L’insostenibile disoccupazione femminile

In Italia solo una donna su due è occupata: come il Recovery Fund è stata una parziale occasione persa e su cosa ancora c’è da lavorare

22/05/2021

Lo scorso dicembre è uscita la notizia che di 101 mila posti di lavoro persi nel mese, 99 mila fossero occupati da donne. Rimane un fatto impressionante, ma non sconcertante. Il ruolo delle lavoratrici è considerato da sempre difficilmente inseribile e facilmente sacrificabile. Secondo i dati ISTAT del 2019 – quindi non condizionati dal periodo pandemico – l’occupazione femminile era tra le più basse d’Europa: inferiore al 50%, rispetto al 70% maschile. In Italia meno di una donna su due, in età lavorativa, è occupata o in cerca di un’occupazione. E quelle che lavorano guadagnano meno. Nel report ISTAT del 2018, si evince infatti come il gender pay gap, divario salariale che intercorre tra uomo e donna a parità di mansione, in Italia raggiunga il 15% medio, con picchi del 23% nel settore dirigenziale. 

Questo accade indipendentemente da escamotage argomentativi come quello “meritocratico”: le donne non guadagnano meno perché sono meno brave, ma perché sono donne. Secondo un rapporto pubblicato dal Consorzio Interuniversitario AlmaLaurea, le ragazze hanno risultati scolastici migliori dalla scuola elementare fino alla laurea di secondo livello: dal 39,1% di ragazze della scuola media che escono con un voto superiore o uguale a 9 contro il 29,8% dei compagni maschi fino al voto medio di laurea delle studentesse di 103 rispetto al 101 dei colleghi uomini. Ma se di merito non si parla, un motivo per cui le donne vengono assunte meno e guadagnano meno c’è. Le ragioni sono di carattere culturale, sociale ed economico: nelle famiglie con genitorialità eterosessuale italiane è tradizionalmente accettato che la donna si occupi della cura dei figli e della casa mentre l’uomo del sostentamento economico. 

E quando entrambi lavorano ma non esiste un welfare state in grado di assicurare asili nidi gratuiti, assistenza agli anziani e congedi di paternità adeguati, l’assenza dal lavoro della donna che si fa carico di queste mancanze pesa sulla sua carriera, dalla quale è spesso costretta ad allontanarsi. Secondo una ricerca di Manageritalia, basata su dati ISTAT e ISFOL, il 27% delle donne lascia il lavoro dopo la nascita del primo figlio, e la percentuale aumenta all’aumentare del numero dei figli. I lavori non retribuiti di cui si fa carico sottraggono tempo alla carriera lavorativa e la obbligano spesso a contratti part-time (il 33% delle occupate contro il 9% dei colleghi uomini). Secondo il Report “I tempi della vita quotidiana” promosso da ISTAT, gli uomini dichiarano di dedicare in media 9 ore a settimana ad attività non retribuite contro le 22 ore settimanali (ovvero 4 giornaliere) delle donne. 

Un altro importante problema è legato alla segregazione nel mercato del lavoro: in alcuni settori le donne sono sovra rappresentate – come tra le maestre o le addette alle vendite – mentre in altri settori sono sottorappresentate – come nel settore dirigenziale, in cui sono solo 1 su 5. La discriminazione retributiva, sebbene vietata dall’Art. 28 del Codice delle pari opportunità, continua a contribuire al divario retributivo di genere. Eppure, di una gender balance, tutti ne gioverebbero: secondo l’indagine del Gruppo Sodexo, un equo bilanciamento tra i sessi nelle aziende apporta numerosi e concreti vantaggi. Secondo le stime di Banca d’Italia un aumento del tasso di partecipazione femminile al 60% comporterebbe un aumento del PIL dal 9 al 16% (percentuali che, secondo gli analisti di McKinsey, raggiungo il 26% se si parla su scala globale). Inserendo le donne nel mercato del lavoro, infatti, si andrebbe a creare un circolo virtuoso in grado di occupare le mansioni non retribuite, e quindi non tassate, delle donne stesse. “A prescindere dal fatto che sia una questione di giustizia sociale ed equilibrio, investire sull’occupazione femmile sarebbe un buon investimento” rilascia a Scomodo l’attivista del Giusto Mezzo Francesca Borgonovo “Non servono dichiarazioni di intenti, servono investimenti e non dobbiamo vergognarci a chiedere soldi, a chiedere quello che ci meritiamo”.

