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Eco – Ep. 5
di Francesca Quadri
Gli oggetti nella sala brillano a tal punto che mi sembra emettano piccoli corpi luminosi. Costretto a strizzare gli occhi, la mia vista è annebbiata e nel frattempo ho la mente ancora più confusa. Brandelli di conversazioni altrui non smettono di infilarsi nelle mie orecchie, all’inizio ero infastidito, ora ne sono assuefatto. Una predisposizione ignota suggerisce alle mie mani di afferrare tutto quello che ho davanti. Prendo il coltello, due giri su sé stesso, lo poso. Ora è il tovagliolo l’oggetto della mia attenzione: al tatto è ruvido, le dita si alzano quando passano sopra le pieghe… «Mare o montagna quindi?»
«Non me lo sono mai chiesto prima, ti direi mare…».
È da quando siamo arrivati che Lola continua a farmi domande del genere. E io continuo a darle risposte del genere, inutili e superficiali, vuote come gli argomenti di cui stiamo parlando. Dove ti piacerebbe passare le vacanze? Vorresti una casa grande? Hai mai pensato al tuo viaggio di nozze? Mi sforzo di trovare il significato che si nasconde dietro le sue parole, ma vengo distratto dalla scollatura con la quale sono a cena. Lola non è mai stata più sensuale di ora, e io fremo mentre attendo il momento per poterle dimostrare quanto la desideri. Veronica, i vestiti, quel video, sono mosche fastidiose, pensieri che di tanto in tanto si posano sulla realtà di questa cena surreale, devo scuotere la testa per cacciarli fuori. «Di gran lusso questo posto, comunque,» forse riempirmi la bocca di parole mi può distogliere da tutta quella storia.
«L’ho pensato proprio per un’occasione speciale». Quel suo modo di pronunciare le “r” e le “s”, le prime molto marcate, le seconde invece leggermente strascicate, mi sta facendo perdere lucidità. «Ho scelto il meglio, per noi». Se non la smette di accarezzarmi la mano mentre mi dice queste parole e mi guarda fisso potrei arrivare a prenderla con la forza e trascinarla a casa, al diavolo le occhiatacce risentite che mi lancerebbero i completi firmati seduti agli altri tavoli.
«E comunque anch’io avrei preferito le vacanze al mare». È tornata a parlarmi di fantasticherie e io non riesco a capire cosa stia cercando di dirmi. «Avrei potuto stringermi a te le sere d’inverno e parlare dei nostri primi momenti insieme, tu avresti ricordato anche i dettagli più insignificanti e io avrei riso di te. La domenica avremmo passeggiato per strade malinconiche tenendoci per mano e dicendo cose insensate, a riempire le ore solo il piacere reciproco di stare insieme. Avremmo potuto viaggiare, l’estate andare nella casa al mare di cui parlavamo poco fa. Tu avresti costruito castelli di sabbia solo per farmi ridere, io lì accanto a te a riprendere ogni istante di quella vita passata insieme, una vita felice. Poi saremmo invecchiati, sempre insieme, con te a coprire le mie spalle fredde. A guardare l’effetto del tempo su di me gli stessi occhi che mi fissano ora, densi di passione giovane».
«Lola io non capisco cosa tu–».
«Non ho finito di dirti tutto, Zeno», le sue dita sono di colpo fredde, non le sento più sulla mia mano. «Sarebbe stata una vita come tante la nostra. E sai, se ti avessi amato per tutto questo tempo come so che tu ami e desideri me, se tutto fosse stato diverso saremmo stati molto più che felici insieme, Zeno». Il tovagliolo è a terra, mi chino a raccoglierlo, la mia testa ora pesa così tanto che sarebbe molto più comodo restare qui vicino al pavimento, al sicuro. «Guarda però questa sala, tutto qui brilla da far male. Guarda le persone sedute agli altri tavoli, sono riuscite a soggiogare la ricchezza, che nel frattempo li attende fuori, seduta oziosa nelle loro macchine firmate. Hai notato prima con quale rispetto si è rivolto a me il cameriere?» La sua mano sposta distratta una ciocca di capelli. È regale in ogni movimento, la sedia è il suo trono. Mi governa.
«Io non ti amo, non ti ho mai desiderato». Mentre parla lei mi sorride, io sono morto. I tavoli nella sala iniziano a girare. Chiudo gli occhi. Li riapro. Anche il nostro tavolo ora si muove. Lo afferro stretto con le mani. Niente da fare, sta cadendo. Sto cadendo.
