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Nei CPR i diritti dei migranti non esistono
Il sistema dei Centri di permanenza per rimpatri non funziona. Il Governo Meloni ne vuole costruire ancora di più.
Oussama Ben Rebha, 23 anni, è morto nel pomeriggio del 10 gennaio, annegato nel fiume Brenta all’altezza del quartiere di Pontevigodarzere, a Padova. Ventitré anni, nato in Tunisia e residente in Francia, sposato e padre di un bambino, era arrivato in Italia da pochi mesi. Secondo la ricostruzione dei fatti finora accertata dalla Procura, il giovane si sarebbe gettato nelle acque che costeggiano via Querini dopo essere stato fermato dalle forze dell’ordine. Era in compagnia di altri tre connazionali. Assia Dahni, un’amica di Oussama, dice di aver in parte assistito all’accaduto tramite videochiamata con uno dei presenti. Racconta di aver visto un agente aggredire Oussama. Quello che emerge chiaramente dalle ancora confuse testimonianze è che Oussama sembra aver trovato nel fiume l’unica via di fuga per sottrarsi al fermo della polizia. Nei casi come questo, in cui il controllo non scaturisce dalla flagranza o dal sospetto di reato, si parla di “controllo selettivo”.
Una ricerca statistica pubblicata nel 2021 dall’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (FRA) riporta che in Italia il 71% delle persone di origine nord africana sottoposte a controlli da parte della polizia nei cinque anni precedenti la ricerca dichiara di aver percepito tali controlli come motivati dalla appartenenza ad una minoranza etnica o dall’origine straniera. Questa pratica di controllo discrezionale da parte delle autorità viene definita dalla Commissione per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa: «profilazione etnica o razziale», ovvero «l’uso da parte delle forze di polizia, in assenza di una giustificazione oggettiva e ragionevole, di motivazioni quali razza, colore, lingua, religione, nazionalità o origine nazionale o etnica per attività di controllo, sorveglianza o investigazione».
Il Coordinamento Antirazzista Italiano (CAI), che il 28 gennaio ha indetto a Padova la manifestazione «Giustizia e verità per Oussama Ben Rebha», in un comunicato stampa spiega che si tratta di «controlli basati sul colore della pelle e sui tratti somatici, un trattamento a cui sono esposte in massa migliaia di persone straniere, di origine straniera o semplicemente persone dalla pelle non bianca».
Nel caso di Oussama Ben Rebha, l’identificazione da parte degli agenti avrebbe rilevato l’assenza del documento di asilo e l’ordine di espulsione pendente sul ragazzo. Questo, sostiene il CAI, avrebbe comportato il trattenimento di Oussama in una «galera dove si sconta una pena amministrativa per il proprio status giuridico». In Italia, infatti, persone straniere prive di regolare permesso di soggiorno, quando identificate, vengono trasferite nei CPR, i Centri di permanenza per rimpatri. Diversi attivisti hanno collegato la morte di Ben Rebha alla durezza dei CPR: per sfuggire agli agenti e quindi al rischio di finire in un centro, una persona senza permesso di soggiorno è disposta anche a rischiare la vita.
I CPR sono ufficialmente adibiti al trattenimento di cittadini stranieri che non possiedono regolare permesso di soggiorno o che sono in attesa di venire espulsi dal Paese. Si tratta di una forma di reclusione dei migranti irregolari presenti sul territorio italiano in modo da favorire un maggior controllo del flusso migratorio. La detenzione nei CPR comporta la limitazione della libertà personale disposta in seguito alla violazione di un provvedimento amministrativo.
La legge Turco Napolitano del 1998 ha istituito il primo esemplare di carcere amministrativo italiano, i Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza. Rimbalzati tra un Governo e l’altro sotto denominazioni e forme differenti, hanno assunto il nome tuttora vigente di CPR nel 2017, con il decreto Minniti-Orlando.
Nel 2020, con il decreto Lamorgese, è stato stabilito un tempo massimo di detenzione di 90 giorni ed è stata inserita la possibilità dilatare i termini di ulteriori 30 giorni per i cittadini originari di paesi con cui l’Italia ha concluso accordi in materia di rimpatri. Questo è il caso, per esempio, dei cittadini tunisini. Nel 2021, nei CPR italiani, sono state detenute 5.154 persone. Di queste, il 54,4% era di origine tunisina.
