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Il CPR di Macomer è un disastro, e non ne sappiamo nulla
Di tutti i Centri di Permanenza per i Rimpatri, quello di Macomer in provincia di Nuoro è quello più isolato, geograficamente e mediaticamente
Avete mai sentito parlare di comunità immaginata? Benedict Anderson, sociologo del XXI secolo, affrontando i mutamenti dello scenario politico occidentale, ne propone una definizione da declinare al concetto di nazione e, auspicabilmente, ad ogni gruppo del quale sogniamo essere parte. Tuttavia, esistono delle comunità che, invece di sollecitare l’immaginazione dei suoi componenti, incarcerano corpo e mente entro dei limiti sociali e burocratici, i CPR.
I CPR, vale a dire i Centri di Permanenza per il Rimpatrio, si configurano come una rete di strutture volte a deportare dal territorio italiano quei migranti identificati come irregolari, ovvero tutte le persone straniere non dotate di un permesso di soggiorno valido. Il CPR di Macomer, provincia di Nuoro, è la prova che l’evoluzione temporale e burocratica non ha fatto altro che restituire un progetto lacunoso, di difficile amministrazione e semplicemente fallimentare. Ed è un esempio lampante di quanto limpidezza e linearità non siano le parole chiave per una lettura dei centri di detenzione amministrativa.
La fenice di Elmas che risorge dalle proprie ceneri
L’esperienza sarda nella gestione dei flussi migratori si apre con il CPA (Centro di Prima Accoglienza) di Elmas, inaugurato nel giugno del 2008 e fin da subito distante da ogni idea di accoglienza e ospitalità: una struttura della cui reale natura organizzativa si hanno poche conoscenze. Elmas, ancora oggi, dà prova del bisogno di una coscienza comune circa la rotta migratoria, che rimane attiva nonostante le conoscenze ridotte. L’apertura di un CPR in Sardegna ha riscontrato consenso politico degli amministratori regionali e locali coinvolti, visto come strumento per rallentare lo sviluppo della rotta Algeria-Sardegna.
Di fatto, sebbene una situazione “emergenza sbarchi” sia stata incrementata dal flusso mediatico, l’isola non è la destinazione finale per la maggior parte dei migranti; considerato il forte calo degli sbarchi a livello nazionale nel 2017 (UNHCR). Il CPA sardo, con una popolazione a maggioranza algerina, ha dimostrato il crescente bisogno di ribellione contro condizioni non accettabili ed è stato chiuso nel 2014 a seguito di una protesta di un gruppo di immigrati ospitati nella struttura. Al centro di molte polemiche per la sua collocazione interna all’aeroporto militare, si era auspicato ad un trasferimento in una sede più appropriata, non tanto per condizioni igienico-sanitarie, quanto più per l’inserimento in una zona adibita ad usi militari.
Ed è proprio per questo che, a fronte del Decreto Sicurezza e Immigrazione apre a gennaio 2020 il CPR di Macomer: una struttura isolata, nata ad un paio di chilometri dal centro del paese che conta non più di 9.000 abitanti. La selezione del centro ricade accuratamente su un ex carcere, riadattato a struttura capace di ospitare, al massimo, un centinaio di persone nell’ottica di una creazione di posti lavoro su base locale. Questo però, oltre ad essere distante dall’obiettivo dei CPR, risulta difficile proprio in nome della posizione di confinamento dello stesso centro. L’area non solo è la meno popolata della Sardegna, ma si colloca in un contesto chiaramente militarizzato, vista la presenza di esercito e poligono di tiro. Che sarebbe proprio quanto avrebbe spinto alla chiusura di Elmas.
Al momento, Macomer ospita, o meglio detiene, circa cinquanta uomini dalla nazionalità mista, confluiti da altri centri. Dato, questo, non passibile di perfezionamento in nome della difficile comunicazione tra quanto effettivamente accade all’interno e mondo esterno.