 

Cosa chiede il Giusto Mezzo e perché i fondi non sono sufficienti 

Il movimento Giusto Mezzo nasce in seguito al peggioramento del livello occupazionale femminile durante la pandemia. La richiesta iniziale è quella dell’investimento del 50% dei fondi del Recovery Fund per azioni volte all’abbattimento del divario di genere. Come viene esplicitato nel loro sito, l’obiettivo è quello di valorizzare le competenze femminili nel mercato del lavoro, sia attraverso politiche fiscali sia attraverso l’implementazione di servizi. Il Recovery Fund è uno strumento della Commissione europea che ha lo scopo di rilanciare le economie dei Paesi membri tramite prestiti e risorse a fondo perduto, di cui l’importo netto dipenderà dal contributo dei vari paesi al bilancio europeo. Tra i vari obiettivi degli investimenti c’è anche l’abbattimento della disuguaglianza di genere, soprattutto in ambito lavorativo. Come affermato nella voce “Chi siamo” del sito del Giusto Mezzo, “le prime analisi sull’impatto di genere ci suggeriscono di insistere affinchè (il Recovery Fund) sia utilizzato per politiche integrate e investimenti moltiplicatori”. È per questo motivo che hanno deciso di analizzare nel dettaglio il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), presentato alla Commissione europea il 30 aprile, per capire quanti dei 221,5 miliardi di euro, compreso il fondo complementare, fossero destinati alla gender balance e capire se questa è o meno una priorità per l’Italia.

A proposito di gender pay gap, la “Missione 5- Inclusione e coesione sociale” del PNRR prevede una serie di fondi destinati alle “politiche attive vere e proprie”. Questi investimenti ammonterebbero a 7,5 miliardi, di cui 4,47 miliardi per la fiscalità a vantaggio del lavoro nel Sud Italia, assunzione di donne e giovani e  400 milioni a sostegno dell’imprenditoria femminile. Come affermato ne Le proposte del Giusto Mezzo, per quanto lo stanziamento finale sia superiore a quello della prima bozza, manca di lungimiranza. Il settore della libera professione e del lavoro autonomo femminile, in crescita, non viene praticamente citato nel Piano. Dai dati riportati nel rapporto dell’Associazione degli Enti Previdenziali Privati 2020 (ADEEP 2020) si nota come, negli ultimi 11 anni, si è alzata la percentuale di donne libere professioniste, crescendo del 53% dal 2009 al 2017. Nel 2019, le donne in questo settore erano il 41% del totale e le under 40 delle nuove iscritte superavano i colleghi quasi del 20%. Il rapporto ADEEP 2020 ci dice che la media dei redditi delle donne, nel settore del lavoro autonomo, arriva a circa 24 mila euro contro 43 mila euro degli uomini. E’ un divario di quasi il 45%. È per questo che il Giusto Mezzo chiede agevolazioni fiscali per le lavoratrici autonome o a Partite IVA, come l’estensione dell’imposta unica al 5% oltre i primi 5 anni per il regime forfettario, l’estensione del congedo obbligatorio di paternità ad almeno cinque mesi e di estensione dello stesso a tutti i lavoratori autonomi e a Partita IVA.

