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La doppia laurea e il dibattito che manca sull’università italiana
Il 6 aprile scorso è passata piuttosto sottotraccia la notizia dell’approvazione al Senato del disegno di legge sulla Doppia laurea. La legge, che entrerà ufficialmente in vigore il 13 maggio, permetterà a tutti gli studenti che lo desiderano di iscriversi contemporaneamente a due corsi di laurea, di laurea magistrale o di master, andando ad abrogare il divieto sancito dal secondo comma dell’articolo 142 del testo unico delle leggi sull’istruzione superiore emanato dal regio decreto del 31 agosto 1933 n°1592 che vietava questa possibilità. Il testo di legge è diventato realtà in poco tempo grazie al fatto che è riuscito ad ottenere un accordo trasversale da esponenti di quasi tutte le forze politiche: dal Partito Democratico, alla Lega, da Forza Italia al Movimento 5 Stelle, la stragrande maggior parte dei gruppi parlamentari si sono trovati d’accordo sugli obiettivi del disegno di legge.
L’iniziativa legislativa ha come obiettivo principale, si legge nel disegno di legge presentato al Senato, quello di «rafforzare la libertà di scelta degli studenti» andando a rivedere il limite di iscrizioni contemporanee ai corsi di laurea. Questo obiettivo che andrebbe accompagnato ad una revisione del numero chiuso in accesso ad alcuni corsi di laurea, secondo i relatori, andrebbe a braccetto con la richiesta europea di innalzamento del numero dei laureati: nel ddl si citano dati a suffragio di questa tesi che collocano il nostro Paese al penultimo posto nell’Unione europea per numero di laureati di età compresa tra i 30 e i 34 anni. In questo senso, la legge nasce con lo spirito di conferire maggiori possibilità agli studenti «per competere sul mercato del lavoro interno ed estero […], favorire la domanda di servizi, a vantaggio degli atenei, che ne conseguono benefici in termini di tasse universitarie, favorire l’impegno degli studenti lavoratori». La doppia laurea permetterebbe inoltre di favorire percorsi di apprendimento multidisciplinari, sempre più importanti perché, si legge nel disegno di legge, «il mercato del lavoro contemporaneo e la riorganizzazione della catena del valore […] sono incentrati sull’utilizzo massiccio di beni immateriali, cioè di una nuova forma di valore non legata alla fisicità». Da qui la possibilità di seguire più percorsi formativi contemporaneamente conferirebbe agli studenti più meritevoli e volenterosi di acquisire maggiori skill per competere efficacemente sul mondo del lavoro.
Luci e ombre della doppia laurea
Osservando le reazioni all’approvazione del disegno di legge, sembrerebbe che si sia finalmente trovata la chiave di volta per risolvere i problemi dell’Università italiana e che questa consisterebbe nel permettere la doppia iscrizione a più di un corso di laurea. Questa riforma è stata accolta positivamente dagli studenti degli AFAM, cioè delle istituzioni che erogano titoli di alta formazione artistica e musicale. Fino ad oggi infatti, gli studenti dei Conservatori si vedevano fortemente penalizzati nella possibilità di accompagnare il proprio percorso formativo in ambito artistico ad un percorso formativo “canonico” che arrivasse al conseguimento di un diploma di laurea. Giovanni Sotgiu, coordinatore nazionale dell’UDU – Unione degli Universitari, segnala come positivo questo aspetto, pur affermando che «la riflessione che sarebbe da fare a monte riguarda il fatto che, aldilà delle proprie inclinazioni personali, spesso la necessità di concentrarsi su un percorso universitario “canonico”, oltre all’AFAM, deriva dalla totale svalutazione di cui l’ambito artistico soffre nel nostro Paese, ancora arcaicamente imperniato sul presupposto che “con la cultura non si mangi”». L’UDU ha però segnalato il fatto che questa riforma potrebbe generare una pericolosa sinergia con un’altra, quella dei concorsi della pubblica amministrazione. Infatti, continua Sotgiu, «a seguito della Riforma Brunetta, che sostituisce le prove preselettive con una graduatoria basata sui titoli, quindi lauree, dottorati, master ecc. per l’accesso al lavoro nella pubblica amministrazione, è chiaro che solo chi ha avuto la possibilità di frequentare in breve tempo (o contemporaneamente) più corsi sarà avvantaggiato. Così però viene tagliata fuori una generazione che ha completato in maniera canonica il percorso di studi e che avrebbe tutte le carte per accedere al mondo del lavoro. Quello che, in sostanza, rischiamo molto seriamente di andare a creare, è una dinamica ipercompetitiva e di mercificazione del titolo che scarica le responsabilità di un mercato del lavoro (anche nel pubblico) sempre più inaccessibile, precario e frammentato, scaricando culturalmente le responsabilità sulle giovani generazioni e in particolare sulle persone in condizioni economiche meno favorevoli che saranno sempre non abbastanza titolate, o che avranno ottenuto i titoli in un tempo mai sufficientemente adeguato».