La duplice non-gestione del CPR di Macomer
La gestione dei CPR ed i servizi promessi – poi non erogati – incarna uno dei punti cruciali per definire l’insuccesso pragmatico di queste strutture. Per quanto concerne la gestione pratica dei CPR, nel 2014 è stato prodotto un Regolamento dal ministero dell’Interno, con il quale si individuavano linee guida necessarie per fornire un modello standard circa costi e prestazioni minime da erogare.
Sebbene le norme che regolano la privazione della libertà delle persone (art. 13 della Costituzione) debbano essere leggi di rango primario, ancora non esiste un Codice con valore di legge, poiché il documento del 2014 manca tuttora di vaglio parlamentare. Nei centri spesso del tutto mancano assistenza psicologica e mediazione culturale, valori imprescindibili laddove disperazione e incomprensione conducono ad episodi di violenza privata e collettiva: una violenza il cui unico scopo è denunciare la propria sofferenza e il bisogno di far valere i propri diritti con l’unica voce a disposizione. Di onlus, di fondazioni o di ONG ed i relativi buoni propositi della “mission” umanitaria nel centro di Macomer non se ne vede neppure l’ombra.
Il perché è individuabile all’interno del Decreto Sicurezza emanato nel 2018 per opera dell’allora Ministro degli Interni Salvini in cui, tra le tante “peculiarità”, autorizza le holding private alla diretta gestione dei Centri Permanenti di Rimpatrio. L’ente gestore che ha vinto il bando emanato dalla prefettura di Nuoro era una onlus ma, dopo la presentazione di un ricorso, il vincitore diviene improvvisamente la multinazionale ORS Srl. La casa madre è svizzera, è di proprietà britannica, gode di un operato pregresso controverso circa la gestione di centri simili in Austria ed è protagonista di un report a cura di Amnesty International del 2015 in cui vengono denunciate le condizioni di degrado e di violazione dei diritti umani del centro di Traiskirchen.
E dunque, mentre l’allora vicepremier celebrava la vittoria della battaglia anti-immigrazione, il Ministro degli Interni austriaco, Harbert Khickl, aveva già “cacciato” ORS annunciando la nascita di un’agenzia pubblica per l’assistenza ai richiedenti asilo e immigrati irregolari.
ORS Italia afferma sui propri canali ufficiali che le «critiche sono infondate» e sperimenta, per la prima volta, la gestione di un CPR non solo in territorio italiano ma anche sardo. Macomer è uno dei tanti comuni sardi in cui è ben chiaro cosa significhi subire un periodo di “vuoto di potere” dell’amministrazione comunale, e questo è stato un punto a favore locale per la vittoria dell’obiettivo strategico nazionale: l’implementazione di un CPR per ogni regione italiana. Purtroppo, il caso del CPR di Macomer non è un riduttivo e mero discorso narrativo locale. Macomer è l’esempio nazionale di una gestione dei centri di detenzione per immigrati irregolari fondata sul principio del taglio dei costi avendo un unico fine: la massimizzazione dei profitti, di fatto, sulla pelle delle persone.
Quella che diviene una debolezza tutta locale
La nascita e l’evoluzione dei CPR è costellata di fatti cosmetici che non hanno cambiato la loro natura e la società civile solo attualmente ha cercato di fare chiarezza e coesione sul fronte comune mettendo in comunicazione tra loro sia LasciateCIEntrare (nome evocativo della sigla CIE, Centri di Identificazione ed Espulsione, nome fino al 2107 di queste strutture), sia l’area libertaria, sia Asce Onlus. In Sardegna non c’è un team dedicato, c’è poca organizzazione e la dispersione di notizie gioca uno dei ruoli fondamentali per la conoscenza della situazione e per eventualmente sensibilizzare gli abitanti di Macomer.
