone di media-latitudine: ne è un esempio la serie di incendi avvenuti in Russia nell’ultimo decennio. 

 

Una miniera d’oro (nero)

La maggior parte degli scienziati prospetta che entro il 2030 le estati artiche saranno prive di ghiaccio. La possibilità sta interessando i vari Paesi coinvolti nell’Artico, che si sono subito mossi per sfruttare il potenziale economico del cambiamento geografico della regione. Già verso il 2000, con lo scioglimento dei ghiacci il governo russo aveva intravisto la possibilità di stabilire un canale di navigazione nella regione che avrebbe potuto accorciare del 40% il tragitto tra Asia e Europa, evitando di passare per il canale di Suez. Il sogno si è trasformato in realtà con la Northern Sea Route (NSR), che però è attualmente attiva solo due mesi l’anno. Il traffico infatti è ancora modesto anche perché risulta rischioso per le aziende affidarsi al canale di navigazione senza sapere se durante l’estate sarà privo di ghiaccio e quindi percorribile. Mentre le città della Russia settentrionale potrebbero economicamente giovare del NSR, gli esperti temono che il canale possa in futuro avere delle conseguenze negative sull’ambiente e sugli abitanti indigeni della zona. I rischi ambientali, come riportato dall’Arctic Yearbook del 2017, sono legati all’inquinamento, sia operativo che accidentale, della navigazione nell’Oceano Artico. Anche le popolazioni dipendenti dalle risorse naturali, che si sono adattate alle difficili condizioni della zona, sono vulnerabili a questi cambiamenti e oltre ai rischi ambientali per le loro terre potrebbero vedersi private del proprio stile di vita e andare conseguentemente incontro a riadattamenti forzati.

Le opportunità per gli Stati non si fermano qua. La U.S. Energy Information Administration ha stimato che l’Artico presenterebbe il 13% delle riserve globali di petrolio, il 30% di gas non ancora scoperto e depositi di metalli. Incentivati dal maggior accesso alla zona per lo scioglimento del ghiaccio marino, l’estrazione di risorse e lo sfruttamento geografico dell’Artico sono quindi destinati a crescere nei prossimi decenni, nonostante le operazioni presentino forti rischi per la zona. Le condizioni sia geografiche che metereologiche estreme in cui le estrazioni avverrebbero, combinate alla totale mancanza di infrastrutture per gestire le emergenze, rappresentano un pericolo per l’ambiente ma anche per la fauna artica. I disastri passati dimostrano infatti la difficoltà – se non impossibilità – di recuperare il petrolio fuoriuscito nelle zone attrezzate, dove ne è stato raccolto a stento il 10%, e ciò sarebbe ancora più complicato nell’Artico, a causa delle condizioni ambientali e della mancanza di strutture ad hoc. Come spiega il Wwf, il contatto diretto con il petrolio fuoriuscito ucciderebbe gli orsi polari e altri animali, ma non solo: una minaccia invisibile potrebbe persistere per anni, poiché le sostanze tossiche rimanenti nel ghiaccio o nell’acqua potrebbero avere un impatto sull’intera rete alimentare dell’ecosistema artico per lungo tempo. L’impatto delle estrazioni qui non si limiterebbe quindi al solo Artico, ma si espanderebbe sull’intero globo.

Il paradosso artico, tra sfruttamento economico della zona e salvaguardia ambientale, è stato spesso oggetto di discussione tra i Paesi e le popolazioni coinvolti, in particolare nell’Arctic Council. Questo forum intergovernativo, nato nel 1996 dopo la Dichiarazione di Ottawa, ha l’intento di promuovere la cooperazione e la coordinazione tra gli Stati artici e i popoli indigeni. L’Arctic Council ha promosso delle linee guida per l’esplorazione e l’estrazione di gas e petrolio che però, per la natura non vincolante dell’ente, sono solo raccomandazioni. Manca quindi un’organizzazione intergovernativa che abbia effettivamente controllo sulla regione.

