I curdi dimenticati

La questione curda è riemersa, ma come problema di riflesso

12/08/2022

Dopo quattro ore di colloqui prima dell’inizio del vertice NATO (North Atlantic Treaty Organization) a Madrid il 28 giugno, la Turchia ha rimosso il veto sulla richiesta di annessione nell’alleanza di Svezia e Finlandia. Il memorandum sancito dalle tre nazioni stabilisce che Svezia e Finlandia debbano intensificare il loro lavoro riguardo alle richieste turche di estradizione di componenti del PKK (Kurdistan Workers’ Party) e di altri gruppi terroristici. Inoltre, Svezia e Finlandia elimineranno le restrizioni che avevano imposto nel 2019 per la vendita di armi alla Turchia. Come spiegato in un precedente articolo di Scomodo, la Turchia si era opposta alla candidatura nella NATO dei due paesi nordici poiché accusati di difendere terroristi curdi.

 

L’incertezza del memorandum

Nonostante ciò, l’accordo pare molto generico: la lista turca sulle persone da estradare conta 73 individui, ma nel memorandum non se ne ha traccia, così come conferma la Finlandia, dichiarando che non ci sono state discussioni specifiche durante le negoziazioni. Le interpretazione del documento sono varie, e alcune potrebbero già destinarlo all’oblio, poiché la Turchia ha solo accettato la candidatura, mentre il processo di annessione richiede ancora tempo, e Erdoğan potrebbe tornare a imporre il proprio veto, se gli accordi non fossero rispettati. Difatti, il presidente turco da tempo è ricorso al ruolo di “pecora nera” della NATO, giocando sul confine dell’alleanza e sulla necessità di approvazione turca (è necessaria quella di tutti gli stati membri) per candidare e includere nuovi stati.

 

Un attrito lungo decenni

Per comprendere i rapporti tra NATO e Turchia, è doveroso fare un passo indietro. La Turchia è membro NATO dal 1952, e negli anni ha spesso avuto rapporti controversi con gli altri alleati. In un articolo di The Atlantic, Steven A. Cook – esperto di Turchia per il Consiglio delle relazioni estere – ha dichiarato che “abbiamo voluto la Turchia nella NATO per via della guerra fredda” e quindi Truman, l’allora presidente USA, ha proposto l’adesione per contenere l’espansione dell’URSS e per avere un alleato come utile punto di appoggio per le operazioni mediorientali. Tuttavia, lo stato turco si è opposto a diventare vassallo americano: nel 1974 ha invaso Cipro, facendo sì che la Grecia lasciasse temporaneamente l’alleanza; durante la Guerra del Golfo del 1990-91, gli Stati Uniti usarono la base NATO di Incirlik per lanciare dei bombardamenti, ma la Turchia si rifiutò di far stazionare l’esercito Usa sul proprio territorio per l’offensiva verso Baghdad; dalle “rivoluzioni arabe” del 2011, la Turchia è vista come modello di democrazia islamica e di stabilità. Quando nell’ottobre del 2019 gli stati europei decisero di limitare le esportazioni di armi alla Turchia per via dell’offensiva turca in territorio siriano, Ankara ha condannato il gesto degli alleati. Non esattamente ciò che ci si aspetterebbe da paesi alleati.

I dissidi tra Turchia, alleanza atlantica e paesi nordici, non sono evidentemente iniziati con l’invasione russa dell’Ucraina; nel 2021 il ministero degli Esteri turco ha convocato l’ambasciatore svedese ad Ankara per dissentire riguardo ai contatti del ministro degli esteri svedese Peter Hultqvist con le forze democratiche siriane a guida curda SDF (Syrian Democratic Forces), milizia fondata nel 2015 nel nord della Siria per difendere l’area abitata dai curdi. Esso ha legami con YPG – unità di protezione popolare – che opera come estensione del PYD (Partito curdo siriano) affiliato del PKK. In questo complicato gioco di scatole, la Turchia considera PKK e YPG come la stessa cosa, e quindi una minaccia per la propria sicurezza nazionale.

Dal 2016 a oggi, le offensive turche nel nord della Siria sono state cinque, con l’obiettivo di neutralizzare la milizia YPG, forza armata presente nel territorio indipendente del Rojava ed ex alleato degli Stati Uniti nel contrasto all’ISIS (nonostante i legami col PKK, che gli Stati Uniti considerano gruppo terroristico).

