Quanto pesa il debito pubblico italiano

Le sfide e i rischi dell’indebitamento per il futuro della generazione delle crisi

I concetti di crisi e di debito hanno assunto negli ultimi vent’anni una stretta correlazione, per cui la portata di una crisi e delle sue soluzioni sono misurati principalmente in termini del debito e dunque del peso intergenerazionale che determineranno. Ma il debito è innanzitutto una forma di finanziamento, è investimento nel futuro – quando speso bene – e per funzionare deve essere accompagnato da una visione, da qualcosa da realizzare.

 

La generazione della crisi nell’anno del debito

Il debito, o meglio l’attuale concetto di debito, rischia di cancellare il passaggio di un’intera generazione condannata a riparare gli errori di quella precedente senza avere neanche gli strumenti per proporre modelli nuovi. Dai primi anni novanta fino alla crisi del 2008 il debito è stato esaltato e talvolta concesso senza regole, in una generale e frenetica spinta consumistica, pubblica e privata, che ha generato il crollo economico di cui ancora oggi vediamo le conseguenze.

Indubbiamente, da quel momento le regole sono cambiate ed una gestione responsabile del debito si è resa necessaria, consapevolezza prima spesso assente.  Ciò che è rimasto, anche di fronte ai grandi sacrifici fatti, è lo stigma della colpevolizzazione degli stati indebitati, ben riassunto dal doppio significato della parola Schuld, che in tedesco significa colpa, e dal suo plurale Schulden, usato anche per indicare i debiti, cioè le colpe.

Ad oggi, per fronteggiare la più grande crisi dal dopoguerra, il debito, nonostante il suo stigma, è ancora lo strumento principale. Indebitamento da sempre visto, nelle dinamiche europee, come vizio ricorrente di alcuni stati rispetto ad altri “frugali” e da sempre motivo principale alla base dell’avversione verso un processo di integrazione europea che comportasse di conseguenza una condivisione del debito.  

Paradossalmente è proprio ora, nell’anno dell’indebitamento senza vincoli, che il debito viene realmente condiviso, tramite l’emissione di eurobonds, perdendo quella connotazione di colpa e recuperando il significato di investimento che potrebbe, laddove saremo all’altezza della sfida,  favorire una vera integrazione europea.

 

Il paradosso di un avanzo primario da record

Sinteticamente, è possibile definire il debito pubblico come l’importo totale del debito che uno Stato ha accumulato per finanziare la propria spesa pubblica. Questo accumulo si ha perché lo Stato, per garantire servizi e investimenti, reperisce risorse economiche tramite l’emissione di obbligazioni: i Titoli di Stato

I Titoli di Stato possono essere sottoscritti da soggetti pubblici e privati, nazionali o esteri: si va, in pratica, dal singolo risparmiatore alle imprese, dalle banche agli Stati. I titoli vengono venduti sul mercato ed acquistati da investitori che alla scadenza riceveranno la somma prestata maggiorata dal tasso d’interesse; più alto è il debito pubblico di uno Stato e più alto sarà il tasso d’interesse in quanto maggiori sono i rischi di non vedersi corrispondere le somme prestate una volta scaduto il titolo.

Nonostante il debito pubblico italiano sia il più alto al mondo dopo quello giapponese, l’Italia è il Paese con il più grande avanzo primario, cioè la differenza tra entrate e uscite annue delle pubbliche amministrazioni prima del pagamento degli interessi sul debito pubblico.  Dal 1995 al 2018 l’Italia ha generato un avanzo primario di ben 730 miliardi contro i 546 della Germania. Lo Stato italiano produce dunque annualmente un saldo positivo da record che, tuttavia, viene integralmente speso per pagare una parte degli interessi sul debito.

Nel 2018, con 26 miliardi di avanzo primario, lo Stato è riuscito a pagare il 40% dei propri interessi, mentre per pagare il restante 60% ha dovuto contrarre altro debito andando in deficit.  Il deficit è infatti la differenza che si genera tra entrate e spese annuali, comprese le spese per pagare gli interessi sul debito non coperti dall’avanzo primario.

