DIRTY DATA

L’impatto ambientale dell’infrastruttura delle telecomunicazioni

LA RETE DELL’INFRASTRUTTURA

Il lifecycle della rete

Nell’immaginario collettivo, quando si portano avanti analisi sull’impatto dell’industria umana sull’ambiente uno degli ambiti produttivi dal volto più eco-friendly è quello delle telecomunicazioni (TLC). Questa attitudine deriva dall’incapacità di riconoscere un impatto fisico effettivo causato da un sistema percepito come totalmente immateriale. Si tratta di una disposizione assolutamente sbagliata: la rete infrastrutturale delle telecomunicazioni comporta delle forti ripercussioni sull’ambiente in ogni singola fase del suo life cycle. L’industria delle TLC ricopre sempre maggiore importanza e vede una crescita estremamente rapida dell’utenza online mondiale, 25 volte più alta rispetto al 2011 per la sola rete mobile. Bisogna iniziare ad interrogarsi sull’effettiva eco-sostenibilità del sistema telecomunicativo e della sua rete infrastrutturale in ogni sua singola fase, direttamente partendo dalla sua effettiva realizzazione. Gli impatti ambientali maggiori nella fase di costruzione sono riscontrabili nel consumo di materie prime per la realizzazione delle leghe metalliche necessarie per la creazione di cavi e strutture (principalmente rame ed acciaio), nei costi energetici del processo di produzione dei materiali e nelle emissioni causate dal trasporto dei suddetti componenti nelle strutture per l’assemblamento. In seguito alla fase di costruzione, segue quella che si rivela essere più complicata a livello d’impatto ambientale, ossia la fase operativa della struttura. Le dinamiche ambientali che si sviluppano in questo caso sono legate al consumo di energia elettrica per permettere il funzionamento della struttura: maggiore sarà la sua capacità di immagazzinazione e trasmissione dati, maggiore sarà il suo consumo energetico. Inoltre, le strutture non sono in grado di regolare il fabbisogno energetico nei momenti di basso traffico, mantenendo dunque elevati i consumi anche quando non è necessario. Infine, nella fase di “fine della vita” delle strutture, la maggiore problematica risiede in un “end of life treatment” incapace di smaltire e riciclare i prodotti hi-tech. Gli scarti non vengono recuperati sistematicamente ed essendo destinati ad aumentare di anno in anno a causa dei crescenti investimenti nelle TLC finiranno a popolare le enormi discariche del terzo mondo. Ogni singola fase del processo di vita della rete telecomunicativa comporta delle forti problematiche ambientali, per troppo tempo sottovalutate e che ora devono essere oggetto di maggiore attenzione rispetto al passato.

 

Il costo del bitrate

Le emissioni di gas serra causate dall’accelerazione del traffico dati

L’insieme delle chiamate, dei video, delle canzoni, dei documenti, dei programmi tv e radio che popolano la vita quotidiana di tutti si muove da dispositivo a dispositivo su una rete complessa ed eterogenea, fatta di cavi e onde elettromagnetiche e regolata da protocolli oscuri ai più. Negli ultimi anni questo traffico di dati è esploso manifestando una tendenza che verrà confermata in futuro. Solo quello da dispositivi mobili raddoppia ogni anno. Contribuiscono a questo boom numerosi fattori: l’arrivo dell’Internet of Things e le sue svariate applicazioni, la sempre maggiore disponibilità di device e le nuove tecnologie che permettono un aumento del bit rate. Il costo energetico di una così va- sta accelerazione della comunicazione spesso passa in secondo piano, sia perché viene oscurato dalla promessa che la tecnologia possa portare ad un uso più efficiente delle risorse, sia a causa dell’invisibilità di un’infrastruttura perva- siva ma smaterializzata. In ogni caso se si fallirà a tenere conto degli “effetti rimbalzo” causati dall’esplo- sione scoordinata dell”era degli zettabyte”, l’incremento del traffico complessivo dell’impatto energetico – e quindi le emissioni – non sarà destinato a diminuire.