La falsa coscienza della multidisciplinarietà
Un tema sul quale il comitato per la Doppia laurea ha fatto particolarmente leva per propagandare il proprio disegno di legge riguarda la formazione multidisciplinare. Secondo i promotori infatti, la possibilità di iscrizione contemporanea a due corsi di laurea favorirebbe negli studenti che decidessero di intraprendere questo tipo di percorso un apprendimento multidisciplinare che andrebbe di pari passo con le richieste del mercato del lavoro. Per conseguire questo nobile obiettivo, la strada della doppia laurea sembra in realtà molto promettente, dal momento che il nostro sistema universitario soffre di una forte rigidità disciplinare. Infatti, in Italia, dal 1999 vige il cosiddetto “sistema del 3+2” che articola i titoli di studio erogati dalle università in lauree triennali e magistrali. La legge che introdusse questo cambiamento, allineando quello italiano agli altri sistemi d’istruzione europei secondo le direttive del cosiddetto Processo di Bologna è il D.M. 509/1999, parte di un pacchetto di leggi note come Riforma Berlinguer, dal nome del ministro della pubblica amministrazione Luigi Berlinguer che se ne fece portavoce. Il testo di legge, tra le altre cose, introduce l’unità di misura dei Crediti formativi universitari (CFU) e stabilisce diverse classi di corso di studio che costituiscono l’ossatura a partire dalla quale ogni singolo ateneo, con la propria autonomia didattica, può erogare corsi di studio. Ogni classe di laurea prevede l’acquisizione di un certo numero di CFU e, in ragione di ciò, permette l’acquisizione di un titolo che ha medesimo valore legale in tutta la penisola. Nonostante negli ultimi anni si siano moltiplicati i corsi di laurea a vocazione multidisciplinare, questi soffrono di un enorme peccato originale, cioè quello di essere “né carne né pesce”, perché devono sottostare, se vogliono erogare un titolo legalmente riconosciuto, ai drastici paletti imposti dal Ministero. È proprio questa rigidità disciplinare, che stabilisce che ogni corso di laurea dovrebbe avere una serie di paletti disciplinari inscalfibili che la legge sulla doppia laurea vorrebbe superare, permettendo così di acquisire una formazione multidisciplinare attraverso il conseguimento di due titoli al posto di uno.
Questo aspetto della multidisciplinarietà dei percorsi formativi porta alla luce un dibattito che si era sviluppato negli Stati Uniti qualche anno fa a proposito del cosiddetto double-major. In un editoriale d’opinione, il giornalista del New York Times David Leonhardt si era scagliato contro il costume assai diffuso tra gli studenti americani di perseguire un double-major. Il double-major non è esattamente la stessa cosa della doppia laurea: se la doppia laurea prevede l’acquisizione di due titoli di studio, il double-major ne prevede l’acquisizione di uno solo che condivide due “indirizzi” differenti. Secondo Leonhardt la maggior parte degli studenti che fa questa scelta non lo farebbe per curiosità intellettuale, quanto piuttosto per aggiungere credenziali al proprio curriculum: il double-major farebbe dunque parte di una gara all’acquisizione di credenziali che esacerberebbe le disuguaglianze tra studenti di classe agiata e studenti meno abbienti. Leonhardt intesse così una critica a questo sistema – ribadiamo, diverso dalla doppia laurea – che fa propria un’obiezione di principio, secondo la quale non vi sarebbe un’autentica multidisciplinarietà in discipline che vengono insegnate a compartimenti stagni ed un’obiezione di contesto, secondo la quale questo sistema favorirebbe le disuguaglianze nell’accesso all’istruzione.