«Anni fa frequentavo un uomo sposato. Un giorno si è presentato a casa mia con una valigia. Aveva lasciato i suoi figli per me. È l’amore, diceva. Non l’ho capito. Lui per me era un modo come un altro per riempire la noia. Il tempo di una notte e la moglie è arrivata a riprenderselo. Lo aspettava in macchina, l’avevo chiamata io. Lui non mi serviva a nulla. Invece tu sì. Questa cena è il mio modo di dirti grazie, Zeno, per essere stato la mia merce di scambio. Quando me l’ha chiesto all’inizio ho fatto fatica a crederci. Andare a letto insieme per sottrarre informazioni sulla tua vita. Insomma mi è sembrato fin troppo facile. Solo questo è stato sufficiente a Veronica per… »
Sento questo nome e sono già in piedi. Prendo la giacca, il telefono e il tovagliolo. Ma cosa sto facendo? Mi infilo la giacca, metto in tasca il telefono e poso il tovagliolo. Vedo le mie scarpe bagnate. Chi le ha bagnate? Mi accorgo di essere stato io, ci ho rovesciato sopra un bicchiere con del vino dentro. Non vedo più nulla. Mi feriscono gli occhi i piccoli corpi luminosi degli oggetti in sala. Le risate agli altri tavoli mi lacerano le orecchie. Stanno tutti ridendo di me? Non do il tempo alla mia ennesima paranoia di insinuarsi, sono già fuori dal locale.
Intanto una parte di me siede ancora in quella sala, aggrappata alle belle parole di Lola sta pensando a dove poter trovare una villa al mare, è viva e felice in quei momenti di ciò che considero un passato che ora vorrei fosse lontano anni.
Dopo l’ennesimo tentativo riesco ad aprire la mia macchina. Mi siedo, giro le chiavi, parto. Direzione Pini, via Malcontenti 19, interno 7. Non vedo la strada, ho davanti agli occhi solo il viso di Lola, i suoi capelli, le sue mani… come può avermi fatto tanto male? Percorro la rotatoria, mi avvicino sempre di più alla verità. Perché Veronica dovrebbe essere così interessata a me? Scendo dall’auto. Vado verso la cassetta della posta e prendo le chiavi, sono lì che mi aspettano. Apro il portone. Salgo di fretta le scale. Eccomi davanti alla porta. Entro e le mie gambe decidono di non procedere oltre nella stanza, immobili davanti ad una scena inaspettata.
«Ciao Zoe,» non l’avevo mai vista così, «finalmente sei tornata a casa». Mi guarda e il suo viso si bagna di lacrime mute, sembra più vecchia di quanto già sia. Il corpo accasciato a terra si ripiega su se stesso, le mani trattengono il pavimento sotto di loro come se dovessero evitare di cadere da un momento all’altro. Un profumo di fiori si attacca alla mia pelle, proviene dai vestiti sparsi a terra da cui Veronica è circondata. Per l’esattezza: un abitino a fiori, una piccola salopette di jeans, alcune canotte, e dei cappelli ricamati, tra i quali riconosco il cappellino rosa a fiorellini blu.
«È da anni che vivo nell’attesa di questo momento,» sorride e mi fa cenno con la mano di avvicinarmi. Devo ricordare come si cammina prima di iniziare a muovermi, tanto la mia mente è confusa, a questo punto. Animato da una volontà sconosciuta, il mio corpo decide di sedersi vicino alla controfigura di quella donna forte, che a tratti reputavo spaventosa, ora invece solitaria rovina superstite del crollo di una statua imperturbabile.
«Ti chiedo scusa per non essere stata presente nei momenti importanti: i tuoi primi passi, le recite a scuola, le feste di compleanno». Sono prigioniero della sua mano incerta che debole mi accarezza il viso, non riesco a spostarmi, e intanto la sento parlare. «Ricordo la prima volta che io e Paolo ti vedemmo. Nel cortile dell’orfanotrofio gli altri bambini correvano insieme, giocavano a palla, tu stavi in un angolo avevi gli occhi grandi, traboccavano di solitudine. Mi è bastato guardarli un secondo per vedervi riflessa dentro la mia stessa fragilità. Ti avrei portata via. Ci saremmo potute guarire a vicenda… ‘Ma no Veronica, nelle tue condizioni non puoi adottare una bambina’, questo mi hanno detto. Crisi depressive e principio di schizofrenia: il giorno in cui mi è arrivata la diagnosi lo ricordo come il giorno dell’aborto, ero convinta di averti persa per sempre…». Confusa raccoglie i vestiti che le sono più vicini, li tiene stretti al petto. «Posso dirti di essere stata una brava madre, Zoe, ti ho amata molto. Ogni volta che ti porto al parco torniamo e subito metto a lavare i vestiti che hai sporcato. Senti come profumano di pulito adesso? Tu lo senti? Sono anni che lavo i tuoi vestiti sporchi, ma oggi il loro profumo lo senti anche tu. Ora siamo insieme, io posso parlarti e ti chiedo perfavore di non sporcarti più così tanto, ormai sei grande… non c’è più bisogno di sporcarsi, vero? La mia bambina adesso può ascoltarmi e mi promette che non si sporca più, giusto? La mia piccola bambina… la mia Zoe… insieme… ». La sua voce è così bassa ora che sento solo un fruscio uscire dalle sue labbra, mentre lei si culla a terra. Intanto il cappellino rosa a fiorellini blu la guarda incredulo, credevo di essere vicino a lui, spettatore silenzioso, e invece il mio corpo mi ha portato fuori, in macchina. Sto guidando ma non mi rendo conto delle mie azioni, solo quando Lola non risponde al telefono realizzo tutto quello che mi è appena successo. Lola non mi risponderà più. Sono solo. Ho bisogno di parlare con qualcuno.
Sono già sotto casa di Alba.
Sono un vigliacco.
Articolo di Francesca Quadri