La visione d’insieme

Ad oggi, alle porte del 2020, secondo il report Lean ICT di The Shift Project, il settore delle telecomunicazioni si attesta globalmente al 4% delle emissioni di gas serra totali. Nel 2025, mantenendo l’attuale tasso di efficienza energetica dovrebbe passare a quasi l’8%, raddoppiando nell’arco di cinque anni. Si tratta del settore industriale con il tasso di crescita delle emissioni più alto in assoluto e che è già superiore al trasporto aereo. Secondo un altro report di CISCO il traffico passerà dai 46.400 GB/secondo del 2017 a 150.700 GB/ secondo nel 2022, più che triplicando. Sebbene calcolare la quantità di CO2 per ogni gigabyte trasmesso sia difficile e dipenda da numerosi fattori è facile constatare che, se anche la trasmissione di 10 GB provocasse l’emissione di 1 kg di CO2, con numeri del genere l’infrastruttura di telecomunicazioni porterebbe ad un impatto di centinaia di milioni (se non miliardi) di tonnellate di CO2 immesse nell’atmosfera ogni anno. Si tratta di un contributo critico al costante aumento – mai fermatosi – delle emissioni globali di CO2 annuali, ad oggi attorno alle 37 GtCO2. Le infrastrutture di telecomunicazione infatti portano a consumi variegati di energia a seconda della tecnologia, che si riflettono sulla quantità di CO2 prodotta per soddisfarne il bisogno: dai 200 kg/GB trasmesso della rete 3G mobile ad 1 kg (o meno) per 20GB trasmessi da banda larga fissa. L’incremento è quasi del tutto riconducibile al traffico sui GAFAM: i giganti dell’informazione Google, Apple, Facebook e Amazon; assieme alla controparte cinese BATX, Baidu, Alibaba, Tencent, Xiaomi. Un’ingente porzione è dovuta allo streaming video, una delle attività più pesanti dal punto di vista di trasmissione dati. La quantità di CO2 emessa invece riguarda il consumo di energia elettrica da parte delle imprese che gestiscono l’infrastruttura di TLC nel complesso. Quindi è importante non solo la composizione dell’energia elettrica sulla rete (“sporca” o rinnovabile), ma anche le scelte che le grandi aziende nel settore operano relativamente ad efficienza energetica ed energia elettrica acquistata.

La realtà italiana

Il settore italiano delle TLC è in crescita e ogni anno si attesta su milioni di tonnellate (Mt) di gas serra emessi. Telecom Italia, il principale provider italiano si attesta attorno ad 1 MtCO2 emessi, triplicando rispetto al 2015, per aver smesso di acquistare energia elettrica da fonti rinnovabili, preferendo investire in efficienza energetica. Le emissioni di Wind-Tre (0.3 MtCO2) sono apparentemente calate negli ultimi anni, questo principalmente per aver conferito parte degli impianti a “Galata S.p.A.”, una società esterna. Fastweb (0.2 MtCO2) invece ha un aumento sostanziale delle emissioni nell’ultimo anno a causa dell’investimento in fibra. Tuttavia vengono anche diffusi dati diversi: quelli dei kg di CO2 per ogni GB trasmesso. Sebbene questi siano in calo, grazie al continuo miglioramento tecnologico, la quantità di dati trasmessi aumenta in maniera più alta, generando quindi un complessivo aumento delle emissioni. Tant’è che ormai la strategia in politiche ambientali delle aziende di TLC in Italia ad oggi consiste, più che nel ridurre le emissioni, nello stabilizzarle diminuendo il rapporto emissioni/dati ma aumentando il traffico. È uno scenario che si presenta anche con il 5G in Italia, dove il consumo energetico nel breve periodo si prevede in aumento fino al 170% a causa della mag- giore granularità delle “celle di rete” e quindi dei più numerosi ripetitori. Questo rinnovato dispendio causa preoccupazione anche alle aziende di TLC italiane. Tuttavia, sul lungo periodo, il 5G dovrebbe garantire maggiore efficienza, anche in altri settori industriali. In questi casi però spesso si fallisce a tenere in considerazione gli “effetti rimbalzo” (ovvero l’uso maggiore di una risorsa dopo che diventa più ef- ficiente la sua produzione) e quindi un bilancio energetico complessivamente negativo o non tanto positivo quanto previsto. La soluzione è l’utilizzo esclusivo di energie rinnovabili e la “sobrietà digitale” da parte dei colossi delle TLC. I dati sulle emissioni inoltre vengono diffusi dalle aziende più grandi attraverso report sulla sostenibilità ambientale destinati agli stakeholder. Tuttavia la natura aziendale spesso è inconiugabile con un serio confronto con la crisi climatica. Gli stakeholder infatti non rappresentano le esigenze complessive del pianeta e della popolazione mondiale, ma esigenze particolari, spesso in contrasto tra loro e comunque volte alla massimizzazione del profitto.