Al momento, sul territorio italiano, i CPR attivi sono dieci. Il già citato decreto-legge Minniti-Orlando stabiliva che ne dovesse essere realizzato uno in ogni regione al fine di velocizzare le procedure di rimpatrio. Dal 2017 ad oggi il numero di centri attivi è raddoppiato.
Nonostante questo incremento, i dati relativi ai rimpatri conseguiti nel 2021 dimostrano una scarsa efficacia di questo sistema di gestione della clandestinità. Infatti, nel periodo compreso tra il 1° gennaio e il 15 novembre del 2021, solo il 49,7% delle persone transitate nei CPR è stato effettivamente rimpatriato. Della restante parte, 2.207 detenuti sono stati dimessi. Per il 33,8% di queste persone la motivazione di uscita è stata la mancata identificazione entro lo scadere dei termini. Ciò significa che 746 migranti sono stati dimessi ancora privi di regolari documenti di soggiorno e per questo esposti alla possibilità di venir nuovamente trattenuti all’interno di un CPR. Questo sistema di identificazione e trattenimento ai fini dell’espulsione è perciò fallimentare. Fa dell’Italia un enorme terreno di sabbie mobili da cui pare impossibile uscire e in cui anche Oussama Ben Rebha è rimasto impantanato. Sprovvisto di permesso di soggiorno, con due precedenti di polizia per stupefacenti e soggetto a mandato di espulsione. Se identificato, sarebbe stato portato in un CPR.
L’opinione pubblica, i testimoni e le tante associazioni che negli anni si sono opposte all’apertura dei CPR utilizzano immagini molto chiare per descriverli: carceri, lager, piccole Guantanamo. Sono molte le denunce per le sistematiche violazioni di diritti umani che avvengono all’interno di questi luoghi. «E’ gente che non ha nessun diritto, non mangia, dorme per terra, ha paura di essere espulsa, viene annichilita, sta male e non viene curata» dichiara a Scomodo l’avvocato Giovanni Motta, uno dei coordinatori della rete Mai più lager, NO ai CPR. La rete è composta da associazioni, sindacati, partiti politici e attivisti riunitisi nel settembre del 2018 per opporsi all’apertura del CPR di via Corelli, a Milano, e ora fa una continua campagna di informazione. «I CPR sono un luogo patogeno», dichiara l’avvocato. Le condizioni all’interno vengono definite peggiori rispetto a quelle dei centri penitenziari. Giovanni Motta spiega inoltre che le agitazioni che avvengono all’interno dei CPR difficilmente sono riconducibili a cause specifiche. Motta sostiene che sia proprio il fatto di stipare molti uomini all’interno di quattro mura in condizioni umanamente degradanti a rendere questi centri delle pentole a pressione.
La possibilità di rilevare e documentare cosa accade al di là di quelle mura è sottoposta a dei limiti. L’accesso senza autorizzazione è garantito, previa segnalazione, ai membri del Governo e del Parlamento e al Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, ovvero l’organismo statale incaricato di monitorare lo stato dei centri come i CPR. Tutti gli altri soggetti devono rivolgere alla Prefettura un’istanza di accesso, che non sempre viene accettata. Risale al 2 gennaio 2023 la sentenza del TAR Lombardia Milano che conferma il diritto di accesso alle strutture da parte degli enti che tutelano i diritti umani degli stranieri. La sentenza segue il ricorso proposto dall’associazione NAGA contro la Prefettura di Milano per aver rigettato la richiesta di accesso al CPR di Via Corelli.
Marika Ikonomu, Alessandro Leone e Simone Manda sono i primi giornalisti ad aver realizzato una video inchiesta della realtà all’interno dei CPR. L’inchiesta Sulla loro pelle, vincitrice dell’undicesima edizione del premio Morrione, è stata realizzata attraverso l’utilizzo di videocamere nascoste portate all’interno del CPR di Milano e a quello di Torino. In un’intervista a Scomodo raccontano di aver visitato, in seguito alla pubblicazione dell’inchiesta, anche il CPR di Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza. «Qui» dice Marika «un funzionario di polizia ci ha fatto firmare un foglio dicendo che non avremmo potuto pubblicare niente e che se lo avessimo fatto ne avremmo risposto». In merito al rischio di conseguenze legali per la pubblicazione delle immagini, Alessandro Leone spiega: «In ogni caso, ci siamo sentiti tutelati in quanto si tratta di luoghi privati gestiti con soldi pubblici e perciò di interesse pubblico».
