“It is time to make amends to the low-paid essential workers” scriveva Sarah O’Connor l’1 aprile 2020 sul Financial Times. Dopo decenni vissuti a ripetere che la crescita economica è dovuta a una minoranza di lavoratori iper qualificati. Dopo decenni trascorsi a dare per giuste, quando non naturali, le crescenti disuguaglianze e la precarietà, la fine del lavoro e con essa quella della classe lavoratrice, ci si sveglia con il groppo alla gola. Mentre la maggioranza dei paesi decreta il lockdown delle proprie popolazioni, la possibilità di produrre, distribuire e consumare beni e servizi di prima necessità, è dovuta al popolo dell’abisso, così come lo chiamava a inizio Novecento Jack London. Sono loro a tenere in vita la struttura economica e sociale dei nostri paesi.

È una storia di ideologie, di narrazioni, di fatti e di conflitto, ma anche di crisi.

Secondo i dati Istat - depositati nella memoria alla Commissione per la Programmazione Economica del Senato - il numero di lavoratori che prestano servizio nei settori ancora attivi a seguito di quanto previsto nel decreto del 25 marzo 2020, sono 15 milioni e 576 mila, due terzi dell’occupazione italiana. A questi si aggiungono quanti sono stati chiamati a lavorare perché occupati nelle aziende che hanno presentato l’autodichiarazione ai prefetti, ma vanno sottratti quanti, pur rientrando nei settori definiti essenziali, sono occupati in aziende che hanno scelto o dovuto chiudere per mancanza di commesse.

Non tutti questi lavoratori possono essere considerati popolo dell’abisso: i professionisti in telework hanno una posizione economica e sociale ben diversa da una lavoratrice impiegata nell’industria di trasformazione del pomodoro. Un insegnante non è paragonabile a un dirigente regionale o di un ministero, nonostante entrambi svolgano il proprio lavoro in modalità telematica. Il mondo del lavoro, con le sue divisioni verticali ed orizzontali, è espressione della società, della sua composizione e dei rapporti di forza che la governano. La figura 1 dà una rappresentazione di queste differenze così come emergono dallo studio dei salari delle diverse tipologie di lavoratori occupati nei settori interessati dal decreto del 25 marzo 2020.

I settori sono divisi in 5 categorie:

  1. Essenziali e attivi
  2. Essenziali in cui è possibile svolgere telework (principalmente pubblica amministrazione e servizi professionali)
  3. In parte essenziali ma dove non è possibile svolgere telework
  4. Principalmente non essenziali da svolgere nei luoghi di lavoro standard
  5. Chiusi

All’interno di ciascun settore, la ripartizione di ogni barra indica la quota di lavoratori raggruppati in base alla retribuzione media oraria. I “viola” sono i lavoratori che appartengono al terzo più povero della distribuzione dei redditi da lavoro. Essi si concentrano principalmente nelle attività chiuse (turismo, servizi non professionali, ristorazione) - 70% - e nei settori che rimangono in parte aperti ma che non possono essere svolti in telework - 60% - (la logistica, il commercio al dettaglio) in cui sono di fatto la maggioranza. Questi sono anche i settori dove la quota di lavoratori precari (collaboratori, lavoratori a termine o partite iva), donne e giovani è superiore rispetto a tutti gli altri.


Nulla di sorprendente: la vulnerabilità economica ha un forte connotato anagrafico e di genere.

Tuttavia, è bene considerare che i settori dichiarati chiusi sono quelli su cui sia la pandemia che la crisi economica già iniziata si abbatteranno con maggiore intensità e durata. Il distanziamento e la scarsa domanda di consumo delle famiglie, senza forti investimenti in welfare, prolungheranno le chiusure e quindi aumenteranno la disoccupazione per milioni di lavoratori e lavoratrici. Inoltre, i settori come il turismo e la ristorazione sono anche quelli strutturalmente più poveri dal punto di vista della capacità di riconversione in attività economiche sia necessarie che più produttive. Senza un intervento di politica industriale forte e mirato che dia impulso alla domanda di lavoro, l’attuale assetto produttivo italiano difficilmente sarà in grado di far fronte alla crisi ed essere protagonista di una ripresa solida.