Dopo la convocazione turca, il ministro degli esteri svedese ha dichiarato che il proprio governo non incontra organizzazioni che sono nell’elenco delle organizzazioni terroristiche dell’Unione europea: nella lista compare solo il PKK, anche se la stessa Corte di giustizia europea ha emanato una sentenza dove richiede un giusto processo al PKK, e questo dettaglio viene spesso dimenticato durante la narrazione di questi eventi.

La serie di offensive diplomatiche esplicite e non tra Turchia e NATO (e USA) sono innumerevoli. La stessa Turchia si è sentita delusa dall’alleanza, quando gli Stati Uniti si sono rifiutati di consegnare allo stato turco Fethullah Gülen, leader di FETO (The Fetullah Terrorist Organization) un movimento politico turco che Erdoğan accusa di aver ideato il tentativo di colpo di stato nel 2016; oppure quando il governo turco ha richiesto di estradare membri sospetti del PKK e FETO da Svezia e Finlandia, e la maggior parte delle richieste sono state respinte. Almeno fino ad ora. 

 

Il PKK e i curdi

L’ultima pedina di scambio in questo intricato rapporto sono i curdi, una minoranza che vive a cavallo tra Iraq, Iran, Siria, Turchia e Armenia. In Turchia compongono circa il 20% della popolazione. In generale, si tratta di una delle etnie numericamente più estese, circa dai 30 ai 45 milioni di persone, senza unità nazionale.

Nel 1978 è stato fondato il PKK, Partito dei Lavoratori del Kurdistan, di ispirazione marxista e con l’obiettivo di creare una patria etnica curda nel sud-est della Turchia. Il partito ha preso le armi contro la Turchia nel 1984, adottando tattiche terroristiche.

Tra la popolazione curda aumenta la spinta autonomista con la prima guerra mondiale e la dissoluzione dell’Impero ottomano. Da quel momento, molti curdi iniziano a considerare la possibilità di acquisire maggiore indipendenza e di ritagliarsi una propria porzione di terra, chiamata Kurdistan. Nel trattato di Sèvres del 1920, gli alleati occidentali stabiliscono la creazione di uno stato curdo, ma qualche anno dopo, col trattato di Losanna, che definisce i nuovi confini turchi, non si fa menzione del Kurdistan, costringendo i curdi a minoranza nei rispettivi territori. Durante la divisione da parte occidentale dei confini del medio-oriente, il Kurdistan non è stato preso in considerazione, e ogni tentativo successivo di indipendenza è stato soppresso. Da questo momento fino ai giorni nostri, l’animosità tra curdi e turchi è stata sempre alta, poi in parte egemonizzata dal PKK. Troppo spesso l’occhio occidentale si riferisce ai curdi in senso monolitico, sorvolando su differenze interne di tipo storico, politico, ideologico, ragione per cui non è possibile identificare il PKK con l’etnia curda e quindi etichettare i curdi come terroristi, anzi lo stesso PKK è accusato di reprimere gli stessi curdi che differiscono per ideologia o religione. 

 

Il via libera della NATO

L’origine delle tensioni tra i due stati nordici e la Turchia nascono per il mero fatto che non tutti i gruppi che Ankara considera terroristici lo sono anche per Stoccolma e Helsinki. Il PKK è considerato tale da tutte e tre le parti, mentre YPG e PYD compaiono solo nella lista turca. 

Dopo il memorandum, le reazioni più severe sono state in Svezia, dove lo Swedish left party accusa di “aver venduto i curdi alla Turchia e aveva pronosticato che l’entrata nella NATO avrebbe portato negative conseguenze”. La Svezia è da tempo una “spina nel fianco” della Turchia, mettendo in luce le violazioni dei diritti umani in Turchia: non a caso nel paese nordico la diaspora curda ammonta a 100mila persone. L’accordo tra i tre stati per favorire l’alleanza ha però intimorito alcuni curdi, che temono di essere il prezzo da pagare per rabbonire la contrarietà turca. “I curdi sono stati traditi molte volte nella storia”, dice Aytar, professore associato presso l’Università di Malardalen nella Svezia orientale. “Forse Erdoğan sta scommettendo di poter invadere nuove parti del Rojava (le regioni prevalentemente curde della Siria settentrionale) e che l’Occidente sarà tranquillo per via della questione dell’adesione alla NATO. Se l’Occidente semplicemente chiude gli occhi, lui sarà felice”. Non a caso, il presidente turco circa un mese fa ha dichiarato che avrebbe lanciato una nuova offensiva nel nord della Siria per “estendere di 30 km le zone di sicurezza profonde lungo i bordi”. Nello scenario di una nuova offensiva turca, lo YPG sarebbe sotto il mirino di Ankara, poiché controlla gran parte del territorio, ma ciò causerebbe danni anche all’alleato USA, che ha espresso preoccupazione per un peggioramento della stabilità regionale. Un alto funzionario turco in condizione di anonimato, ha dichiarato a Reuters che “la Turchia farà questa operazione in un modo o nell’altro”. 

