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Eco – Ep. 2
di Giulia Dipietro
Arrivato al luogo prestabilito mi trovo di fronte a un uomo alto, imponente, con le spalle larghe e un’aria austera, ben diversa dall’uomo che si vede sui manifesti elettorali. Ci salutiamo, tutti e due in attesa di una mossa dell’altro. Alla fine è lui a cedere.
«È in ritardo, spero non sia una sua abitudine».
L’uomo, detto questo, si ferma e percorre la mia figura con lo sguardo, studiandomi, incrociando infine le braccia sul petto.
«So che nessuno dei due ha tempo da perdere, quindi le racconterò tutto senza giri di parole, poi sarà lei a dirmi se è la persona giusta per il lavoro». Inspira lentamente. Poi butta tutto fuori.
«Non c’è nessuna amante, signor Marini. Mi guardi, anche se volessi non ho più le possibilità. Lei è libero di crederci o meno, per me è indifferente».
Ha un tono pacato, il suo corpo è immobile: non un movimento, non un tic nervoso, solo una grande sicurezza.
«E per quale motivo sua moglie afferma l’esatto contrario?»
«È ciò che cerco di capire». Si interrompe un secondo, mi guarda negli occhi. «Più ci penso, più ritengo che questa non sia altro che la naturale conseguenza, l’ultimo tassello di un qualcosa di più grande e assurdo».
«Si spieghi meglio».
L’uomo sfrega le mani sulla stoffa dei pantaloni, si avvicina, di poco, un passo.
«Mi ascolti bene, l’ho chiamata per due semplici motivi. Il primo, è per dissuaderla da quel tentativo artigianale di sabotaggio di cui m’è giunta voce. Parliamoci chiaro, anche se avessi realmente un’amante, anche se fossi il marito più stronzo del mondo, non lascerei mai che una cazzata del genere scappi fuori in periodo di elezioni. Figuriamoci farsi fottere da una cosa che manco ho fatto». Mi fa segno con la testa, attende risposte. Io annuisco.
«Come dicevo, una parte dei quarantamila andrà a coprire proprio questo scherzetto. Con mia moglie poi dovrà inventarsi qualcosa lei. Io non voglio rogne, preferisco pagare».
«Capisco».
«Perfetto. I restanti invece serviranno a farle sentire cos’altro ho da dire».
«Giusto un appunto. Non potrebbe semplicemente essere che sua moglia sia stata ingaggiata da qualche rivale politico? A un osservatore esterno sembrerebbe l’opzione più plausibile».
«Lo escludo. È qualcosa di diverso, più ambiguo. Mi ascolti e vedrà anche lei che non si tratta di coccarde tricolore o uffici in Comune».
Espira un’ultima volta, poi comincia. «Da un po’ di tempo mia moglie ha cominciato a uscire a orari strani. A volte mi sveglio la notte e non è a letto con me. La mattina la vedo alzarsi prestissimo e uscire. Settimana scorsa, ad esempio, mi sono svegliato per un rumore; saranno state le cinque di mattina, non più tardi, e l’ho vista seduta sul bordo del letto, vestita di tutto punto. Poi si è alzata, muovendosi meccanicamente, senza un apparente scopo, fermandosi a fissare gli angoli bui della stanza. Mi sembrava un automa. Alla fine si è preparata come in trance ed è uscita. Inoltre, quando torno dall’ufficio la trovo sempre più spesso chiusa in camera a parlare da sola, discute con sé stessa, farfuglia, si arrabbia e fa versi di frustrazione, riesce ad andare avanti anche per una buona mezz’ora. È diventata sempre più furtiva, irritabile, rendendo praticamente impossibile ogni mio tentativo di iniziare una discussione. Fin qua niente di straordinario, dirà lei. Ed è qui che entrano in gioco i vestiti».
Dal taschino della giacca tira fuori un pacchetto di sigarette. Se ne accende una facendosi scudo con la mano. Poi mi porge il pacchetto. «È capitato più di una volta che riportasse a casa vestiti sporchi che non sono suoi né miei. La prima sarà stato un mesetto fa.
Quella sera è uscita dicendomi di avere un appuntamento con un paio di amiche, in un teatro del centro, fatto già strano, date le sue rare uscite serali. Però, ecco, non ho dato troppo peso alla cosa, sono rimasto a casa a guardare la partita, per poi crollare sul divano. Lei è tornata molto tardi, mi sono svegliato al rumore della porta, la partita era finita e la tv dava uno di quei programmi insulsi…comunque, ho socchiuso gli occhi e l’ho vista passare velocemente in corridoio con in mano un grande sacchetto. Qualche istante dopo, ho sentito il suono della lavatrice che si avvia.
Da quella sera, la storia della lavatrice è diventata come una nuova abitudine—mattina presto, pomeriggio tardi, notte fonda, non sono riuscito a cogliere né uno schema, né una frequenza sensata».
«Non pensa che sua moglie possa avere un altro?»
«No, sono sicuro che non ci sia un uomo di mezzo».
«Come può esserne sicuro?»
«Alla nostra età?» L’uomo scuote la testa, poi riprende.
«Dicevo, dopo tutte quelle lavatrici senza senso, le uscite immotivate e i comportamenti assurdi, dovevo scoprire che cosa si portava dietro, cosa c’era in quei sacchetti.
Solitamente però lei sorvegliava il bagno, come una guardia, rendendo per me impossibile dare un’occhiata. Una notte, invece, è tornata più tardi del solito e una volta fatta partire la consueta lavatrice, è venuta a letto. Così, mi sono detto che avrei finalmente scoperto il contenuto delle borse. Buttati, nel cestino della lavatrice, ho trovato dei vestiti per bambini. C’era un abitino a fiori, una piccola salopette di jeans, dei cappellini ricamati, alcune canotte».
