Di’ tutta la verità ma dilla obliqua

di Teresa Fraioli

Il padre aveva sistemato la radio portatile con disattenzione, sull’ultimo angolo del telo, e la sabbia ci stava poco a poco scivolando intorno. Il bambino la guardava in apprensione, ogni tanto allungava un piede nel tentativo di allontanare i granelli che la assalivano; l’uomo non sembrava farci caso. Si allungò per accenderla.
«Vuoi sentire la partita?» chiese al bambino, nel tentativo goffo di sporgersi verso la radio dall’altro lato dell’asciugamano, tenendo un piede sull’angolo opposto  e il resto del corpo a riparare i panini dell’autogrill.
«No».
L’uomo l’accese comunque. Le vibrazioni di un piano ondeggiarono un po’ e smossero la sabbia.
«Ecco. Il jazz, ti piace?»
Il bambino alzò lo sguardo verso il mare e si strinse nelle spalle. L’acqua restituiva un grigio plumbeo, minaccioso, che si muoveva come un unico organismo quando le onde andavano a rompersi sulla spiaggia nerastra. Il bambino si piegò verso lo zainetto colorato, lo pulì minuziosamente dalla sabbia e se lo strinse al petto. Percorse con le dita le cuciture colorate, vecchie di anni ma ancora robuste, e si soffermò su un filo tirato: aggrottò le sopracciglia per la concentrazione e tentò senza successo di rimetterlo al suo posto.
Dietro di loro, la casupola azzurra che avevano affittato per il mese sembrava essere stata costruita con dedizione e poi dimenticata, sola fra i canneti incolti che crescevano dietro la striscia di sabbia.
Il bambino aprì la cerniera dello zainetto. Prese a rovistarlo in fretta, quasi ansimando. Il padre si girò a guardarlo, ma prima che potesse decidere cosa dire il bambino trovò quello che stava cercando. Smise di respirare affannosamente. Si rigirò tra le mani il cubo di Rubik, tutte le facce erano mischiate.
L’uomo lo guardò per un po’.
«Poi ci facciamo un bel bagno, eh?»
Il bambino alzò lo sguardo dal gioco e lo fissò, gli occhi grandi e quasi neri nella luce bianca.
«Tanto fra poco piove».
Il padre si sforzò di tenere la bocca tirata in un sorriso che non poteva rilasciare: il bambino continuava a guardarlo. Poi il bambino distolse lo sguardo e fece scattare due volte il cubo.
«Perché mamma non è venuta, al mare?»
Colonna di sinistra verso l’alto, riga centrale verso destra.
Il padre sciolse la smorfia e tirò un sospiro. Prese un pugno di sabbia e lasciò che gli scivolasse tra le dita in pochi secondi, senza opporre resistenza.
«Mamma voleva un po’ di tempo da sola. Per pensare».
«Non può pensare quando ci siamo noi?»
«A quanto pare no».
Il bambino fece ruotare bruscamente la colonna di sinistra e quella si inceppò. Ripeté un paio di volte il movimento – uno scatto secco del polso – accanendosi contro la schiera di quadratini rossi. Poi socchiuse gli occhi, corrucciò le sopracciglia, strinse le dita sul cubo e lo scagliò con forza sull’asciugamano. Una manciata di sabbia ricoprì la pellicola dei panini.
Il padre restò in silenzio, si chinò a prenderne uno, lo sfiorò con le dita per ripulirlo dalla sabbia, e fece per porgerlo al bambino. Ma per il figlio non esisteva nessuno in quel momento.
«Posso abbracciarti?» chiese il padre.
Il bambino fece spallucce e non rispose. Si lasciò abbracciare comunque, smettendo per un attimo di risolvere il cubo.
Suo padre doveva essersi dimenticato di farsi la barba, perché quando lo strinse gli punse la faccia. Ultimamente dimenticava spesso di radersi e rendeva ancora più spiacevoli le dimostrazioni di affetto fisico. Quel giorno aveva anche due calzini diversi, notò il bambino, e una camicia con i disegni che non gli vedeva addosso da un po’.
Poi il padre sciolse l’abbraccio, soffiò via un po’ di sabbia dal panino e glielo porse sorridendo.
Il bambino diede un paio di morsi, lo rincartò con cura e lo abbandonò sul telo.