La crisi economica legata alla pandemia ha piegato le piccole-medie imprese: secondo l’indagine “Future of Business, realizzata a maggio 2020 da Facebook, World Bank e OCSE su un campione di PMI attive su Facebook, circa 1 su 6 (16%) in Italia ha dichiarato di aver chiuso a causa del Covid. Con queste, anche le piccole-medie imprese “rosa” – come dichiarato da un report della Camera dei deputati – per la prima volta dal 2014 hanno conosciuto una battuta d’arresto, perdendo quasi 4 mila attività su 1 milione e 336 mila del 2019. In più, le imprese femminili sono meno digitalizzate e riscontrano maggiore difficoltà nell’accedere al fisco e al credito, perché i sistemi bancari chiedono loro maggiori garanzie, come quelle reali quali privilegio, ipoteca e pegno; di crescita economica e di solidità finanziaria. Ma come afferma Francesca Borgonovo: “questo è un retaggio prettamente culturale, perché, guardando i numeri, le aziende a guida femminile sono spesso le più solventi, quelle che hanno un comportamento più virtuoso”. Già nel 2017 le imprese femminili green rappresentavano il 30% del terziario, contro il 24% di quelle maschili. Il report GreenItaly 2020, elaborato con i dati di Fondazione Symbola e Unioncamere, conferma che le start up green guidate da donne, come anche le imprese ad alta partecipazione femminile, sono generalmente più sensibili all’impatto ambientale e più propense ad investire su iniziative volte al risparmio energetico e alla riduzione di emissioni inquinanti. In queste imprese, si parla di sostenibilità non solo dal punto di vista della green economy ma anche della parità di genere: molta più attenzione è infatti posta per migliorare il welfare aziendale. Seguendo solo quello che ci dicono i dati, investire su aziende che propongono una gender balance favorisce anche la sostenibilità ambientale e sociale. Tra le donne disoccupate rientrano talenti e titoli di studio su cui lo Stato ha investito: sarebbe un suicidio economico non sfruttare le potenzialità che ha il settore lavorativo femminile.

 

Il lavoro di cura come ostacolo alla carriera

Molte donne hanno abbandonato il lavoro durante la pandemia perché non in grado di sostenere il costo della cura dei figli. “ La maggior parte dei lavori di cura è appannaggio quasi esclusivo delle donne, sulla base di un concetto di natura che non ha nessuna validità” denuncia Francesca Borgonovo. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro sono le donne a svolgere il 74% delle ore di lavoro di cura non retribuito, occupandosi e assistendo bambini, anziani e persone con disabilità non autosufficienti presenti nel proprio nucleo familiare. Le cause di questo divario sono molteplici e risalgono alle aspettative sociali che ricadono in maniera diversa sugli uomini e sulle donne. “Alla fatica delle faccende, si aggiunge tutto quel dispendio di energie intellettuali che servono a organizzare la vita domestica, il lavoro emotivo” scrive Jennifer Guerra. Secondo la giornalista, che riprende le tesi della filosofa femminista Nancy Fraser, per contrastare questa disparità è necessario riequilibrare i ruoli di genere e appianare il gap tra le ore di lavoro di cura non retribuito svolto dalle donne e dagli uomini. 


Come si legge tra le richieste de Il Giusto Mezzo: “Le donne non possono più sostituire il welfare state, non possono più farsi carico dei servizi sociali e sanitari che mancano. Le donne vogliono potersi realizzare e lavorare senza avere timore che una gravidanza possa mettere a repentaglio la carriera”. Infatti, nonostante la Legge 151 tuteli le donne in gravidanza o con figli piccoli dal licenziamento, le neo mamme si ritrovano spesso a dover richiedere la “maternità facoltativa” per occuparsi dei figli, con la riduzione dello stipendio al 70%. Questa situazione nasce da carenze dello Stato italiano: mancano gli asili nido e il 12,8% delle famiglie non possiedono i mezzi economici per pagarne la retta. Tra le richieste del movimento, per quanto riguarda il lavoro di cura, troviamo al primo posto l’aumento dei posti negli asili nido. Ad oggi, infatti, l’Italia non ha i numeri necessari per soddisfare gli standard prefissati dall’Unione Europea: strutture che diano posto ad almeno il 33% dei bambini con età inferiore a 3 anni sul territorio nazionale. Fortunatamente, nel Piano vengono stanziati 4,6 miliardi per la costruzione di asili nido e strutture per la prima infanzia e 0,9 miliardi stanziati per l’estensione del tempo pieno nelle scuole primarie e per le mense (Scomodo ha già affrontato i problemi dell’edilizia scolastica qui). Come denunciano i componenti del Giusto Mezzo, i fondi non sono sufficienti per una copertura nazionale e lasciano indietro il Sud Italia. Nel PNRR si legge come “L’attuale crisi ha colpito ulteriormente il Mezzogiorno, toccando settori centrali per l’area e incidendo pesantemente sull’occupazione femminile e giovanile”. Le dichiarazioni di intenti del Presidente del Consiglio Mario Draghi e lo stanziamento di 82 miliardi per le regioni meridionali sembrano porre al centro la questione del Sud. La maggior parte dei fondi, però, sono destinati a infrastrutture fisiche e digitali, alla transizione ecologia, servizi pubblici, sanità e Pubblica amministrazione. Le questioni di genere, purtroppo, passano in secondo piano, in regioni come la Sicilia dove l’occupazione femminile non si spinge oltre al 31% e dove ci sono 12,3 posti per i nido ogni 100 bambini. Per sanare le mancanze degli asili nido, il Giusto Mezzo aveva proposto il progetto T.A.T.I. (Ti aiuto, ti incoraggio): un elenco, in tutti i comuni italiani, di nominativi di persone disponibili a svolgere lavori di cura e dotate di specifiche qualifiche. La remunerazione del personale sarebbe avvenuta in base alle fasce di reddito delle famiglie richiedenti del servizio, con la possibilità rateizzare il pagamento. Il progetto, oltre che andare incontro alle donne, sarebbe potuto essere una buona rampa di lancio per creare nuovi posti di lavoro. 