 

I NODI DELL’INFRASTRUTTURA

 

Le stazioni delle telecomunicazioni

Oltre alla rete, l’infrastruttura di TLC è costituita da nodi: stazioni terminali o intermedie del processo telecomunicativo. È all’interno di questi che avviene il processo di commutazione, ossia l’indirizzamento verso il destinatario scelto. Sono nodi le antenne radio, le centrali telefoniche, le stazioni radio base. Ed estendo un po’ la definizione si possono aggiungere a questi anche i dispositivi terminali usati nei processi industriali e nell’infrastruttura digitale di internet: appartengono a questa categoria i dispositivi dell’Industrial Internet of Things (IIoT) e gli ormai ben noti data center. Tra i nodi più emblematici della rete mobile ci sono le stazioni radio base,
ovvero quelle enormi torri che operano inviando segnali elettromagnetici agli altri ripetitori che poi li ritrasmettono in uscita con un segnale a potenza maggiore. Secondo i dati del 2007 del CEM-ISPRA, in Italia sono presenti 60.000 stazioni radio base (SRB). Il loro consumo energetico annuo totale è circa di 2,1 TWh/ anno, che vuol dire circa 300.000.000€ di bolletta energetica annua; si tratta di 1,2 Mt di CO2 immesse nell’atmosfera ogni anno. Se si parla invece di ozono, la situazione è critica, dal momento che il parametro stabilito non è stato rispettato dall’80% dei siti presi in esame. Sul lato dei dispositivi terminali, nel 2020 l’avvento del 5G aprirà le porte proprio all’Industrial Internet of Things, il cui scopo è quello di migliorare il processo produttivo di un’azienda connettendo tra loro le macchine ed elaborando una serie di dati che consenta una manutenzione predittiva. L’IIoT è considerato il fondamento dell’industria 4.0 nel 2018 ha raggiunto un valore di 3,2 miliardi di euro, ma neanche questo è esente da un impatto sul clima provocato dalla fame di energia del digitale. L’incremento vertiginoso dell’implementazione di questi dispositivi sarà uno dei fattori chiave nell’aumento del traffico dati su Internet che avverrà nei prossimi anni e quindi una causa concorrente alla prima ragione dell’aumento complessivo delle emissioni per le TLC.

 

IL PESO DELLE NUVOLE – l’inquinamento invisibile di internet e del cloud computing

I data center e il loro impatto ambientale

Trent’anni fa, nel 1989, Tim Berners-Lee proponeva al CERN di Ginevra il progetto di un “ampio database ipertestuale con link” che poi sarebbe diventato il World Wide Web. Oggi, Internet collega oltre 4 miliardi di persone e ha un traffico giornaliero che supera i 3 miliardi di gigabyte. L’enorme quantità di dati che vengono scambiati, scaricati e archiviati in tutto il mondo non viaggia nell’etere, ma si sposta attraverso una rete globale di cavi sottomarini che attraversa i continenti. L’ultimo snodo del loro percorso è costituito dall’immagazzinamento nei data center, caveau che offrono a utenti e imprese servizi di server, storage e networking in affitto, proprietari o on demand mediante il cloud, all’interno di complessi che possono arrivare ad occupare fino a mezzo chilometro quadrato. Strutture così cruciali per la navigazione, nonostante i loro indubbi benefici in termini di sicurezza, sono responsabili di un inquinamento poco reclamizzato ma di grande rilevanza. Mark Radka, direttore del reparto Energia e Clima dell’ONU, ha affermato che “non connettiamo mentalmente il loro utilizzo all’impatto che hanno sull’ambiente”, definendo Internet “una macchina invisibile”. Per alimentare queste mastodontiche server farm sono necessari gruppi di continuità e batterie capaci di fornire una città di medie dimensioni e che spesso funzionano al massimo della potenza per evitare ritardi nella connessione, con un conseguente spreco del 90% dell’energia elettrica.

La minaccia dei blackout, che si può tradurre in una perdita di clienti per le aziende, talvolta viene preventivata con l’impiego di generatori a gas o a diesel, installati in esplicita violazione delle normative contro l’inquinamento atmosferico. Senza contare anche l’overcrowding di strutture in alcune zone, nel Nord Europa e in Scandinavia, particolarmente adatte a causa delle loro basse temperature che servono a raffreddare gli impianti. Il report di Greenpeace del 2017 Clicking Clean: Who is winning the race to build a green Internet? ha evidenziato quanto negli ultimi anni sia moltiplicata la presenza, e di conseguenza anche l’impatto ambientale, dei data center: nel 2012 consumavano il 15% dell’energia elettrica del settore delle Information Technologies, arrivando al 21% cinque anni più tardi. Altri studi hanno calcolato che nel 2016 il fabbisogno di energia delle server farm su scala globale è stato di 416 TWh, un valore superiore a quello del Regno Unito e che ammonta al 3% dell’elettricità mondiale. Nello stesso anno i data center sono stati responsabili del 2% delle emissioni totali di gas serra, una quota pari a quella dell’intera industria aeronautica. Sempre Greenpeace ha analizzato i colossi tech che gestiscono queste strutture: Amazon e Alibaba sono state le due aziende più criticate per il loro impiego di combustibili fossili anche se non mancano gli esempi virtuosi come Apple e Google, che nel 2018 ha acquistato energia da sole fonti rinnovabili per il secondo anno di fila.