Allo stesso tempo, non va sottovalutata la quota, il 27%, di lavoratori scarsamente retribuiti che rientrano nei settori essenziali tout court, come la sanità. Si tratta di infermieri, inservienti, addetti alle lavanderie alle mense, alle farmacie, alle reception.


Fonte: elaborazione dell’autore su dati LFS e SES 2014.

Ci si chiederà com’è stato possibile che la maggioranza dei lavoratori fondamentali sia effettivamente quella più povera, vulnerabile e che più dovrà sopportare l’impatto di una crisi economica che appare tanto profonda quanto duratura all’orizzonte.

Diritti e disuguaglianze

A partire da metà degli anni Settanta, decennio di crisi e conflitti, la politica mette fine al compromesso tra capitale e lavoro che aveva caratterizzato i due decenni precedenti sotto la spinta incessabile del movimento operaio, italiano ed internazionale. Le idee supportate da una parte della teoria economica dei tempi, la cosiddetta controrivoluzione neoliberale, informano e guidano queste scelte politiche. In primo luogo, le imprese vengono considerate protagoniste indiscusse dell’attività economica, quella che genera occupazione, reddito e, perché no, progresso tecnico. In secondo luogo, ma legato al primo punto, le imprese saranno in grado di generare il massimo benessere per tutti – si dice - se lasciate libere di agire (soprattutto nella gestione dei cicli economici) senza dover sopportare il peso inefficiente che le rigidità – si legga salari e diritti dei lavoratori - avevano imposto in termini principalmente di costo del lavoro.

Terzo, non solo i lavoratori ma anche lo Stato avrebbe dovuto farsi da parte, riducendo le tasse sui redditi da capitale e al contrario finanziando gli aggiustamenti necessari in tempo di crisi – si legga incentivi di ogni sorta. Solo liberando risorse le imprese avrebbero avuto l’incentivo ad investire stimolando la produttività e di conseguenza la crescita economica. Quarto, il settore privato è indiscutibilmente più efficiente del settore pubblico nella produzione e distribuzione di beni e servizi: bisogna da un lato dismettere le aziende pubbliche e affidarle al privato (privatizzazione), e dall’altro, bisogna affidargli pezzi sempre più ampi di attività che rimangono di proprietà pubblica (esternalizzazione). Corollario neppure sottaciuto riguarda l’approccio rispetto alle diseguaglianze, ora diventate meccanismo utile. Una delle teorie allora molto in voga, e purtroppo ancora oggi nonostante le smentite su ogni fronte (teorico ed empirico), era quella della trickle-down – o dello sgocciolamento- secondo cui la concentrazione di reddito e ricchezza nelle mani di pochi avrebbe generato crescita per tutti con lo sgocciolamento di risorse dall’alto verso il basso.

Un secondo corollario è necessario in questa fase per determinare chi siano coloro che hanno il diritto di popolare la cima della piramide sociale. Senza alcuna sorpresa, i meritevoli.

Stravolto il senso del prof. Michael Young che a inizio Novecento coniò il termine in un romanzo allora distopico, oggi anch’esso purtroppo realtà, la retorica della meritocrazia non ha fatto altro che istituzionalizzare diseguaglianze preesistenti: i meritevoli nascono in famiglie agiate, frequentano buone scuole, vivono in case comode, studiano musica, lingue e possono permettersi lunghi mesi di stage gratis all’estero, con i quali dimostreranno di avere un curriculum superiore a chi non ha potuto permettersi tutto questo.

Si sposò, in sintesi, la centralità del profitto sul salario e una visione della società non più fondata sull’antagonismo tra classi sociali, ma tra singoli individui, in competizione ognuno contro gli altri, che vinca il migliore, o il più meritevole.