Lascia cadere la sigaretta per terra. «Non abbiamo potuto avere figli, io e mia moglie, quindi non abbiamo nipotini…né tantomeno conosciamo bambini piccoli, bambini che potrebbero indossare quei vestiti…Capirà bene che la cosa mi ha alquanto allarmato».
«Dopo quella scoperta, dovevo capire qualcosa di più. Ho cominciato a seguirla. La prima volta è stato attraverso tutta la città, lei nella sua macchina e io nella mia. Siamo arrivati agli inizi della periferia, verso i Pini, una zona che noi mai abbiamo frequentato. Lei saprà meglio di me il perché, la nomea di certo non aiuta… Giunti a una rotonda, abbiamo girato in una piccola via. Quindici volte. Veronica prendeva l’uscita della rotonda, percorreva la strada avanti e indietro, e rifaceva tutto da capo. Quindici volte, senza mai fermarsi, in questa via vuota.
Un paio di giorni dopo è uscita di casa alle sette ma non ha preso la macchina. Ora lei deve sapere che mia moglie non si è mai mossa sui mezzi pubblici, si è sempre rifiutata categoricamente di farlo, è terrorizzata dallo sporco, dalla folla e detesta i ritardi.
Ma quella mattina ha preso l’autobus, in tutta tranquillità. Ricordo che indossava un paio di guanti di pelle e aveva in mano una di quelle grandi borse della spesa—quelle delle lavatrici per intenderci—vuota.
Era uscita lasciando le chiavi della macchina sul comò, e considerando quanto successo nei giorni prima, ho pensato che sarebbe stato opportuno continuare a indagare. Mi sono mantenuto a distanza, stando sempre attento a non farmi vedere. Ho aspettato lo stesso autobus dentro al bar di fronte alla fermata. Quando l’ho vista salire, ho corso verso il bus fermo. Mi sono seduto dietro, lei stava sui sedili vicini al conducente. Tre quarti d’ora dopo eravamo alla famigerata rotonda.
Ha controllato intorno a sé prima di infilare la mano in una cassetta della posta e prendere un mazzo di chiavi. Girata la chiave nella serratura, è sparita all’interno. È rimasta nell’edificio per una mezz’ora circa. Quando è uscita aveva un sacchetto decisamente pieno, nuovamente di vestiti. Ha attraversato il vialetto fino al cancello con aria guardinga, scrutando la strada. Una volta verificato di essere sola, ha chiuso il cancello.
A questo punto, senza rimettere le chiavi dove le aveva prese, ha raggiunto un’auto che non avevo mai visto, dove la attendevano tre persone. È salita e sono partiti».
L’uomo abbassa lo sguardo sui mocassini e scuote la testa. Ha gli occhi lucidi, il respiro pesante. Continua a ripetermi che non capisce nulla di quello che gli sta succedendo, del perché la moglie dovrebbe cercare di sabotarlo, del perché si sia rivolta proprio a me. Mi dice che non è un uomo stupido né impulsivo, che tutto sembra indicare che qualcosa di brutto sia successo, o stia per succedere. «Qualcuno potrebbe essere in pericolo. Potrei esserlo io allo stesso modo in cui potrebbe esserlo Veronica… Per non parlare dei bambini. Insomma, da dove arrivano questi vestitini? Dove li porta? Chi sono quelle persone che l’hanno portata via? Di chi è quell’appartamento ai Pini? Perché proprio lì? Cosa ci nascondono?»
«Lei deve aiutarmi,» dice infine, «per favore». La maschera è crollata. Gli dico che ho bisogno di un po’ di tempo per chiarirmi le idee. Lui mi risponde che mi richiamerà più tardi.
Salgo in macchina con una terribile sensazione appiccicata addosso. Per questo chiamo lei, l’unica in grado di farmi perdere e riacquisire la ragione allo stesso tempo.
«Non mi avevi detto che non potevamo più vederci da te? Che era una faccenda complicata?»
«Le cose sono cambiate, Lola, fra mezz’ora vieni da me» le dico, e metto giù.
È sdraiata accanto a me, il respiro ancora accelerato. Non è mai stata tanto bella come in questo momento.
«Ho visto il riccone stasera, non dovrei dirti niente ma che importa. Mi ha detto che non c’è nessuna amante, mi ha detto che la moglie ha fatto qualcosa di brutto, che è cambiata, che fa cose assurde…»
«Qualcosa di brutto che?»
«Non lo sa. Qualcosa di brutto e basta».
«Che stronzata».
Aggrotto le sopracciglia e guardo il soffitto.
«Può essere, ma sembrava sincero mentre lo diceva».
Lei mi tira verso sé e mi guarda negli occhi.
«Adesso credi a lui? Quando la moglie ti parlava di un’amante non hai sospettato che mentisse. Immagina se fossero entrambi pazzi. Se non ci fosse nessuna verità, solo un labirinto di bugie».
Sgrano gli occhi.
«Lui sembrava proprio mio padre».
La guardo e mi sembra di cogliere nei suoi occhi qualcosa di simile alla comprensione. «Quindi non devo più portarmelo a letto?»
«No, non mi serve più».
Si alza e si riveste. La lascio andare via, senza salutarla come è sempre stato.
La frase pronunciata da Lola, continua a risuonare nella mia mente: e se fossero pazzi entrambi? Se non ci fosse nessuna verità?
Il telefono vibra nell’altra stanza. Vado e rispondo.
«Cos’ha deciso? Accetta?»
Articolo di Giulia Dipietro