 

USA, Russia e Cina: i big player della corsa all’Artico

Tra il 21 luglio 2020 e il 21 marzo 2021, i cosiddetti services dell’esercito degli Stati Uniti hanno rilasciato le loro strategie per l’Artico. Tre documenti che, insieme alla strategia per l’Artico del Dipartimento della Difesa del 2019 (e il più aggiornato Report al Congresso del febbraio 2021), costituiscono, in mancanza di una vero e proprio programma a livello politico, le linee guida dell’azione americana nell’Artico. L’approccio statunitense è quindi inevitabilmente securitario e, come suggeriscono alcuni esperti, porta i tratti della dottrina Monroe (riassunta molto semplicisticamente in “l’America agli Americani”). L’Artico appare come una terra incontaminata attorniata da famelici nemici; non a caso Russia e Cina sono citate costantemente in tutti i documenti. Per quanto riguarda la Russia, gli Usa si trovano costretti a riconoscerle il ruolo che le spetta, dati i suoi  24.140 chilometri di costa artica, senza che questo implichi che siano disposti a fare concessioni. Parlando in conclusione di una seduta del Consiglio Artico, il 6 maggio 2019, l’allora Segretario di Stato Mike Pompeo aveva dichiarato illegittimo il controllo della Russia sulla Rotta del Mare del Nord, un canale commerciale che la Russia sostiene sia di sua competenza. Stando all’articolo 234 della Convenzione sulla Legge del mare delle Nazioni Unite, gli Stati costieri hanno infatti il diritto di adottare misure volte alla protezione dall’inquinamento delle aree coperte dal ghiaccio. Utilizzando questo pretesto, la Russia si è di fatto arrogata il diritto di controllare quelle zone. La situazione però, complice lo scioglimento dei ghiacci, potrebbe rendere questa scusa inutilizzabile. Anche per questa ragione la Russia punta molto sulla rivendicazione della catena montuosa sottomarina Lomonosov, catena contesa anche dalla Groenlandia e dal Canada. Un altro metodo utilizzato dagli Usa per contestare le rivendicazioni ritenute illegittime è quello, sempre sancito dalla convenzione Onu (che in realtà gli Usa non hanno ratificato), di fare delle operazioni volte a testare la effettiva “libertà di navigazione”. Il rischio, sottolineano gli esperti, è quello però di spingersi nelle acque ghiacciate dell’Artico “russo” e trovarsi la strada sbarrata dalla marina russa oppure rimanere incagliati e dover chiedere aiuto. Diversa è invece la relazione con la Cina: gli Usa rifiutano di riconoscere la Cina come un attore dello scenario artico e si oppongono alla definizione di “Stato quasi-artico” con cui la Cina cerca di farsi spazio nel Consiglio Artico di cui è membro permanente dal 2013.

Per la corsa all’Artico servono anche le rompighiaccio: la Russia è la vincitrice incontrastata con una flotta di quaranta navi, di cui ventisette oceaniche, alcune nucleari e undici in costruzione; gli Usa ne possiedono tre (di cui due risalenti agli anni Settanta), ma sono stati stanziati fondi per la costruzione di sei ulteriori imbarcazioni. La Cina, dal canto suo, ha inaugurato la seconda nel 2019, e una terza pare sia in costruzione. Oltre alle poche rompighiaccio, un grande problema degli Usa, ma in realtà anche della Russia e in generale di tutte le strutture collocate nell’Artico, è costituito dallo scioglimento del permafrost che mette a rischio le infrastrutture civili e militari presenti in Alaska. In particolare gli Usa possiedono tre basi dell’esercito, tre dell’aviazione e tre della guardia costiera, tutte collocate in Alaska meridionale. Anche per quanto riguarda le basi militari, la Russia si colloca davanti a tutti, avendone costruite di nuove e avendo riattivato le vecchie basi sovietiche, per un totale di circa trenta basi conosciute. Un segnale evidente della tensione è la ricostituzione, nel 2018, della Seconda Flotta della marina Usa (operativa nel Nord Atlantico dal 1950 al 2011) e, dal lato russo, la promozione della Flotta del Nord a sesto distretto militare dal gennaio 2021. Si tratta ovviamente anche di una questione di deterrenza nucleare: nella Penisola di Kola la Russia ha i suoi celebri sottomarini (SSBNs) che costituiscono i due terzi della sua potenza nucleare. 