Ogni anno accumuliamo debito per pagare i tassi d’interesse che non riusciamo a coprire con l’avanzo primario e, poiché gli interessi tengono come riferimento il rapporto debito/PIL, più debito accumuliamo più i tassi d’interesse si alzano.

Per fare un confronto tra due Paesi simili come Italia e Francia, vediamo che dal 2002 al 2018 l’Italia ha generato un surplus di 389 miliardi di euro mentre la Francia un deficit primario di 520 miliardi. Nonostante questo, nel 2018 la Francia ha pagato 24 miliardi di tassi d’interesse in meno rispetto all’Italia in quanto, avendo una minore quantità di debito accumulata negli anni, ha un rapporto debito/PIL minore.

L’Italia non è mai andata in default proprio grazie al notevole avanzo primario che produce ogni anno e, dal 1992 ad oggi, il debito pubblico italiano è cresciuto esclusivamente a causa degli interessi non coperti dall’avanzo primario e non a causa di una finanza “allegra” ma in quanto paghiamo lo scotto dell’immenso debito pubblico accumulato prima degli anni ‘90, durante la cosiddetta Prima Repubblica. 

A questo proposito Scomodo ha intervistato Andrea Roventini, professore associato alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, che individua come uno dei problemi la crescita del nostro Paese: “È la peggiore in Europa negli ultimi decenni, e questo si vede perché durante le fasi di espansione cresciamo meno degli altri. E quando c’è una recessione, questa colpisce più duramente il nostro Paese. Questa crisi e questa stagnazione italiana dipendono in maniera fondamentale dalla bassa crescita della produttività (e questo quindi ha delle chiare implicazioni per le politiche da attuare) e una componente di quello che è successo ha a che fare con l’austerità”. Tuttavia, Roventini definisce la posizione dell’Italia “più solida” rispetto ad altri Paesi, anche grazie al fatto che “l’Italia ha degli avanzi delle partite correnti”. Vale a dire, cioè, che l’Italia “esporta più di quello che importa e questo è una fonte di stabilità e solidità.” Un’altra fonte, secondo Roventini, è la nostra industria manifatturiera, la più forte in Europa dopo la Germania. Quindi “non è tutto completamente tragico, ma è vero che se prima della crisi c’erano dei margini, adesso con gli aumenti del debito pubblico che avremo, anche questi fattori di forza dell’economia italiana non saranno sufficienti a mitigare una nostra debolezza strutturale”

Bisognerebbe ripensare i criteri che determinano i tassi d’interesse, che non possono solo basarsi sul rapporto debito/PIL ma tenere presente anche il surplus prodotto dagli Stati.

In realtà possiamo già vedere come i mercati, in determinati casi, giudicano la sostenibilità di un debito a prescindere da tale famigerato rapporto debito/PIL: è il caso degli Stati Uniti che, pure avendo un debito pubblico superiore al 110% del PIL e un disavanzo primario dal 2002, godono di un rating tripla A dei propri titoli sovrani, mentre l’Italia si trova poco sopra la soglia junk, “spazzatura”.

 

 

