Cosa ho scoperto del mio vicino che prima non sapevo

Episodio 1

La quarantena muta il rapporto con ciò che accade intorno a noi ed intorno alle nostre case. Le relazioni cambiano aspetto. In questa rubrica raccoglieremo tutto ciò che abbiamo riscoperto riguardo ai nostri vicini: che sono, in fondo, gli unici esseri umani con cui ci è concesso di interagire.

 

Mi chiamo Andrea F.

Sono uno studente, ho ventisei anni ed abito ancora con mio padre e mia sorella in un quartiere ad est di Roma. I miei primi giorni di quarantena sono stati piuttosto strani.

 

Tempo mezz’ora ed è pronto a tavola, il momento perfetto per portare i cani a spasso. Di nuovo.

Il mio primo giorno di quarantena è segnato dall’irrequietezza: per oggi e fino a quando sarà ancora ammissibile farlo, mi sono risolto ad uscire il più possibile. Evitando i contatti con qualunque cosa viva, devo provare ad approfittare di ogni occasione per stare lontano dalle mura di casa. Il rischio è quello di esplodere.

– Dove vai? -, mio padre fa capolino dietro di me.

– Un attimo sotto con i cani.

Finisco di rispondere che sono già alla porta, intento a frugare nel portaombrelli in cerca dei guinzagli. Mentre sposto la mano verso la maniglia, sento la porta d’acciaio dell’ascensore sbattere e poi un rumore forte, simile a quello di un viavai ferroviario.

Scena già vista: il dirimpettaio sta trafficando sul pianerottolo, il pensiero di dovermi intrattenere a discutere con questo mi ferma sull’uscio. Meglio lasciar correre, sempre che non ci metta degli anni. Nell’attesa c’è lo spioncino.

Tutto quello che vedo è una cassa di legno, color ambra, oblunga e ingiallita dalla lente dell’occhiello. Un ingombro verticale al cui fianco si muove qualcuno.

Apro la soglia per investigare. La figura accanto alla bara si rivela un uomo sulla trentina, bell’aspetto e abito elegante, mascherina sulla bocca e guanti alle mani.  

Si china, apre un trolley ed estrae dalla tasca centrale un camice.

Richiudo di schianto il portone mentre l’uomo – uno di Fabozzi forse, sicuramente un tanatoesteta – comincia a vestirsi.

– Ma non eri uscito? Che ti sei dimenticato?

– Guarda papà, io aspetterei, mi sa che Orlando è morto.

Mio padre, un uomo robusto e brizzolato, archetipo dell’ingegnere di mezz’età, si fionda sullo occhiello, fosse stato Noodles a spiare Deborah.

– Dio santo -, fa sussurrando, poi mi accenna di seguirlo.

Raggiungiamo mia sorella in cucina e le raccontiamo la scena.

– Sì, vuoi vedere che in tutta Roma il primo ad avercelo è il nostro vicino?

– Fai te, il tipo stava con la mascherina, i guanti e pure col camice.

– E Orlando aveva l’Alzheimer…

Venti minuti di discussione per arrivare ad un nulla di fatto, ma tanto si sapeva: l’impiegato era ben attrezzato, ma non assomigliava alle immagini degli infermieri mandati a prelevare i pazienti a casa nel nord Italia. Al contempo Orlando era ammalato da un lungo periodo: una discreta quantità di tempo addietro, quando stava ancora bene, ci aveva abituato a delle scene particolari che non vedevamo più da anni.

Quando doveva riempire la dispensa si appostava in attesa si aprisse la porta di casa mia, poi domandava a mio padre se potesse prestargli la sua tessera della Metro.

Ad inizio inverno trasportava per le scale un numero infinito di casse di legna per il camino, ne scaraventava il contenuto da qualche parte dentro casa sua e si risolveva in uno sbuffo. Poi ricominciava il suo viaggio. La sua testa pelata scompariva lentamente dalla vista scendendo i gradini verso il piano terra.