Quanto vale il titolo di studio?
Il tema della corsa all’accaparramento di credenziali sollevato da Leonhardt è utile per cercare di gettare luce sul meccanismo dell’inflazione dei titoli di studio che il sistema della doppia laurea potrebbe andare ad incentivare anche nel nostro Paese. Una fiorente letteratura accademica ha considerato, a partire dal lavoro del sociologo statunitense Randall Collins, come l’aumento della richiesta di titoli di studio porterebbe ad una loro progressiva svalutazione. Sotto l’etichetta del credenzialismo, la sociologia contemporanea ha considerato i titoli di studio come “cartellini” funzionali all’accesso a determinate posizioni lavorative che, secondo un meccanismo di signalling, certificherebbero determinate competenze. Se consideriamo il titolo di studio come una moneta spendibile sul mercato del lavoro per accedere ad una posizione e se ammettiamo che ciascun titolo di studio prevede uno sforzo più o meno quantificabile per conseguirlo, la doppia laurea aumenterebbe l’inflazione dei titoli di studio, favorendo un loro deprezzamento. Ad esempio, se un corso di laurea triennale prevede l’acquisizione di 180 CFU in un periodo di tre anni, la possibilità di conseguire due lauree contemporaneamente contempla il rischio che, nello stesso arco temporale di tre anni, si possa fissare uno standard di conseguimento di CFU doppio rispetto a quello precedente. Il risultato in questo caso sarebbe un deprezzamento radicale del valore del diploma di laurea triennale che, per semplificare, se prima era 1 con il nuovo sistema si attesterebbe a 0,5. Per far sì che si verifichi questa spiacevole eventualità però è necessario che la doppia laurea si imponga come un costume maggioritario tra gli studenti universitari, cosa non scontata date le difficoltà di attuazione con cui il provvedimento di legge potrebbe andare incontro.
Un simile punto di vista sembra essere condiviso anche da Andrea Mariuzzo, professore associato di Storia della pedagogia presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia che, in un articolo recentemente apparso sulla rivista “Il Mulino” esprime un giudizio critico su questa riforma. Secondo il docente, la doppia laurea costituisce «una riforma dei percorsi che, lasciando invariato il valore dei titoli negli accessi alle procedure selettive e nelle valutazioni delle commissioni concorsuali, li rende asset da accumulare il più possibile, anche a prescindere dall’effettivo livello di acquisizione dei contenuti conoscitivi che li caratterizzano». Mariuzzo lamenta il fatto che la riforma si muova solo nell’ambito burocratico, lasciando immutato l’aspetto sostanziale del contenuto dei corsi di studio: propone così di «concentrare l’attenzione sul momento della verifica di attitudini e competenze culturali e tecniche piuttosto che sulla denominazione del titolo di studio». In questo senso la riforma andrebbe a scardinare il dibattito sul valore legale del titolo di studio, garanzia di uguaglianza dei diplomi di laurea erogati dalle Università italiane che crea però strettoie burocratiche nell’accesso a determinate professioni, rendendo indispensabile il cosiddetto “pezzo di carta”. Il fronte raccolto sotto la bandiera dell’abolizione del valore legale del titolo di studio ha così trovato un modo per perorare i propri obiettivi, permettendo con la doppia laurea l’accumulazione di diplomi e aprendo le basi alla proliferazione di disuguaglianze nell’accesso all’istruzione ed alle professioni. Tutto questo senza però toccare il valore legale del diploma, sempre più messo in discussione.
Sono numerose le incognite che la legge sulla doppia laurea porta con sé, anche dopo la sua approvazione pressoché unanime da parte del nostro Parlamento. Il motivo per cui queste non sono emerse è perché il dibattito pubblico attorno all’Università è diventato sempre più monopolio di tecnici ed esperti e la politica ha abdicato al proprio ruolo di indirizzo nel cambiamento della società: laddove questa prova a muoversi lo fa attraverso slogan oppure polarizzando le posizioni in strettoie difficilmente percorribili. In questo senso, la legge sulla doppia laurea rappresenta un’occasione di un dibattito mancato per interrogarsi in maniera adeguata sull’importanza della formazione e del ruolo dell’Università rispetto al mercato del lavoro.
Articolo di Roberto Smaldore