L’UE e i nuovi strumenti autonomi di finanziamento 

“Non siamo qui per ridurre gli spread, non è la funzione della BCE”. Sono queste le parole pronunciate dalla neo presidente della BCE Christine Lagarde il 12 marzo 2020, a distanza di poco meno di una settimana dell’inizio del lockdown in Italia. E’ stata la giornata più nera della storia della borsa italiana, nella quale il principale indice della borsa di Milano, il FTSE MIB, ha perso il 17% del suo valore. Non è il primo passo falso commesso a Francoforte, sede della BCE. Nel 2011 l’allore presidente Trichet aumentò i tassi di interesse in piena crisi dei debiti sovrani – un errore risolto dal suo successore, Mario Draghi, che nel 2012 tagliò repentinamente il costo del denaro. Il ruolo della BCE negli ultimi mesi, è stato messo in discussione e con esso si è tornati a parlare dell’euro, la  “moneta incompiuta”, come viene chiamata da vari economisti. La scelta dell’aggettivo si deve proprio al principale obiettivo della Banca Centrale di perseguire il mantenimento della stabilità dei prezzi. Tali limitazioni hanno pertanto determinato l’accentuarsi delle crisi dei Paesi europei del Mediterraneo e dell’Irlanda, che non hanno potuto beneficiare di tutti gli strumenti che la politica monetaria mette a disposizione degli Stati dotati di sovranità monetaria. La Commissione Europea però non sembra voler lasciare al caso la soluzione dell’attuale crisi economica dovuta alla pandemia. Per dare slancio all’Europa si procederà infatti con uno stimolo di ben 1800 miliardi di euro finanziati direttamente dall’UE (di cui 750 diretti allo “strumento temporaneo per la ripresa NextGenerationEU”,  così definito sul sito della Commissione) con il fine di rendere l’Europa più ecologica, più digitale e più resiliente.

La necessità di fronteggiare una spesa così elevata da parte della UE ha finalmente stimolato il dibattito attorno alla necessità di operare una politica di bilancio comunitaria tale da poter indirizzare l’economia europea in maniera più coesa ed omogenea. Negli Stati Uniti infatti la spesa federale sorpassa il 20% del PIL federale, mentre la spesa europea è poco maggiore dell’1% del Pil europeo. Questione cruciale, soprattutto pensando ai vincoli di spesa in essere per gli Stati comunitari e al già citato principale mandato della Banca Centrale Europea. Mandato che stona con quello dell’altra banca centrale oltreoceano, ovvero la Federal Reserve (USA), che invece ha tra i suoi obiettivi anche la crescita economica e tassi di disoccupazione bassi. 

Una riflessione sulla tematica delle modalità di reperimento dei capitali da parte dell’UE si è sviluppata, dunque, a partire dal bisogno di introdurre una massiccia politica fiscale europea. La dinamica principale è comune alla varie proposte nate circa il tema, è la necessità di maggior integrazione in quello che è il progetto di un’Europa che non sia solo legata da regole, vincoli e leggi ma da una “solidarietà di fatto” tra Nazioni.

Una delle proposte avanzate è quella relativa all’introduzione di un’imposta sulle transazioni finanziarie, che avrebbe una duplice efficacia. Se infatti da una parte sarebbe utile per reperire capitali che possano finanziare le spese economiche targate UE, dall’altra consentirebbe di scoraggiare l’ossessione per il breve periodo. È proprio questa visione di breve periodo – accompagnata da un’eccessiva propensione al rischio – che ha portato alla crisi finanziaria americana, e poi globale, iniziata nel 2007. Sarebbe opportuno introdurre un’imposta sulle transazioni finanziarie tale da non destabilizzare i mercati finanziari, bensì votata a scoraggiare le attività finanziarie associate alle speculazioni. Interrogato sul tema, il Professor Roventini spiega a Scomodo che “si può pensare ad una tassa sulle transazioni finanziarie, così da uniformare la tassazione sulle imprese societarie. Farebbe molto bene anche trovare delle modalità per tassare i giganti di internet. Perché, in certi contesti, fanno dumping fiscale aiutati da alcuni Paesi europei. Lo strumento sarebbe far pagare una percentuale del fatturato sulla base del valore aggiunto che creano nei vari Paesi europei.”.

Un altro tema caldo, infatti, riguarda le distorsioni esistenti tra Stati dell’Unione Europea circa i differenti livelli di tassazione. Determinati Paesi membri, accomunati per lo più dalle dimensioni ridotte, attuano infatti politiche fiscali aggressive, che vanno a danneggiare gli altri paesi. In poche parole, attratte da un livello di tassazione molto basso, le società trasferiscono la propria sede fiscale da una nazione con imposte più elevate ad una con imposte meno elevate. La soluzione a questa problematica potrebbe essere infatti quella di escludere le società con elevati profitti dalla tassazione nazionale ed introdurre un’imposta unica Europa che vada a tassare tutte le società con sede fiscale all’interno del territorio europeo, indipendentemente dalla nazione. Ciò determinerebbe una fonte cospicua di finanziamento per l’Unione Europea nonché la soluzione alle distorsioni causate da una non uniformità di tassazione tra Stati Europei. Anche il professor Roventini conferma l’opportunità dell’introduzione di provvedimenti in tema; a suo modo di vedere, infatti, per aumentare il budget o ridurre il ricorso al debito “un primo passo è quello di abolire o perseguire la concorrenza fiscale all’interno dell’Unione Europea”, ricordando poi come “alcuni dei Paesi ‘frugali’ (che si sono schierati contro il Recovery Fund) fanno dumping fiscale, come Olanda e Lussemburgo”