Francesca Mazzuzi, responsabile locale della rete di solidarietà nazionale LasciateCIEntrare, ha raccontato su Scomodo n.32 che «la rete è nata nel 2011 quando Maroni, allora Ministro degli Interni del governo Berlusconi, fece passare un’ordinanza per impedire l’ingresso degli addetti stampa nei centri di accoglienza, violando esplicitamente la libertà di stampa. Il primo obiettivo della rete è stato proprio di far abrogare l’ordinanza e attorno a questa battaglia si sono radunate molte associazioni, gruppi e singoli attivisti». Con la rete, gli attivisti raccolgono le segnalazioni provenienti da operatori e detenuti, riuscendo così ad ottenere le autorizzazioni per entrare e fornire assistenza legale. Le prove testimoniano situazioni di disagio da inoltrare alle autorità competenti, le quali, però, sembrano dimostrarsi meno recettive con il progredire degli anni.
Purtroppo, anche la parte legale del Foro di Oristano «è impreparato e non ci sono avvocati esperti in tema migrazione e accoglienza», racconta a Scomodo un attivista sardo. «Si sta navigando al buio sia con le parti che dovrebbero essere istituzionalmente competenti», sia con la nascente rete di attivismo sardo che sta, solo ora, creando un dialogo comune mai avvenuto in precedenza. La creazione di un centro di detenzione amministrativa, quale il CPR, ha un progetto architettonico alle spalle e una scelta di dislocazione territoriale ben precise (l’utilizzo di piccoli centri territoriali). Infatti, la città di Iglesias era già stata designata la più papabile per il centro sardo, bloccato dalla pesante opposizione dal centrodestra locale. E dunque Macomer, con un’opposizione autonomista sarda meno forte e meno legata al potere nazionale, divenne il luogo perfetto – geograficamente parlando – per far apparire invisibile il centro ai media nazionali e agli abitanti stessi.
Il comune di Macomer ha facilitato l’apertura ed attualmente la prefettura è in capo a quella di Nuoro, ma giuridicamente (per quanto concerne le udienze dal giudice di pace) si fa riferimento al Foro di Oristano. Il CPR, dunque, vive e sopravvive ad una sovrapposizione sia di posizionamento territoriale che amministrativo. Gli errori riconosciuti dalla stessa rete solidale sarda sono anzitutto da ricercarsi nel lungo periodo preliminare all’apertura del centro e alla relativa sottovalutazione del progetto in essere. Nell’indecisione locale, il progetto nazionale era diventato ormai effettivo. «I ragazzi dello spazio antifascista di Nuoro si sono mossi nel dicembre del 2019 dando vita ad un movimento in generale, insieme all’Associazione Sarda Contro l’Emarginazione, creando uno spazio-tenda; per dar vita ad un’apertura massima di dialogo nei confronti dell’argomento senza finire nel qualunquismo», prosegue uno degli attivisti sardi, anche se «non c’è stata una grande risposta da parte di associazioni che si occupano di migrazioni, o di associazioni cattoliche».
La prospettiva della rete embrionale è di aggregare i comuni ed i dintorni ma purtroppo la pandemia globale non lo ha ancora permesso. La percezione locale del CPR sardo è complessa e si può sommariamente dividere in tre categorie: in primis, i solidali e coloro che sono contro al sistema CPR (molto spesso legati al mondo politico della sinistra e a quello cattolico); a seguire, coloro che invece hanno una forte e chiara posizione riguardante il discorso “sicurezza” (per loro la retorica de “i migranti fanno paura” ha avuto la meglio); ed infine, più semplicemente, gli indifferenti. Anche se le percezioni dei locali potrebbero essere tre, la più rilevante è esente dalla categorizzazione e coincide con quella che in realtà ha dato forma e vita al CPR: il sistema clientelare presente sul territorio che è riuscito a barcamenarsi tra abuso di potere ed omertà. A Macomer, anche avendo un’ottica comunitaria, la solidarietà fa fatica ad uscire allo scoperto.
Probabilmente coloro che il territorio avrebbe dovuto ospitare, sognando la libertà, non immaginavano un’accoglienza come quella offerta dai CPR.
Articolo di Francesca Cutrone e Federica Tessari