Per accessibilità si intende la capacità di fornire informazioni fruibili a tutti, inclusi coloro che a causa di disabilità necessitano di tecnologie assistive o configurazioni particolari. Abbattere le barriere alla fruizione dei contenuti è il primo passo per permettere a più persone di partecipare e contribuire al cambiamento.
Per questo noi di Scomodo stiamo cercando di inserire strumenti che favoriscano la lettura e la navigazione del nostro sito a quanti più utenti possibile.
Cosa stiamo facendo? Stiamo cercando di migliorare sempre di più l’accessibilità delle informazioni e delle interazioni anche per chi ha necessità particolari: come ad esempio chi può navigare solo con la tastiera, oppure chi ha difetti della vista o disturbi del neurosviluppo che riguardano la capacità di leggere.
Un menu laterale, sempre visibile, ti permette di modificare la visualizzazione della pagina in modo da facilitare la navigazione a seconda delle tue esigenze:
Hai trovato difficoltà? Puoi scrivere a tancredi@leggiscomodo.com.
Il tuo aiuto ci fornirà ulteriori spunti per migliorare l’accessibilità del nostro sito.
Chiudi
Eco – Ep. 4
di Giulia D'Errico
Uno sbadiglio, braccia e gambe distese oltre le estremità del letto, gli occhi che non riescono ad aprirsi del tutto. Nelle narici un odore di rancido. La lampadina alla mia destra accesa, dalla finestra aperta un vento freddo. Il bagno è poco lontano. I piedi toccano il pavimento. Nel tragitto verso il bagno si impigliano in una busta. Naso e bocca sbattono a terra. Sangue e saliva e puzza di decomposizione. La busta è poco distante. Al suo interno dei panni appallottolati. Mi convinco che è ora di farla, quella lavatrice. Mi alzo e mi dirigo verso il bagno, scorgendo con la coda dell’occhio il mio riflesso distrutto nello specchio. Mi inginocchio, apro la busta, tiro fuori un po’ di vestiti, li butto nel cestello. Di nuovo, mi siedo a terra, ne prendo altri, li infilo nella lavatrice. Programma per delicati, detersivo, premo START. Rimango per un po’ seduto a terra, miserabile, a gambe incrociate a fissare l’oblò che inizia a girare, prima piano, poi sempre più forte. Tutti i vestiti si amalgamano, non si distinguono più l’uno dall’altro, un miscuglio di colori poco uniforme. E mi rifletto nell’oblò, mi rifletto nella lavatrice. Dopo un po’ mi alzo, decido di tornare a letto. Sdraiato mi interrogherò sul funzionamento della lavatrice, sul suo aspetto emotivo. Qual è il programma giusto per tutte le occasioni?
Mi distendo sul letto. In camera c’è silenzio e penombra e addormentarsi non è difficile. Alla fine mi alzo di nuovo, vado al bagno, apro l’oblò, un rumore costante, atono, che non abbandona le mie orecchie.
C’è un abitino a fiori, una piccola salopette di jeans, dei cappellini ricamati, alcune canotte. Li osservo senza capire, nella mia testa si susseguono immagini in modo confuso. Un prato verde, una tovaglia da picnic e una canotta che svolazza al vento. Ancora, una spiaggia, le onde che si infrangono, il sole al tramonto e la salopette insabbiata accanto ad alcuni giochini da spiaggia. Poi il soggiorno di una casa, il camino che scoppietta e un abitino a fiori su un appendiabiti. La mia fronte si aggrotta ancora di più. Reminiscenze di un passato così lontano da essere sfocato.
L’ultimo indumento in fondo alla lavatrice è un cappellino rosa con fiorellini blu, stropicciato e usurato dal tempo e dal sole.
Quasi per sfida, me lo metto in testa. Nello specchio sopra al lavandino compare il mio riflesso. Mi guardo, una goccia d’acqua si stacca dal bordo del cappello. Mi viene da ridere. Chiudo gli occhi e ripasso il cappello tra le mani, avvicinandolo al viso. Il tessuto è bagnato e profumato, e i fiorellini in rilievo sono morbidi al tatto. All’interno trovo un’etichetta, lunga e pungente. Riapro gli occhi e noto che su questa etichetta c’è scritto qualcosa, quasi illeggibile a causa del lavaggio . Mi metto controluce alla finestra per cercare di leggere tra le righe. È un indirizzo. Riesco a decifrarlo. Via Malcontenti 19, interno 7. Forse dovrei pensare che è tutto un po’ assurdo e che dovrei fermarmi qua. Invece decido di andarci a quell’indirizzo, e subito.
Mi metto in macchina per dirigermi alla destinazione, attraversando un bel pezzo di città sino a giungere in periferia. In macchina sto zitto, la gamba sinistra che non smette di agitarsi, il labbro inferiore stretto tra i denti. Il bello è che non m’importa neanche più capire. Forse la chiave sta proprio nel lasciare che mi succeda quel che deve senza chiedermi perché. Forse ‘sta storia non è altro che un grande cestello della lavatrice—io l’unico capo colorato, stinto dai bianchi e dall’alta temperatura.
Guardo fuori dal finestrino, il paesaggio dei Pini scorre parallelo alla macchina. Fuori, il cielo è diviso a metà: in parte di un azzurro tenue, poi, un tappeto di nuvole nere cancella la quiete. Gli alberi stanno perdendo le foglie e il vento entra veloce dal finestrino aperto. Chiudo gli occhi per un secondo. Li riapro da codardo e faccio un bel sospiro. Cerco di concentrarmi di nuovo sui palazzi, sulle vie che si succedono tutte uguali, quando dopo un cartellone pubblicitario leggo su un muro il nome della strada. Parcheggio di fronte al 19.