 

Per fare in modo che la cura dei figli non incida sul lavoro delle donne, è necessario decostruire anche i ruoli di genere: per questo il Giusto Mezzo propone l’estensione del  congedo obbligatorio di paternità a 5 mesi (visto che oggi ammonta a soli 10 giorni, contro i 5 mesi del congedo obbligatorio di maternità vigente). Questa netta disparità legislativa, funge da concime per episodi di discriminazioni tra uomini e donne nel momento dell’assunzione. Francesca Borgonovo sostiene che il congedo di paternità “ metterebbe il datore di lavoro nella posizione di non dover più fare discriminazioni”. La donna diverrebbe una risorsa al pari dell’uomo. Il fatto che la questione non venga affrontata nel PNRR è una importante occasione persa. 

 

La “Missione 6-Salute” del PNRR lavora invece sul settore sanitario per cui stanzia 15,6 miliardi, di cui una parte destinata all’incremento dei servizi sanitari domiciliari. La misura alleggerisce il lavoro non retribuito delle donne, principalmente occupate nell’assistenza a malati presenti in casa, e crea posti di lavoro in un settore ad alta presenza femminile; secondo le stime, gli investimenti dovrebbero portare a un incremento dell’occupazione femminile dello 0,9% nel 2021 e del 3,7% nel triennio 2024-2026. È fondamentale quindi concentrarsi sul potenziale inclusivo dei settori in cui la politica investe. Giusto Mezzo e l’organizzazione Giovanile Uno non Basta si sono infatti uniti per sostenere la proposta dell’istituzione Valutazione sull’Impatto di Genere, per l’introduzione a livello istituzionale della valutazione trasversale dell’impatto di genere come prassi ordinaria nella fase progettuale di qualsiasi iniziativa legislativa, intervento normativo, linea di indirizzo strategico o progetto programmatico. 

Spesso, quando si parla di discriminazione di genere, ci si focalizza sulla violenza fisica o psicologica, domandandosi perchè le donne non denuncino. Oltre a un sistema giuridico lento a intervenire e che spesso colpevolizza la vittima, una delle ragioni è sicuramente di natura economica. Nel retroterra della violenza domestica si può notare spesso un’assenza di indipendenza economica. Secondo i dati di ActionAid, in collaborazione con alcuni centri antiviolenza, l’82,5% delle donne che si sono rivolte ai centri antiviolenza hanno un basso livello di indipendenza economica e il 59,1% non ha un’occupazione. Da questi numeri si evince come un ricatto economico di un compagno abusante possa comportare un’importante limitazione della libertà individuale fino all’esclusione sociale della partner. È fondamentale che le donne entrino nel mercato del lavoro per non essere più soggetti ricattabili all’interno del proprio nucleo familiare e della società.

Articolo di Cecilia Pellizzari, Marina Roio e Valentina Moro