Didattica a distanza: soluzione necessaria, ma non quella giusta

Come il COVID-19 sta avendo effetto sul sistema scolastico italiano

Credere che la scuola italiana riesca a garantire davvero il diritto allo studio, presa coscienza della diversità di contesti a cui dovrebbe far fronte, e che addirittura possa svolgere il suo ruolo profondo di parificatrice sociale è semplicemente impossibile. Una verità ovvia, affrontata e discussa con frequenza abbastanza ondivaga dal dibattito pubblico. Purtroppo però, gli studenti di ogni ordine e grado, dalle elementari alle università, per lenta e macchinosa disposizione ministeriale si sono ritrovati a essere valutati attraverso la formula tanto inedita quanto incerta, labile e abbastanza inesatta della “didattica a distanza”.

Le modalità con cui la DAD è stata impostata dal Ministero a livello comunicativo come le sue ripercussioni pratiche hanno fatto emergere le gravi contraddizioni sociali del sistema scolastico italiano, grovigli di problemi che una volta venuti a galla hanno dimostrato con violenza come sia inconcepibile la garanzia di un reale diritto allo studio in questi termini, esplicitando chiaramente l’impossibilità di una scuola che funzioni da strumento di coesione e inclusione sociale da parte dello Stato.

Prima di analizzare questa burrascosa situazione è bene riflettere su quali siano le radici di questi problemi apparentemente sorti con l’emergenza Covid-19, di come invece affondino nella struttura stessa della nostra istruzione pubblica, che al di là della luce datagli dalla crisi esistono e ostacolano,  anche in tempo di pace, il funzionamento reale, l’impatto profondo che dovrebbe avere la scuola italiana sulla società della quale è responsabile per vie neanche troppo indirette.

Quindi si deve purtroppo parlare di una “scuola di classe”:  semplificando, di una scuola che forma cittadini di serie A e di serie B, spessissimo incapace di far fronte a contesti sociali dove l’istruzione pubblica ha la responsabilità comunitaria di una presenza costante e costruttiva. È dovuta, senza scavare troppo in profondità, alla successione tragica di riforme, leggi e tagli che tratteggiano il ritratto sfregiato del nostro sistema educativo: dalla riforma Gelmini passando per la legge 107 della Buona Scuola, fino all’Alternanza Scuola-Lavoro. La scuola italiana è stata bruscamente quanto cinicamente allontanata dalla sussidiarietà dei suoi obiettivi costituzionali. A farlo sono stati il modello aziendale di scuola, il germe della competitività e di una didattica umanamente sorda in base alle esigenze del mercato del lavoro. L’ansia di farvi accedere gli studenti nasconde il non detto, ma logicamente chiaro, che per farlo bisognerà studiare di meno. Infatti nel nome di questa frenesia dell’occupazione (che di fatto è sfruttamento) oltre a costringere gli studenti a lavorare per aziende private con la PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento, la nuova Alternanza) adesso si caldeggia l’ipotesi di limitare le scuole superiori di secondo grado a 4 anni, invece che a 5, uniformandoci agli standard europei.

È un’istruzione che divide in due binari le vite degli studenti, volendo di nuovo semplificare, in classe dirigente e classe subalterna (la sede per un approfondimento sulla stratificazione sociale in Italia oggi non è certo questa). Le divide tra chi ha un futuro garantito e chi no, e purtroppo non c’è retorica, né è una conclusione estrema, né campata in aria o su criteri ideologici, basta fare un giro sul sito del Miur. 

Davvero la scuola non si ferma?

Questa era la situazione dell’Istruzione in Italia quando, giovedì 5 marzo 2020, tutte le scuole del paese sono state chiuse in blocco per limitare i contagi da Covid-19. Il provvedimento preso dal Ministero, l’unico possibile, per rispondere all’emergenza è stato l’adozione della FAD (Formazione a Distanza) che un paio di decreti dopo ha cambiato nome in DAD (Didattica a Distanza) a marcare la stabilizzazione e il funzionamento a pieno regime del programma. La DAD consiste nel proseguimento regolare della didattica attraverso videolezioni e materiale interattivo su piattaforme online, per supplire all’impossibilità del contatto fisico tra studenti e insegnanti. Tutto nel rispetto e nel riconoscimento di “un’autonomia scolastica” in modo tale da rispondere alle singole esigenze degli istituti, per cui ogni scuola, data questa linea guida comune, può decidere come declinarla per il proprio contesto e la propria situazione.

