La crisi demografica italiana può portare all’estinzione di molti atenei

L’Italia invecchia, e alcune università nel giro di vent’anni rischiano di perdere molti o tutti gli immatricolati

L’Italia è un Paese vecchio.
Da anni sta attraversando una fase di invecchiamento della popolazione, dovuta in primo luogo ad un calo del tasso di natalità: nel 2018 si conta una media di 1,32 figli per donna (ISTAT), un dato in continua diminuzione a partire dal 2008. Un’altra importante evidenza è quella dell’aumento della longevità, forte di un miglioramento della qualità della vita e dei progressi in campo medico, che contribuisce all’invecchiamento medio della popolazione. Dunque l’Italia, non sola, sta andando incontro ad un mutamento della struttura demografica. Questa constatazione ha una rilevanza fondamentale non solo dal punto di vista analitico ma anche pratico, poiché grazie ai dati da lungo tempo raccolti dagli istituti di ricerca c’è la possibilità, oltre ad evidenziare un trend, di guidare in una direzione una transizione che già si sta attraversando.

 

Dove le università italiane rischiano di più


L’ambito educativo, nei riguardi della questione demografica, è senza dubbio uno dei più cospicui. Tra le varie ragioni, la prima è che apre la possibilità di fornire un’educazione che garantisca delle opportunità agli individui nel corso della loro vita che possano favorire un benessere individuale e collettivo.

È l’osservatorio della società di consulenza Talents Venture a porre l’attenzione sulle università italiane e a chiedersi quale sarà l’effetto che il calo demografico avrà su di esse. In base ai dati ISTAT, nei prossimi venti anni la popolazione giovanile compresa tra i 18 e i 20 anni sarà circa l’85% di quella del 2020. Tenendo in considerazione che negli ultimi dieci anni la quota di immatricolati rispetto a quella dei diplomati si è in media mantenuta invariata sul 61%, nel prossimo ventennio cumulativamente il numero di immatricolati potrebbe ridursi di 260 000 unità. Inoltre, considerando che la mediana degli immatricolati ad ogni ateneo è di circa 2300 unità, 17 atenei da qui al 2040 potrebbero non avere nuovi iscritti. 

L’analisi viene riportata anche ad un livello regionale, evidenziando che il Mezzogiorno sarà il territorio più sensibile alla crisi demografica. In primo luogo poiché i tassi di immatricolazione sono tuttora più bassi rispetto a quelli delle regioni del Nord, e inoltre perché si è stimato che proprio le regioni meridionali (in particolare Basilicata, Puglia, Campania, Sicilia e Calabria) soffriranno un calo maggiore della popolazione giovanile, arrivando nel prossimo ventennio a contare il 77% di quella del 2020, a fronte del dato nazionale dell’86%. 

Angela Costabile, Delegata all’orientamento in ingresso e al counselling psicologico dell’Università della Calabria, spiega come la crisi demografica al Sud non sia affatto una novità, ma che ci si stia muovendo verso una nuova e speranzosamente prospera direzione di internazionalizzazione dell’ateneo, per essere in grado di garantire un’offerta formativa più ampia e inclusiva. In ultima battuta, ricorda l’importanza di un orientamento che non si inizi negli ultimi anni di istruzione superiore ma che abbia un più ampio spazio nel corso del percorso scolastico degli studenti. 

 

Innovare e aprire: l’internazionalizzazione delle università italiane


La crisi demografica deve essere affrontata dunque con una spinta innovatrice, che cambi le le prospettive degli atenei. Ciò, nel corso dell’ultimo anno, è avvenuto in maniera per lo più improvvisa, e la frustrazione che è derivata dal ricorso prolungato alla didattica quasi esclusivamente a distanza non è stato un buon primo contatto con il mondo delle lezioni online. E tuttavia, l’internazionalizzazione degli atenei parte anche e soprattutto da qui.

Questo è un processo ovviamente non rivolto solo agli studenti italiani, che potrebbero comunque trarre benefici da un ateneo pensato su un modello blended (misto didattica in presenza e didattica a distanza). Infatti, in particolare un continente di fatto confinante con l’Italia potrebbe costituire il vero futuro degli atenei.

Si legge nel rapporto di Talents Venture: «Nel 2040 ci saranno circa 190 milioni di giovani africani in età universitaria. Questo bacino rappresenta un’opportunità per gli atenei del nostro Paese. Gli atenei italiani infatti – persa la sfida di attrarre le popolazione in crescita negli anni precedenti (Sud America, Cina ed India) – possono pensare di attrarre, anche grazie alla vicinanza geografica, i giovani africani che potrebbero giocare un ruolo cruciale nella composizione degli atenei italiani dei prossimi anni». L’esplosione demografica del continente africano, unito alla tendenza resa evidente dalle sempre più frequenti “crisi migratorie”, sono una importante realtà da non ignorare. Oltre ad essere una potenziale occasione per tutti quegli atenei che rischiano di sparire, e che potrebbero trarre grande giovamento da un lavoro ben strutturato volto ad attrarre giovani non italiani negli atenei.