Scendo dall’auto, e mi accendo una sigaretta per ammazzare i nervi. L’edificio di fronte a me è un casermone grigio, alto, scrostato. Mi dirigo verso l’ingresso, è chiuso. Mi avvicino alle tante cassette della posta di fianco al portone e con il dito seguo i numeri sino ad arrivare a quella con il numero 7. Mi ricordo casa dei miei e la cassetta della posta simile, spesso semichiusa, in cui mia madre mi lasciava le chiavi di scorta prima di andare a dormire. La prima volta glielo avevo visto fare il giorno che andai ad abitare con loro. Di ritorno dal San Girolamo, una volta scesi dalla macchina, aveva riposto un mazzo di chiavi nella cassetta. «Non si sa mai,» mi aveva detto, facendomi segno d’entrare con la mano. Ora mi viene da fare la stessa cosa con la cassetta che ho davanti. Funziona: ci trovo un mazzo di chiavi. Troppo facile. Non mi sorprendo neanche più. Il portone si apre e in pochi secondi sono di fronte all’interno 7. Esito nel corridoio, poi abbasso la maniglia ed entro. Mi immagino Veronica e Paolo che mi aspettano, con un piano perfettamente studiato. La cosa non mi spaventa, anzi, alla paura si aggiunge una strana eccitazione. Al di là della porta, potrebbe accadere di tutto.
Alla vista, però, si delinea una stanza immacolata, sgombra di ogni cosa. La stanza, a primo impatto, mi comunica una sensazione di vuoto, come se nessuno avesse mai realmente vissuto lì dentro—chissà che cazzo ci veniva a fare Veronica. La moquette grigia, incontaminata, ricopre tutto il pavimento, un tavolo bianco troppo piccolo fa sembrare la stanza ancora più enorme, e su di esso un portatile e un CD. Nessun indizio, nessun biglietto scritto, nessuna spiegazione. Mi avvicino e lo apro.
Lo schermo si illumina. Di nuovo, esito. E poi, la necessità di accelerare le cose, come se qualcuno mi stesse osservando. So che non c’è nessuno, ma involontariamente mi guardo alle spalle. Solo la porta chiusa dietro di me. Infilo il CD, e mentre l’icona del dischetto gira e la schermata cambia, comincio a sudare. Sullo schermo appare una casa, di giorno, un bel giardino, le case di fianco identiche, in quello che sembra un quartiere residenziale. Il video continua con una ripresa dell’interno della casa, affollata di gente, adulti e bambini, io al centro, poi una torta e delle candeline che vengono soffiate. Urla di bambini intorno al tavolo, palloncini e coriandoli. I miei occhi rimangono fissi sullo schermo. Regali scartati, nastrini e fiocchetti colorati sparsi sul pavimento e in mezzo a tutta quella confusione, un cappellino con dei fiorellini ricamati.
Non riesco a trovare il filo razionale di ‘sta storia. È solo un susseguirsi di immagini, un caleidoscopio di suoni, di me con quel cappellino addosso. La mia infanzia di merda che si fonde con la mia vita di merda. Poi quell’odore, quella puzza mi riempie nuovamente le narici. C’entreranno le medicine, o magari è colpa di quel gin scadente che compro al supermercato. Sì, un gin e tonic di troppo che mi fa pentire di tutto quello che ho bevuto, di tutto quello che sono. Se si tratta di Veronica, beh, che scherzo di merda. No, no… non è uno scherzo. Un messaggio che la mia mente alterata ha lanciato, un S.O.S.del mio inconscio. C’è qualcosa che puzza tremendamente in questa storia. E io come al solito mi sto facendo trascinare. Devo calmarmi. Ho bisogno di essere lucido. Ho bisogno di capire. Quale modo migliore di schiarirsi le idee se non chiamare Lola?
Mezz’ora dopo siamo stesi sul letto della mia camera, io esausto e svuotato, cancellati tutti i pensieri e i problemi. Chi è che diceva che il sesso non risolve tutti i problemi?
Lei mi accarezza quasi con dolcezza. La ammiro nuda in tutta la sua bellezza. Le lunghe gambe distese, i capelli arruffati, la camicetta stropicciata, il rossetto sbavato. Mi continua ad accarezzare e chiamare tesoro. Sono sempre più innamorato. Ma che cazzo di problema ho? Innamorarsi di una escort. Amore ed escort. Non dovrebbero manco stare insieme ‘ste parole nella stessa frase.
Le chiedo di uscire a bere con me? E se avesse altri clienti? Ma poi, cosa cazzo ci diremmo io e la mia escort preferita seduti al tavolo del baretto? Forse non è il caso. Lei non sa di essere la mia terapia. Torno con la mente nella stanza, mi giro a guardarla, basta.
Se ne va dopo poco. Io rimango sul letto e non la saluto. Chiudo gli occhi. È già il giorno dopo, o il pomeriggio. Sulle lenzuola c’è ancora il suo corpo disegnato. Il cellulare vibra. Un messaggio, Lola. Dice di andare a cena domani sera, un posto che conosce lei. Alla fine me l’ha chiesto lei di uscire, che strano.