 

La situazione in Italia tra criticità e possibili scenari

Il primo data center italiano è stato il centro di via Caldera a Milano, un’area di appena 30 metri quadri convertita alla fibra ottica nel 1994 da Telecom. Da allora le strutture sono diventate 75, collocate perlopiù nel nord della penisola, con una concentrazione particolare nel capoluogo lombardo. La crescita continua delle server farm in Italia è dovuta a necessità strutturali: più hub ci sono, minore è la latenza della rete. La pubblica amministrazione e le piccole e medie imprese dovranno attraversare presto una transizione al digitale veicolata dal cloud, che sta determinando lo sviluppo attuale. Questo nonostante il costo dell’energia elettrica del nostro paese sia uno dei più alti in Europa, con il rischio di scoraggiare possibili investitori esteri. L’Italia, dove il cloud ha comunque un valore di oltre 2,7 miliardi di euro, si tro- va ancora a rincorrere stati europei all’avanguardia come il Regno Unito e i paesi scandinavi, che ospitano strutture di colossi tech del calibro di Google, Apple e Microsoft. I data center distribuiti sul suolo della penisola appartengono sia a operatori stranieri, come Verizon, che a piccole, medie e grandi realtà italiane, da Tiscali a Telemar e Naquadria.

Nonostante non manchino esempi di provider green e sostenitori delle energie rinnovabili, come il francese Data4, l’americano Equinix e il romano Irideos, in generale il quadro italiano si conferma carente dal punto di vista della trasparenza energetica. Un punto che contraddistingue in negativo il nostro paese rispetto al resto d’Europa e agli Stati Uniti, dove le compagnie sono sempre più portate a condividere dati riguardo all’impatto energetico delle loro server farm, stimolate anche dal dibattito ambientale che si è consolidato nell’ultimo anno. Una politica che sembra aliena alla visione di molti dei servizi di hosting in Italia, che preferiscono invece tacere per risparmiare acquistando energia proveniente da fonti non rinnovabili o per incrementare le prestazioni delle loro strutture mediante l’impiego di generatori diesel. Un espediente, quest’ultimo, che per esempio è stato adottato dalla Telemar nel suo piccolo data center di Vicenza. Senza contare il rischio dovuto allo sbarco in Italia di due multinazionali della comunicazione come IBM e Amazon Web Services, catalogate da Greenpeace come alcune delle aziende hi-tech più indietro dal punto di vista della sostenibilità ambientale.

La prima ha aperto tre data center a Milano e Roma a partire dal 2015, la seconda inaugurerà nel 2020 le sue prime tre strutture italiane. In particolare, è stata la divisione cloud della creatura di Jeff Bezos quella finita nell’occhio del ciclone, essendo da sempre recalcitrante a rendere di pubblico dominio l’impronta delle proprie server farm, in rapida espansione in tutto il mondo. Già nel 2014 Amazon aveva annunciato di voler alimentare tutte le sue strutture di rete solo con energia rinnovabile, salvo poi fare dietro front nel 2016, smettendo di pubblicare aggiornamenti sulla propria campagna e quindi di fatto rompendo la promessa fatta. Nell’ottobre di quest’anno l’azienda ha dichiarato di voler annullare completamente le proprie emissioni di carbonio entro il 2040, con l’obiettivo intermedio di portare l’utilizzo di energia pulita all’80% per il 2024. Da qui ad almeno i prossimi cinque anni, tuttavia, con ogni probabilità i data center di Amazon, tra cui quelli di prossima apertura in Italia, continueranno a essere alimentati anche da fonti inquinanti come il carbone e l’energia nucleare.

Le contraddizioni di una parte del mercato cloud italiano non cancellano però le opportunità crescenti a disposizione sia delle aziende che degli utenti in prima persona per salvaguardare l’ambiente. Da una parte ci sono i green data center, strutture sostenibili che fanno leva sulla massima efficienza energetica per limitare al minimo il loro impatto sull’ecosistema: un esempio è la server farm di Aruba a Ponte San Pietro, vicino Bergamo, la più grande d’Italia, che viene raffreddata da un impianto geotermico e alimentata da migliaia di pannelli fotovoltaici. Dall’altra le startup che investono nel cloud, come la bolognese Cubbit, che vuole creare una rete gratuita e distribuita tra gli utenti mediante le Cubbit Cell, piccoli nodi di archiviazione criptati a cui collegare i propri dispositivi per incrementare la loro memoria fino a un totale di 4 terabyte. Un’idea che permetterebbe di riciclare lo spazio cloud inutilizzato e di annullare il costo ambientale dello spostamento di dati, risparmiando fino a 10 volte in più di un data center tradizionale e costruendo un ponte per la rivoluzione imminente dell’Internet of Things.

Articolo di Luca Bagnariol, Marco Collepiccolo, Martina Taddei e Jacopo Andrea Panno