I rapporti di forza nel mondo del lavoro non poterono che mutare da allora, con i lavoratori tormentati dal ricatto tra “occupazione o diritti e salari”. Queste idee, false alla prova dei fatti, e pertanto ideologie, stanno alla base del processo di flessibilizzazione e liberalizzazione del mondo del lavoro, della sua sempre più profonda stratificazione e dell’aumento delle diseguaglianze tra lavoratori e fra lavoratori e capitalisti.


Come esternalizzazioni e appalti gravano sulle spalle dei lavoratori

È sulla base di queste ideologie che è stato permesso alle imprese di esternalizzare attraverso gli appalti pezzi sempre più consistenti del proprio processo produttivo, definendoli accessori o strumentali, poco produttivi. Di conseguenza, i lavoratori coinvolti negli appalti sono considerati per definizione poco produttivi e per tale ragione non possono che aspirare o adattarsi a salari più scarsi dei colleghi occupati in modo diretto dai committenti. La decisione su cosa e quando una attività sia meno produttiva o meno fondamentale è ovviamente rimessa all’arbitrio aziendale. Lavoratori del commercio, della logistica, del magazzinaggio che svolgono spesso mansioni identiche ma ricevono trattamenti economici e sociali differenti. Non solo nel settore privato, ma anche in quello pubblico. Si pensi al comparto della Sanità dove ormai i servizi di pulizia, mensa, lavanderia, farmacia, centri di prenotazione sono svolti in appalto da lavoratori che guadagnano pochi euro l’ora, con contratti precari e spesso con regime orario part-time. Servizi definiti accessori strategicamente eppure anche in questi mesi di pandemia in prima linea nel garantire il diritto alla salute e alla vita.

Non c’entra la crisi sanitaria: senza pulizie, senza mensa, senza lavanderie o reception, semplicemente gli ospedali non possono operare. È questa l’ossatura sulla quale poggiano le attività a cui il senso comune attribuisce valore e merito. Insomma, senza la base, scordatevi le altezze si sarebbe detto un tempo!

Simili considerazioni possono essere applicate al settore del commercio e della logistica, ma anche a quello della filiera alimentare. Se in quest'ultima, il salario istituito dal contratto collettivo nazionale non raggiunge i 5 euro lordi l’ora, nel commercio e nella logistica il lavoro a termine, in appalto o a chiamata sono all’ordine del giorno. Per di più, i lavoratori, per quanto qualificati, subiscono l’applicazione di contratti – la cui scelta è in capo alle imprese - peggiori rispetto a quelli del settore di riferimento, proprio perché pagano meno e permettono un’organizzazione del lavoro che allunga la giornata o settimana lavorativa, producendo così maggiore intensità di sfruttamento della manodopera.


E il mantra è sempre lo stesso, prendere o lasciare. Del resto, una donna delle pulizie o un facchino sono definiti poco produttivi e non qualificati, giacché non possedendo titoli di studio elevati (cosa sempre meno evidente) di conseguenza non possono che occupare la parte bassa della distribuzione occupazionale. Eppure senza di loro non esiste la possibilità di generare valore, le merci non arriverebbero al punto di vendita e uffici, ospedali, centri commerciali sarebbero delle discariche dove nessuno entrerebbe. La questione è allora chi crea valore e chi se ne appropria e in che modo l’azione politica istituzionalizza questi rapporti sociali. La questione rimane ancora una volta quella di attribuire un senso alla democrazia, al potere di scegliere e decidere chi, come, quanto e cosa si produce.

La questione rimane ancora una volta quella di attribuire un senso alla democrazia, al potere di scegliere e decidere chi, come, quanto e cosa si produce.


Illustrazioni di Luchadora


BIO

Marta Fana è una ricercatrice che ha iniziato la su attività studiando appalti e corruzione. Ha studiato tra l’Italia e la Francia concludendo il percorso con un dottorato di ricerca allo IEP SciencesPo Parigi. Oggi si occupa di politica economica, con particolare attenzione al mercato del lavoro, all’organizzazione del lavoro e alle disuguaglianze economico-sociali. Ha all’attivo due pubblicazioni per Laterza: “Non è lavoro, è sfruttamento” (2017) e “Basta salari da fame!” (2019).