«Oh, beh, se non ti piace puoi anche non mangiarlo. Tanto stasera ci facciamo una bella pasta. Al pesto, ti va?»
«Non abbiamo fatto la spesa».
L’uomo rimase perplesso qualche secondo, alzò un po’ il volume della radio.
«Beh, ci andremo stasera».
«È domenica. Non si fa la spesa di domenica».
Il padre trattenne il fiato e smise di rispondere. Il mare si schiantava con più forza ora, e produceva una schiuma densa che certe volte restava a seccarsi sul bagnasciuga.
Il bambino si mosse a disagio, riprese in mano il cubo.
«Sennò può venire mamma a farci la cena. Può fare le polpette».
Si guardarono entrambi. L’uomo abbassò la radio.
«Mamma non viene, Giulio. Ci faremo una vacanza noi due».
Il bambino non nascose la delusione: «Perché non vuole stare con noi?»
L’uomo esitò, scacciò con frustrazione la sabbia che si depositava sulle casse.
«Certo che vuole stare con te. Siamo io e la mamma che non stiamo più bene insieme».
Ora il bambino stava risolvendo il cubo con una velocità impressionante: le dita si muovevano a scatti, il padre ebbe l’irrazionale preoccupazione che avrebbe potuto slogarsele.
«Non state più bene insieme o è lei che non sta bene con te?»
L’uomo restò interdetto. Si chiese se il bambino avesse notato quei movimenti. I sussulti di quando le posava le mani sui fianchi, l’assenza di risate dopo le battute, il disgusto con cui ultimamente lo osservava mangiare. Quel modo rapido, frettoloso, con cui allontanava le mani quando rischiavano di sfiorare le sue.
Senza accorgersene, l’uomo aveva iniziato a scavare un cunicolo nella sabbia, raspando con la mano. Con un paio di colpi risalì verso l’alto e donò al suo cunicolo due aperture: una striscia di sabbia bagnata resisteva sulla buca, con un terzo colpo sarebbe crollata.
«Sposare qualcuno, Giulio… sposare qualcuno è come costruire un ponte. Qualche anno fa è crollato quel ponte, ti ricordi? Quando lo avevano costruito, non pensavano che sarebbe crollato».
Con uno scatto del polso il bambino completò la faccia gialla del cubo.
«Certo. Sennò che lo costruivano a fare?»
«Esatto».
La radio restituiva ancora il piano jazz, che rotolava insieme alle onde scure e conduceva le parole su un tono frettoloso.
«Quando si costruisce un ponte uno fa tutto il possibile per farlo stare su, così che colleghi due terre, due mondi. Si mettono i pilastri, i tiranti, e si costruisce come se dovesse durare all’infinito. Poi però passa il tempo e i tiranti si rovinano, si indeboliscono. Si accumulano tante cose sopra il ponte e a un certo punto non ce la fa più».
Il bambino completò l’ultima faccia, quella verde, ma si accorse che c’era un pezzettino blu in mezzo. Cambiò espressione.
«Cos’è che si accumula?»
Il padre non rispose.
«È per quella cosa che ha detto il dottore?» fece, senza guardarlo «L’autismo?»
«Oh, no, Giulio. No,» gli accarezzò la testa. Il bambino finì il cubo senza guardarlo, gli occhi fissi sulla sabbia.
«E quando crolla il ponte?» chiese dando un colpo alla striscia di sabbia umida che resisteva sulla piccola buca.
Il padre osservò i granelli bagnati cadere dentro la fossa: quelli in superficie volarono via.
Il bambino lo guardava aspettando, ma l’uomo fissava i granelli di sabbia che scivolavano da un lato e dall’altro e si scambiavano di posto. Qualcuno, ogni tanto, riusciva a scappare sollevandosi nel vento. Attendeva che si fermassero: che trovassero una loro stabilità e smettessero di muoversi in quel modo caotico, irregolare. Che tornassero dov’erano oppure sparissero nell’aria, interrompendo il caos. Poi si ricordò che doveva rispondere. Il bambino aveva risolto il cubo e fissava il padre. Lui lo guardò di rimando.
«O si ricostruisce, o si trova un’altra strada».
Il bambino non disse niente.
«Certe volte devi solo fare un giro un po’ più lungo».

Articolo di Teresa Fraioli