Insomma, il memorandum – seppur vago, come già ribadito – deve essere compreso partendo anche da questa chiave di lettura: un compromesso, dove NATO e Turchia dirigono i loro sguardi solo su alcune aree, sorvolando su altre questioni che potrebbero minare la stabilità dell’alleanza. Già ad aprile di quest’anno, il partito HDP – Partito democratico popolare filo-curdo – in Turchia vedeva l’avanzare di pressione a suo carico: il partito rischia lo scioglimento da parte della Corte Costituzionale per via dell’accusa – ormai sempre identica – di sostegno al PKK. È stato dato anche l’ordine per la detenzione di 91 persone affiliate al partito, con l’evidente obiettivo di minare la rappresentanza curda nel paese. In questo contesto, il fatto che due paesi tra i primi al mondo per la difesa dei diritti umani si mettano al tavolo a discutere con la Turchia su la questione curda, è da ritenere assai preoccupante, un compromesso che molte persone potrebbero pagare con i propri diritti, con la propria vita. Su questa linea, infine, è interessante citare l’opinione presente in un articolo di The independent, dove Minna Alander, una specialista del nord Europa presso l’Istituto tedesco per gli affari internazionali e di sicurezza a Berlino, dice che “era chiaro che la Turchia non può e non vuole impedire a Finlandia e Svezia di diventare membri. Il tempo era dalla parte di Finlandia e Svezia perché la strategia di blocco non avrebbe funzionato dopo un po’”, spiegando come Svezia e Finlandia lavorano a stretto contatto con la NATO da decenni; coordinamento accentuato dopo l’attacco russo in Crimea nel 2014. Dunque, i due paesi nordici già concordavano le loro linee operative con la NATO, indipendentemente dall’adesione formale.

 

Lo specchio occidentale sulla pelle dei curdi

La formula “alleanza difensiva” alla base della NATO scricchiola sempre di più, dato che uno stato membro dal 1952 può attivamente perseguitare e reprimere la minoranza curda, facendo comunque parte di un’alleanza che si proclama per la pace. E se il PKK ha concorso ad aumentare le vittime del conflitto interno, l’approccio soffocante e repressivo turco – sono note le torture subite dagli attivisti curdi – non ha dato spazio ad altre organizzazioni curde più accomodanti. Tale condotta non ha fatto altro che “avvelenare” ancora di più la minoranza curda e quindi aumentare le file del PKK.

Erdoğan, visto come l’uomo bellicoso e isolato, è abilitato dai paesi occidentali in queste azioni, considerando anche che la Turchia possiede il secondo esercito più grande della NATO, anche per via della sua partecipazione all’alleanza. Si tratta di uno specchio che possiamo usare per osservare la forma dell’alleanza nord-atlantica: nell’oppressione turca nei confronti dei curdi, l’Occidente è partecipe così come la Turchia. Ci troviamo, spesso, a elencare i problemi esterni ed interni del presidente turco, mentre per quanto riguarda l’altare di sacrificio dei curdi, è necessario fare chiarezza sulla complicità dell’alleanza che conduce il mondo occidentale, la quale ha ripreso quota a seguito dell’invasione russa all’Ucraina. Come scrive The Atlantic, sembra un accidentale Trumpificazione della NATO, dove i membri hanno innalzato i loro tetti per le difese, e soprattutto tendono ad avere occhi per gli interessi strettamente occidentali e meno per ciò che è considerato (iniquamente) esterno. Non è certo opera diretta dell’ex presidente americano, ma ciò testimonia un maggiore allineamento generale dell’alleanza pur di mantenere lo status quo delle origini, e questo a discapito dei diritti fondamentali di altri. È quindi significativo che nelle ultime settimane si sia parlato di curdi e diritti umani, ma ciò è avvenuto solo per una questione di riflesso, ossia le minacce turche alla NATO, evidenziando una gerarchia tra gli interessi all’interno dell’alleanza, dove solo alcuni problemi possono essere visti.

Articolo di Nicolò Benassi