Infatti, la gestione dei CPR è affidata ai soggetti privati che risultano vincitori dei bandi di gara d’appalto. I bandi sono basati sul criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa che comporta l’assegnazione dell’appalto a chi fa la proposta migliore in termini di rapporto qualità/prezzo. Perciò lo Stato tenta di minimizzare i costi e i gestori privati a loro volta perseguono la massimizzazione del profitto, che si concretizza nell’erogazione di servizi che negano i diritti fondamentali dei migranti.
Tra questi, il diritto alla salute. Nei CPR l’assistenza sanitaria e, in particolare, la garanzia di «adeguati standard igienico sanitari» sono di competenza dello Stato e del Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Perciò, come spiega la Coalizione italiana per le Libertà e i Diritti civili (Cild) nel report Buchi neri, il servizio affidato all’ente gestore dovrebbe essere «complementare» rispetto a quello nazionale. Inoltre, l’articolo 3 del Regolamento CPR prevede che la Prefettura sede del CPR sottoscriva un protocollo d’intesa con l’Azienda Sanitaria Locale (ASL). Nel rapporto Delle pene senza delitti, relativo all’ispezione effettuata nel 2021 dal Senatore Gregorio De Falco insieme alla rete NO ai CPR, nel centro di detenzione amministrativa di Milano, viene riportata la grave assenza di tale protocollo tra la Prefettura di Milano e l’ASL.
Nell’articolo 3 del già citato Regolamento CPR, si legge che «lo straniero accede al centro (il CPR, ndr) previa visita medica effettuata di norma da un medico della ASL o dell’azienda ospedaliera volta ad accertare l’assenza di patologie evidenti che rendano incompatibile l’ingresso e la permanenza dello straniero nella medesima struttura». Si fa riferimento a condizioni di salute e vulnerabilità tali da rendere possibile la convivenza in comunità ristrette. Di fatto però questi attestati di idoneità vengono spesso predisposti da medici dell’ente gestore, che fanno da sostituti del medico dell’ASL.
A questo si aggiunge anche il ridotto quantitativo di ore dedicate al servizio di assistenza sanitaria alla persona all’interno dei CPR. Nel 2018, all’interno del CPR di Milano, l’assistenza psicologica garantita a ciascun detenuto era in media di sei minuti a settimana. È in questo contesto di abbandono che tra il 2019 e il 2021 nel CPR di Torino sei detenuti si sono tolti la vita. La frequenza di atti di autolesionismo, i tentativi di suicidio, la somministrazione sregolata di psicofarmaci e il grave stato di salute psicologica dei detenuti sono stati più volte denunciati in seguito alle ispezioni del Garante e delle associazioni della società civile a tutela dei diritti dei detenuti.
Tra il 2018 e il 2021, lo Stato italiano ha speso 44 milioni di euro per la gestione dei centri di identificazione ed espulsione. Da questa somma sono esclusi i costi di manutenzione dei centri e le spese per il personale di polizia. La legge di bilancio 2023 prevede un incremento dei finanziamenti di circa 5.6 milioni di euro per il 2023 e di ulteriori 36.3 milioni di euro per il biennio 2024-2025. Perciò, una somma complessiva di 42 milioni di euro viene stanziata «al fine di assicurare la più efficace esecuzione dei decreti di espulsione». Per fare ciò, viene data al Ministero dell’interno l’autorizzazione «ad ampliare la rete dei centri di permanenza per rimpatri». La quota destinata alla costruzione e ristrutturazione dei CPR risulta essere cinque volte maggiore rispetto ai finanziamenti stanziati per la gestione dei centri.
Il governo guidato da Giorgia Meloni ha perciò gonfiato i fondi con l’obiettivo di aumentare la capienza complessiva dei centri ed espandere l’attuale disponibilità da 1.378 a 1.584 posti. Questa disposizione della manovra di bilancio appare poco comprensibile di fronte alla, già citata, inefficienza del sistema di detenzione amministrativa ai fini dell’espulsione e, come sostiene la Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili, «non farà altro che perpetrare lo sperpero di soldi, la sistematica violazione dei diritti umani, senza garantire in alcun modo la gestione del fenomeno migratorio efficace e pragmatica».
Articolo di Anna Bonzanino