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In Tunisia la crisi economica alimenta il razzismo
Una questione in cui l'Europa ha una parte di colpa
È il 6 marzo, ad Ismailia, in Egitto, si gioca la semifinale della Coppa d’Africa under 20 di calcio tra Senegal e Tunisia. Al 52’, dopo il gol del 3-0 che chiude la partita, i giocatori senegalesi si dirigono verso il settore che ospita i tifosi tunisini e indicano, in maniera quasi coordinata, il proprio braccio sinistro con la mano destra. Ciò che vogliono far notare, e rivendicare, è il colore della propria pelle. Per capire i motivi, invece, bisogna fare un passo indietro e raccontare una storia molto più ampia.
Dall’alto in basso
Il 21 febbraio, al termine di un Consiglio di Sicurezza Nazionale, il presidente tunisino Kais Saied ha pronunciato un discorso per certi versi sorprendente, in cui ha definito l’immigrazione proveniente dai paesi dell’Africa sub-sahariana «un’impresa criminale ordita all’inizio di questo secolo per cambiare la composizione demografica della Tunisia», e renderla un paese «solo africano, con nessuna appartenenza al mondo arabo e musulmano».
Non solo: già prima dell’avvento di Saied, la storia del rapporto tra la Tunisia e il discorso sulla razza è profondamente ambigua. Come riporta Haythem Guesmi su Al Jazeera, se da un lato è motivo di vanto per i tunisini essere stati il primo paese musulmano ad abolire la schiavitù nel 1846, nonché il primo paese del mondo arabo ad aver approvato – nel 2018– una legge contro tutte le forme di discriminazione razziale, dall’altro la percezione di sé stessi come superiori alle popolazioni dell’Africa subsahariana è ancora presente sotto molti aspetti. E gli sforzi per decolonizzare il discorso tossico e violento nei confronti dell’Africa subsahariana dopo l’indipendenza del 1956 non sono stati molti.
Proprio nel 2018, pochi mesi dopo l’approvazione della legge anti-discriminazioni, l’omicidio di Falikou Koulibaly, presidente dell’Associazione degli ivoriani in Tunisia, aveva riacceso i riflettori sul tema delle violenze nei confronti degli africani subsahariani, nonostante un quadro legislativo in apparente miglioramento. Solo apparente, appunto, perché come sottolineava già nel 2019 il sociologo Mustapha Nasraoui, dietro questi cambiamenti persisteva una «macchina per fabbricare irregolarità» profondamente radicata nel Codice del lavoro tunisino, improntato verso una marcata «preferenza nazionale» che penalizza, ed emargina di fatto, soprattutto i migranti subsahariani.
Sotto il tappeto
La presenza di dinamiche razziste in Tunisia, insomma, è precedente all’avvento al potere di Kais Saied. Ma la recrudescenza di questo discorso in questo preciso momento storico ha alla base, come intuibile, soprattutto ragioni di altra natura.
La prima è sicuramente economica. Il paese attraversa ormai da anni una profonda crisi economica che negli ultimi tempi è drasticamente peggiorata. A febbraio 2023 l’inflazione ha raggiunto il 10,4%, ovvero il massimo storico negli ultimi 30 anni, e soprattutto preoccupa l’impressionante tasso di disoccupazione giovanile al 37%. A tutto ciò si somma un debito pubblico pari a quasi il 90% del PIL: un dato molto poco confortante per un paese fortemente dipendente dalle iniezioni di liquidità fornitegli dagli organismi internazionali e in particolare dal Fondo Monetario Internazionale.
E proprio al FMI è intrecciata in modo indissolubile la più recente crisi economica: Tunisi, infatti, è ancora impegnata in difficili trattative per ottenere un prestito da 1,9 miliardi di dollari proprio dal FMI, che però in cambio chiede una serie di riforme che però, secondo alcuni osservatori, potrebbero avere sull’economia tunisina conseguenze ancora peggiori.