Fuor di questi atteggiamenti era un vicino adorabile. Quando da bambini mio padre non sapeva a chi lasciare me e mia sorella, Orlando ci aveva sempre accolto.  A casa sua riuscivo perfino a divertirmi. Un pomeriggio piovoso aveva allestito per noi una caccia al tesoro. Il tesoro era stato un epilogo tiepido: fotografie in bianco e nero di animali feroci, ma la caccia era stata stupenda.

Crescendo i rapporti si erano raffreddati, gli argomenti di discussione erano diminuiti e gli incontri si erano fatti più imbarazzanti; Orlando capiva di non essere il mio compagno di discussione prediletto ed evitava di incastrarmi troppo spesso sul pianerottolo. Quando succedeva – quando non riuscivo ad evitarlo – i suoi modi teneri mi impedivano di liquidarlo su due piedi.

Parlo per un poco con mia sorella di Orlando e di questi rapporti lasciati a metà. Se li avessimo mantenuti più a lungo adesso potremmo andare a chiedere a sua moglie se il coronavirus c’entri qualcosa con la sua morte senza apparire degli stronzi.

– Ti saresti accollato dieci anni di buon vicinato per questo?

Mi metto a ridere e le confesso di no. Penso pure che se la situazione avesse davvero coinvolto il coronavirus Marta ce lo avrebbe detto.

Mi tranquillizzo, e così fanno tutti in casa.

La tregua dura due giorni, poi una mattina, di rientro dalla spesa, mio padre trova sulla porta una busta con un biglietto: una crostata all’albicocca e delle banane macchiate. Marta racconta di non mangiarle, piacevano a Orlando. Ci assicura che non le abbiano toccate, sarebbe un peccato sprecarle.

Mio padre impreca sull’uscio, entra in cucina, scarica le sue buste della spesa sul pavimento e va a recuperare il pacco doni di Marta.

Lo poggia accanto al secchio, poi impreca di nuovo.

– Proprio a noi dovevano venire a fare del bene?

Per mia sorella è la dimostrazione che Orlando non avesse nulla, per mio padre quella che Marta stia facendo la stronza.

La scelta dei tempi è bizzarra al punto da rivelarsi divertente: viene ordinata una quarantena epocale, la salma del marito viene portata via dalle pompe funebri in assetto da guerra biologica e già si annuncia la moltiplicazione della percentuale di indigenti, un’intera fascia di popolazione si troverà senza reddito e cibo. Di fronte a tutto questo il primo pensiero della signora Marta è quello di consegnare il cibo di un plausibile morto per cause virulente ai suoi vicini, non una parola sul suo effettivo stato di salute. Il cibo però non è stato toccato, assicura.

Mio padre non accetta discussioni, spinge via mia sorella e trasferisce l’intero pacco doni nel secchio dell’umido, poi si va a lavare le mani e si rinchiude nel suo studio.

Scambio uno sguardo con mia sorella, la vedo cercare un appoggio.

– Su, già che ci stava altre due righe le poteva scrivere…

Prende commiato da me con una bestemmia.

Il giovedì mattina la mia imbarazzante routine di allenamento mi porta sulla terrazza condominiale: una corsa penosissima lungo i lati delle mura del palazzo, ripetuta più volte, schivando i cavi per stendere i panni.

Quando entro in terrazza trovo Marta già china su un cesto di abiti e mollette. Per un attimo penso di tornare verso le scale, ma Marta mi vede ed alza la mano. Replico il gesto, mi tolgo le cuffiette dalle orecchie e mi avvicino. Mi piazzo ad una distanza dignitosamente simile ai due metri, spero non se ne abbia a male.