Il primo quesito sorto con la Didattica a Distanza riguarda gli strumenti: secondo l’Istat il 38% degli studenti italiani non ha i mezzi per usufruirne. Oltre al fatto che dal 2015 grazie alla Buona Scuola gli istituti hanno a disposizione dei tablet, il Ministero ha appositamente stanziato 70 milioni per l’acquisto qualora fosse necessario di materiale informatico, affinché venga assicurata a tutti perlomeno la facoltà di connettersi e mantenere il ritmo in questi mesi d’emergenza. Restava però il problema della validità dell’anno, se questa forma di didattica potesse o no essere considerata attendibile nei risultati formativi come negli esiti di valutazione, due aspetti che hanno corrisposto anche a due  stadi dell’emergenza: subito dopo la chiusura si parlava di FAD, formazione, perché l’ipotesi stessa di valutare in questi termini non era concepibile, poi però è stato deciso di sì, gli studenti saranno valutati. Quindi la DAD presuppone una valutazione nell’accezione complessiva, completa di didattica che vuole dare; formazione e insieme valutazione, come quando si va a scuola. Inizialmente la ministra Azzolina si era mostrata irremovibile anche sulle bocciature, questione più scottante insieme a quella degli esami di Stato, poi però ha dovuto cedere all’evidenza che la Didattica a Distanza non dà un’esperienza scolastica equiparabile a quella normale. Per una parte, forse anche nutrita degli istituti sul territorio nazionale, sarà sicuramente molto vicina. Lo sarà per le scuole dei centri città, per le scuole che possono fare riferimento a un rapporto scuola-famiglia che addirittura influenza capillarmente le scelte amministrative degli istituti. Non possono dire lo stesso le scuole più fragili, abbandonate a loro stesse dal Ministero, che invece in periferia e in provincia si trovano a dover far fronte a situazioni molto più complesse. Difatti, l’autonomia scolastica si è rivelata un’arma a doppio taglio: se da un lato evita un ingessato assolutismo ministeriale a favore di una maggiore flessibilità, dall’altro si traduce in vero e proprio vuoto istituzionale. 

Il 7 aprile, col prolungarsi dell’emergenza sanitaria, la ministra è tornata sui suoi passi, stabilendo che se non si ritornerà in aula entro il 18 maggio non ci saranno bocciature, ma debiti formativi da recuperare a settembre anche e valutazioni di fine anno. Questo cambiamento quindi non è dovuto al riconoscimento dell’innegabile realtà che la DAD sia uno strumento che non funziona allo stesso modo in tutte le scuole d’Italia, che il percorso che permette di fare è limitato, e non solo invalida l’anno scolastico, ma è assurda anche l’ipotesi che attraverso di essa si venga valutati: forse corrisponde semplicemente a un compromesso in risposta alle pressioni che chiedevano il 6 politico. Gli estremi per una valutazione non ci sono: in molte scuole non sono state neanche state avviate le videolezioni, in molte altre non funzionano, lo svolgimento della DAD è fortemente compromesso per i motivi più disparati. Lo dimostra l’Osservatorio sulla valutazione a distanza attivato dall’organizzazione studentesca OSA, che da alcuni giorni sta raccogliendo tramite video le testimonianze anonime di studenti in contesti scolastici e didattici nei quali la trasparenza della valutazione, o essa stessa, è impossibilitata.

Un ragazzo di un Istituto tecnico in provincia di Roma racconta come la piattaforma per la didattica online sia inutilizzabile, di come dopo più di un mese non sia stata effettuata nemmeno una videolezione.  Nonostante ciò, seguendo le direttive ministeriali, i docenti hanno deciso di sottoporre comunque gli allievi a verifiche e interrogazioni senza avere mai messo a disposizione materiale per lo studio individuale, incrementando una mole vertiginosa di insufficienze che andranno recuperate a settembre in modalità ancora incognite. Un ragazzo di un Liceo artistico dell’hinterland milanese occidentale, invece, racconta di come grazie all’autonomia scolastica il suo istituto abbia fissato 35 ore settimanali di DAD, 6 al giorno (le scuole dei centri storici di città come Roma o Milano hanno imposto un tetto che spesso scende alle tre ore giornaliere). Inoltre non viene presa considerazione di una situazione fuori dall’ordinario, richiedendo lavoro prodotto con materiale inadatto, nuocendo al contenuto della didattica e alla media degli studenti, il recupero di tutte le insufficienze è posticipato al prossimo anno scolastico.

Eppure lo slogan, l’hashtag della ministra è #LaScuolaNonSiFerma, la scuola italiana è un’azienda e per il Miur una fetta consistente delle scuole del paese non fa testo.

Il Coronavirus ha aperto una voragine: nelle contraddizioni emerse per l’occasione si riflettono dieci anni di riforme e una mentalità che ci avvicina sempre di più al baratro. Ovviamente additare il Ministero dell’Istruzione come unico responsabile dal quale pretendere che sia fatta giustizia sarebbe deleterio, per risolvere il problema c’è bisogno di processi politici proporzionati a quelli che hanno causato il problema: si radica nella direzione neoliberista presa dall’Unione Europea, che sta diventando il suo carattere distintivo.

Articolo di Ismaele Calaciura Errante