Rimarcando come le proposte della Commissione mostrino quanto essa sia “molto più avanzata ed europeista dei singoli governi che compongono l’Unione”, il professore ha poi sottolineato un ulteriore provvedimento, inserito nelle linee programmatiche assegnate dalla Commissione a se stessa per il 2024: l’adozione di una forma di carbon tax per le imprese, o sui beni importati dall’esterno, in linea con gli obiettivi di Parigi al 2050. Ciò implicherebbe che “tutti i Paesi europei debbano avere la stessa politica sulle emissioni dei beni importati, e avrebbe molto senso un normativa europea in questa direzione”.

Infine, si è a lungo discussa la proposta di emissione di bond comunitari (Eurobond). Per Eurobond si intende un’obbligazione garantita in solido da tutti gli Stati membri della zona euro. Tali titoli sarebbero venduti a un rendimento molto basso, vicino a quello a cui vengono venduti i Bund tedeschi, che rappresentano il benchmark della zona euro. Ciò costituirebbe una grande forma di risparmio per gli Stati che, come l’Italia, raccolgono capitali ad un tasso d’interesse elevato. È importante sottolineare che l’emissione di un Eurobond necessiterebbe una modifica della clausola di non salvataggio (articolo 125 TFUE), ipotesi politicamente difficile da percorrere. La mutualizzazione del debito potrebbe essere la soluzione più efficace, sia per far ripartire l’economia Europea sia per lanciare un segnale di unione e stabilità a tutto il resto del globo. 

Come ricorda Roventini: “La grande occasione che abbiamo viene dal fatto che si emetterà debito pubblico europeo per il NextGenerationEU, che poi viene chiamato Recovery Fund in italia. Questo non è importante tanto per l’ammontare di questo debito, ma perché crea un precedente. Quindi se funzionasse bene il Recovery Fund, ciò potrebbe anche costituire un nucleo di politica fiscale europea basato sul debito europeo, andando quindi nella direzione di una maggiore integrazione”.

Questa soluzione, infatti, potrebbe assurgere a prassi utilizzabile sia in periodi di emergenza, come questo che stiamo vivendo, che in periodi di stabilità economica. Nel 2010 Jacques Delpla e Jakob Von Weizsacker presentarono un piano per i Paesi europei che prevedeva la divisione del debito sovrano di queste nazioni in due parti. La prima parte, fino al 60% del Pil, sarebbe stata ripartita come obbligazioni senior “Blu” e sarebbe stata garantita da tutti gli Stati. Potremmo paragonare tali obbligazioni ai titoli del tesoro americano in quanto ad affidabilità. La restante parte del debito si sarebbe invece dovuta emettere come “rosso”. Questa parte sarebbe quindi la componente rischiosa e perciò più costosa, portando gli Stati maggiormente indebitati a seguire una certa disciplina fiscale per non indebitarsi con costi molto elevati. La componente blu del debito rappresenterebbe gli “Eurobond”, molto affidabili e con un rischio di insolvenza associata agli stessi molto bassa, mentre la componente rossa non sarebbe altro che la parte vera e propria del debito sovrano di ogni Stato.

 

Questo articolo è un adattamento dell’approfondimento Il peso del debito che potete trovare sul numero 38 di Scomodo abbonandovi qui.
Articolo di Ettore Iorio, Valentino Affinita, Federica Scannavacca, Francesco Ottaviani, Marina Roio, Luigi Simonelli