Stiro un sorriso, salto il buongiorno e provo subito ad estrarre il dente. Lo faccio male, farfuglio buona parte delle parole: – Marta, comunque da parte di papà e Chiara le più sentite condoglianze per Orlando, sappiamo che stava male, mi dispiace tanto…

Marta carica il lenzuolo sul filo stendiabiti, poi mi risponde, ed è molto più ricettiva di quanto il messaggio del pacco doni lasciasse ad intendere: mi ringrazia e conferma che sì, era da tempo che Orlando era malato. Negli ultimi anni la demenza lo aveva ridotto in maniera pessima. Imparare a cambiare il pannolone ad un uomo adulto non era stata un’esperienza piacevole.

Da una parte Marta era felice che fosse finita, ma almeno non aveva dovuto aspettare che fosse l’Alzheimer ad ucciderlo.

Mi trattengo dal fare un passo indietro, ma la faccia che faccio racconta già tutto. Marta per tutta risposta si mette a ridere, lo fa di gusto, per giunta.

Quando si riprende mi dice che pure lei si era sorpresa quando erano venuti a prendere Orlando vestiti in quel modo. Il vecchio non aveva la tosse né la febbre, non usciva da casa da un anno, e stava già male per altre cause, in più lei non aveva sintomi; questo Marta lo aveva detto subito al momento della chiamata. Ciononostante, si erano conciati in quella maniera.

Marta poteva essere asintomatica, ed in ogni caso era meglio andare sul sicuro: era questione di tempo prima che a qualcuno delle pompe funebri capitasse di andare a portar via la salma di un malato.

Orlando era morto di leucemia, una storia che si portava avanti da un tempo, a dire il vero antecedente pure all’Alzheimer.

Il marito era molto restio a parlare del suo stato di salute, ma Marta pensava lo sapessimo.

Quando ero molto piccolo Orlando aveva speso quattro mesi in Kosovo a fare fotografie per qualche giornale, immerso in un aerosol di uranio impoverito.

Secondo Orlando il cancro era un’eredità di quei tempi, ma non c’erano modi per provarlo, era già difficile farlo per i soldati che erano stati stanziati laggiù.

Comunque l’avesse presa, per Marta non importava poi tanto. Pensare che dopo la sua prima manifestazione, nel 2014, era pure riuscito a sconfiggerla. Poi era arrivata la diagnosi di Alzheimer, e dopo questa era tornato pure il tumore. Avevano pattuito che se le cose nella sua testa fossero peggiorate troppo Marta avrebbe dovuto smettere di preoccuparsi troppo del suo sangue. Così era stato.

Era durato molto più a lungo di tanta altra gente che era passata per quelle zone.

Marta finisce il racconto assieme alla stenditura dei panni. Si scusa per lo sfogo, è costretta in casa da quattro giorni: aveva bisogno di parlarne con qualcuno dal vivo.

Le dico che non fa nulla, se dovesse aver bisogno di qualcosa le basterebbe solo suonare a casa nostra, lo sa. Non ci spingiamo fino ad abbracciarci, Marta mi saluta con gli occhi gonfi.

Rimango un po’ a pensare alla figura di Orlando che provava a parlarmi della Roma, che non tifavo e nemmeno seguivo, mentre taceva un passato da fotografo di guerra. Il Kippur, il Libano, la guerra civile afgana e quelle jugoslave, perfino la parte finale della guerra del Vietnam. Marta aveva sciorinato una successione sanguinante di atrocità della cui esistenza avevo avuto traccia solo da qualche film. Aveva promesso di farmi vedere qualche scatto, ma non mi dovevo aspettare uno spettacolo gradevole.

Vedo Orlando che riesce a sopravvivere ad orizzonte di polvere e schegge di metallo solo per fare ritorno qui e domandare a mio padre di prestargli la tessera della Metro. Mi sorprendo di chi ci abbia vissuto accanto.

Poi ricomincio a correre in cerchio.

 

Racconto curato da Adriano Bordoni, Daniele Gennaioli e Alessio Zaccardini

Articolo di Redazione