Come spiega su Twitter l’analista Arianna Poletti, uno degli interventi richiesti dal FMI è il taglio dei sussidi che permettono ai beni sovvenzionati dallo Stato di mantenere un prezzo stabile. Rimuoverli significherebbe, per l’economia tunisina, la perdita di un vantaggio competitivo forse fatale: «Questo accade anche perché l’economia tunisina produce essenzialmente beni per l’export – spiega Poletti -, non per il mercato interno. Quindi dipende dalle importazioni».
Gli attacchi razzisti di Saied, volti a nascondere la realtà di una vera e propria polveriera dal punto di vista economico, potrebbero aver addirittura peggiorato le cose: anche la Banca Mondiale, ad inizio marzo, ha interrotto alcune delle sue linee d’intervento in Tunisia a causa del deterioramento della situazione democratica in Tunisia e in particolare delle posizioni anti-migranti del presidente Saied.
Lo sguardo dell’Europa
Il precipitare della situazione economica tunisina, unito ai timori dei migranti subsahariani di subire violenze, ha fatto schizzare il numero delle partenze nel Mediterraneo.
Già prima degli ultimi sviluppi, la rotta che collega la Tunisia all’Italia è da sempre una delle più battute del Mediterraneo centrale, e i cittadini tunisini sono tra le nazionalità più rappresentate: secondo i dati del Viminale, sui 105mila migranti sbarcati in Italia nel 2022, i tunisini erano 18mila, al secondo posto dietro l’Egitto (20mila). Una situazione che però ha i visto i numeri aumentare esponenzialmente negli ultimi mesi: nei primi tre mesi del 2023 gli arrivi in Italia sono stati 27mila, il quadruplo rispetto ai quasi 7mila dello stesso periodo del 2022.
Sul New European, Simon Speakman Cordall pone a questo proposito un quesito cruciale: le politiche europee sull’immigrazione stanno fomentando le crescenti violenze contro i migranti neri in Tunisia?
Cordall ricorda la collaborazione dell’Europa, e in particolare dell’Italia, con la sedicente Guardia Costiera Libica, che ha fortemente limitato una delle principali rotte riversando più migranti verso le partenze dalla Tunisia. Ma sottolinea anche come a novembre scorso la stessa Commissione UE abbia raccomandato di rafforzare i processi di accoglienza in Tunisia per migranti e rifugiati. Pochi mesi dopo, un report del Civil Maritime Rescue Coordination Center ha definito la pratica dei respingimenti in Tunisia come «pericolosa, illegale e disumana», affermando come il paese «non possa essere considerato come un porto sicuro».
Come sostiene il giornalista tunisino Mohamed Khalid Jelassi, insomma, l’attuale crisi tunisina non vede l’Europa solo come spettatrice interessata, ma chiama in causa colpe e responsabilità del Vecchio Continente e ricalca perfino alcune dinamiche sempre più diffuse in Europa: l’accusa rivolta da Saied a partiti che dopo il 2011 avrebbero «ricevuto enormi somme di denaro per accogliere migranti irregolari dall’Africa subsahariana in Tunisia» richiama teorie e slogan usati anche dalle nostre parti. «Li trattiamo allo stesso modo in cui gli italiani ci trattano quando arriviamo in Europa», è il commento di un uomo che sintetizza bene il clima di paura ingiustificata che serpeggia nel paese.
Una paura, tra l’altro, assolutamente infondata. Un report dell’Istituto Nazionale di Statistica tunisino del 2021, ad esempio, quantificava i migranti non-maghrebini presenti nel paese in 21mila: cifre ben lontane da quelle percepite dalla popolazione e rilanciate da alcuni media, che sostengono come i migranti subsahariani siano oltre 1,2 milioni.
Una distorsione nella percezione del fenomeno migratorio comune a molti paesi, anche occidentali. Di tutto ciò che poteva dividere Tunisi dal resto dell’Africa e avvicinarla all’Europa, che sia proprio la diffusione di un discorso razzista in tutto e per tutto simile a quello dilagante dall’altra parte del Mediterraneo è un fatto di una certa, triste, ironia.
Articolo di Simone Martuscelli