Per la Russia la questione non è principalmente militare: la Rotta del Mare del Nord ad esempio potrebbe diventare un’ottima sostituta del Canale di Suez, ormai saturo. Si tratta inoltre di una rotta che interessa molto la Cina, che infatti nel luglio 2017 si è accordata con la Russia  per la nascita di una Via della Seta Polare. Un altro ambito di collaborazione molto allettante sia per la Russia, maggiore esportatore di fonti di energia al mondo, che per la Cina, maggiore importatore, è appunto il settore energetico. In particolare, il gas russo liquefatto (LNG) ormai da diversi anni si è fatto strada in Asia. Un progetto emblematico è quello di Yamal LNG (che si trova nell’omonima penisola) di Novatek, di cui è parte al 30% lo Stato cinese tramite due differenti compagnie. Un progetto simile è in costruzione sulla sponda opposta rispetto a Yamal LNG, nella penisola di Gydan, e si chiama Arktik 2 LNG; anche qui la Cina è coinvolta come investitore per il 20%. Allo stesso modo, la Russia possiede un piano strategico che viene aggiornato con frequenza: i “Fondamenti della politica artica” sono stati revisionati a marzo 2020, la strategia a ottobre 2020 e a inizio aprile è stato comunicato lo stanziamento di venti miliardi di rubli (duecentoventi milioni di euro) per lo sviluppo socio-economico dell’Artico. Tale programma viene portato avanti nonostante la Russia, come risulta dai suoi stessi piani strategici, abbia seri problemi infrastrutturali (strade, edifici, porti), una popolazione che tende a emigrare e carenza di lavoratori specializzati. Ovviamente anche le condizioni climatiche pongono un problema serio nell’ottica di un vero e proprio sviluppo della zona artica. Tuttavia, alcuni esperti hanno rilevato che in realtà i piani strategici del 2013 e del 2020 sono piuttosto simili negli obiettivi e riflettono più che altro la stretta illiberale di Putin sulla società russa, di cui un esempio è l’assenza nel piano del 2020 della società civile come interlocutore per lo sviluppo dell’Artico. Questo è dimostrato anche dalla denuncia di alcuni rappresentanti delle popolazioni indigene, riportata da “The Barents Observer”. 

La Cina, intanto, persegue la sua via all’Artico, esemplificata nel cosiddetto Foglio Bianco del 2018. La visione cinese è quella di un Artico “globale”, dove tutte le nazioni che lo desiderino possano condurre ricerche scientifiche e sfruttare le risorse. Ovviamente questo è malvisto dalle “nazioni artiche” che infatti hanno rigettato la richiesta della Cina di diventare membro osservatore del Consiglio Artico per tre volte prima di accettarla. La Cina punta a una penetrazione economica (si è già parlato degli accordi con la Russia) che le permetterebbe di rafforzare la sua posizione senza destare eccessive preoccupazioni tra gli Stati artici”. Nel 2013 ha stretto un accordo di libero scambio con l’Islanda, dove ha anche una stazione di ricerca, mentre nel 2016 ha aperto in Svezia una stazione satellitare e si è accordata con la Finlandia per creare un centro di ricerca per l’osservazione dello spazio artico; inoltre, dal 2016 intrattiene discussioni in ambito economico con la Norvegia. Infine è presente in Groenlandia, dove possiede il sito minerario di Kuannersuit, uno dei più grandi depositi al mondo di uranio, anche se lo sfruttamento di questo sito è ora a rischio in quanto il nuovo governo di sinistra si è opposto all’estrazione. 

 

Questo articolo è un adattamento dell’approfondimento La corsa all’Artico che potete trovare sul numero 41 di Scomodo abbonandovi qui.

Articolo di Matteo Cortellari, Elena D’Acunto, Luca Zucchetti