Tuttavia, nel Paese questo lavoro ben strutturato è stato portato avanti principalmente in atenei di altissima caratura. Il rapporto cita come esempio virtuoso la fondazione Italian Higher Education with Africa, iniziativa nata su spinta di sei atenei: Politecnico di Milano, Università di Bologna, Università di Firenze, Università di Napoli Federico II, La Sapienza di Roma e Università di Padova. Per quanto quello della fondazione, secondo le stesse realtà costituenti, sarebbe un’attività a tutto tondo sviluppata con l’idea di «un percorso di quasi due anni per promuovere l’internazionalizzazione degli Atenei in Africa e contribuire, in un’ottica di cooperazione, allo sviluppo locale», è indubbio che l’impegno debba essere condiviso da altri atenei, specie da quelli “a rischio estinzione”.

 

Crescita lieve, crescita forte? Forse, solo decrescita


In ogni caso, investimenti e progetti di questo tipo devono essere basati su delle certezze. Rimangono certe, tuttavia, solo alcune constatazioni decisamente catastrofiche: il mondo dell’università e della ricerca è spaventosamente sottofinanziato, e la sopravvivenza degli atenei è e sarà indissolubilmente ancora per molto legata alla presenza degli studenti. E cioè alle immatricolazioni.

Proprio sulle immatricolazioni si basano gli scenari presentati dal rapporto di Talents Venture, sviluppati in base alle proiezioni dell’ISTAT e che corrispondono a diversi tassi di diploma e di immatricolazione prospettati. 

Esiste la possibilità di una “crescita lieve”: qui le immatricolazioni nel prossimo ventennio comincerebbero a cadere solo a partire dall’anno accademico 2034-2035, dopo aver registrato una crescita di circa 120.000 immatricolazioni annue in totale. Nel giro di pochi anni, tuttavia in questo scenario, si andrebbero addirittura a perdere il 5% degli immatricolati confrontando i dati dell’anno accademici 2040-2041 con quelli dell’a.a. 2020-2021. 

Questo calo vertiginoso sarebbe scongiurato nel caso di una “crescita forte”, che porterebbe nel 2041 a contare ben 968.000 immatricolati in più rispetto ad oggi, grazie a ritmi di crescita delle immatricolazioni di +46.000 all’anno in media. Questi due scenari porterebbero a una maggiore richiesta di atenei, e potrebbero nascere rispettivamente 8 (crescita lieve) o 29 (crescita forte) nuovi atenei.

Tuttavia, è lo “scenario base” il peggio a cui prepararsi. Poco da fare: stando a questa stima, l’Italia rischia di perdere circa 260.000 immatricolati. Il che porterebbe all’effetto opposto, ovvero come già detto alla possibilità che 17 atenei, soprattutto al Sud, si ritrovino senza nuovi immatricolati nel corso del prossimo ventennio.

 

Il futuro: dal Recovery Plan “in giù”


Lo scenario base prospettato da Talents Venture è il futuro dell’università italiana? Chiaramente solo il tempo può dircelo. Su una cosa però c’è poco da sindacare: per prepararsi al peggio, utilizzare saggiamente i fondi del Recovery Plan è fondamentale. Il 30 aprile ogni settore inizierà a scoprire come i fondi stanziati con NextGenerationEU verranno spesi dall’esecutivo italiano nei prossimi anni, e pochi settori sono delicati con il mondo di università e ricerca. 

Oltre ai fondamentali investimenti nel mondo della ricerca (sui quali può essere utile seguire i consigli sviluppati dal cosiddetto Piano Amaldi), gli atenei devono lavorare “di fino” su domanda e offerta. 

Le elaborazioni di Talents Venture sulle proiezioni ISTAT parlano chiaro: senza un efficace piano di sviluppo per coinvolgere le giovani e i giovani italiani (attraverso attività di orientamento più mirate e strutturate) e nuove tipologie di immatricolati (come appunto la fascia demografica in età universitaria di non italiani, o la fascia “adulta” con una prospettiva efficace di lifelong learning), molti atenei sono destinati a soffrire o addirittura a sparire. 

Allo stesso tempo, per attrarre questa nuova domanda serve un’offerta altrettanto efficace. Le infrastrutture e la didattica soffrono la mancanza di ammodernamento e “cura”, e prospettive più professionalizzanti e più attraenti rischiano di minare la certezza del mondo universitario di essere un punto di riferimento, tanto per il mondo del lavoro tanto per lo sviluppo delle conoscenze. I colossi big tech, uno su tutti Google, hanno già iniziato a puntare sulla formazione, che costituisce un vero e proprio bacino di mercato. Le università italiane sono pronte a questo tipo di concorrenza?

Utilizzo dei fondi del PNRR a parte, gli atenei sono di fronte a una vera e propria sfida per la sopravvivenza. Una mancata risposta a questa sfida potrebbe portare a un arretramento non solo di alcune aree già svantaggiate, ma di tutto il Paese. L’università pubblica e la ricerca sono un bene prezioso, e la crisi demografica rischia di fare razzia di questo tesoro.

Articolo di Corinna Di Petrillo e Pietro Forti