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Eco – Ep. 6
di Giovanni Venturi
Premo sull’acceleratore e premo sul corpo di una donna. L’abitacolo dell’auto mi rimanda alla stanza di Alba e nel buio della città deserta, il contachilometri misura quanto mi allontano da lei. Premo sull’acceleratore e svolto a destra. Alba. La sento ancora mugolare e salire di giri, lei urla di piacere e io premo, più a fondo, nella notte. Fermo al semaforo, il motore romba a vuoto, posso sentirne la potenza. Alba. La sua schiena è liscia e bianca e inarcata, è il disegno sensuale e aerodinamico di un’auto sportiva, quella che vorrei avere.
Io decido dove si va. Io tengo il ritmo col cambio. Io posso decidere di frenare prima della curva e poi spingere più forte per riprendere il controllo.
Se ora trema tutta, è perché io l’ho deciso. Se lei freme, è perché io sono potente. In questa corsa ho la sensazione che la vita stessa scivoli via, lontana, e veloce.
È un tragitto in auto, di notte, e io sono ubriaco e voglio vomitare. E mi viene da piangere a pensare che sono tornato da Alba, e ancora, e ancora, e ancora, guido e mi guardo mentre scopo un bel corpo, imitando energumeni da porno, e non penso ad altro se non spingere, spingere, spingere.
Lungo il corso enorme mi concentro sui trattini bianchi, ma il bordo di destra si avvicina, allora sterzo a sinistra e finisco in contromano, poi mi accartoccio sul volante, ritorno a destra. Le luci dei lampioni mi vengono incontro affollandosi sul parabrezza. Vedo Lola. Vedo Lola oltre il vetro di un fast food, seduta per la colazione dopo una delle sue infinite serate. La seguo con lo sguardo, perché non posso fermarmi, non posso ricadere nel suo vortice. Il cordolo si avvicina in centro strada, già mi immagino schiantato e maciullato. Inchiodo. La retro urla un lamento teso, cento metri all’indietro, sulla destra di nuovo le vetrate illuminate di luce bianca ventiquattrore su ventiquattro. Lola non c’è. C’è l’insegna che lampeggia rotta, che si sforza di rimanere accesa, come la cameriera al bancone che fa di tutto per rimanere sveglia. Riparto piano, frugando sotto il sedile per trovare la bottiglia… Tiro giù una golata di gin, lo appoggio sul sedile passeggero.
Alla fine arrivo. Lo trovo, incastrato tra le vie del centro, in un vicolo marcio che ritorna nei miei incubi alcolici. È piccolo. È tutto molto piccolo, anche il marciapiede e la porta con il campanello Istituto San Girolamo. Suono. Inforco gli occhiali da sole, aspetto. Cinque minuti. Suono di nuovo, sono già le otto, qualche suora sarà sveglia… Cinque minuti. Una voce impastata e gracchiante mi richiama al citofono. Rispondo subito, rigido, quasi sull’attenti.
«Mi chiamo Zeno Marini» eccetera.
La voce borbotta una frase tronca, se non fossimo al San Girolamo giurerei una bestemmia. Poi attacca la nenia. «Se volete un appuntamento chiamate il numero segnato sotto il campanello, per lasciare una donazione potete fare un bonifico, c’è un foglio sulla porta con gli estremi, il servizio di accoglienza è aperto dal lunedì…»
«Ho solo bisogno della segreteria», dico.
«Scusi un secondo», e riattacca.
Cinque minuti. Poi la porta si apre, salgo la rampa di scale al buio e cammino veloce sotto il portico. Ogni passo l’ho fatto al contrario quando sono andato via e ogni passo sembrava l’ultimo, il cortile era immenso, mi tremavano le gambe mentre dalle finestre tutti mi guardavano. Questo è uno dei miei pochi ricordi. Supero delle panchine e un parco giochi col prato sintetico, c’è uno scivolo di plastica accasciato a terra, se mai l’ho usato non lo so. Oggi, anche il cielo è grigio.
La suora resta immobile in cima alla scalinata fin quando non sono di fianco a lei, poi aprendo la porta lascia andare un buongiorno che suona come un che cazzo vuoi. Il mio sguardo scivola sul pavimento a scacchi del lungo corridoio, e dal fondo spunta un’altra suora alla guida di una colonna di bambini e ragazzi, che ridacchiano e si spintonano alle sue spalle. Quando mi vede, si ferma, si volta e dice qualcosa. Il gruppo di colpo diventa più compatto. La suora che conduce la carovana mi sorride e mi circonda di saluti ampollosi, mentre i bambini passandomi vicino abbassano il capo e dicono “buongiorno signore”.
«È qui per adottare?» chiede la suora.
«No, mi spiace».
Sul suo sorriso cala il silenzio. S’intromette la prima, quella della scalinata. «Venga con me, Lei». La seguo. Entrando in segreteria, mi volto per salutare, ma quella già mi dà le spalle, per incazzarsi coi bambini che hanno ripreso a far casino. Mi appoggio alla scrivania, sono stanco. Dico che sto cercando delle informazioni su Zoe Marini, che è stata ospitata qui e che vorrei vedere le sue richieste di adozione.
«Lei chi è?»
«Zeno Marini».
La suora mi guarda coi suoi occhi spenti, fa una smorfia. «Ai vostri genitori piaceva la zeta».
Non rispondo. Guardo il corridoio e cerco di ricordare il momento in cui ho incontrato i miei genitori adottivi per la prima volta. Mia madre deve essersi avvicinata a mio padre, deve aver sussurrato qualcosa. Ma non ricordo nulla.
«Non mi sembrava avesse un fratello. Posso vedere un documento?»
«Lei era già qua? Si ricorda?» chiedo.
Annuisce. Si gratta il sopracciglio bianco e sottile, dice: «Non se la prenda, ma era una bambina un po’ problematica».
Le allungo il documento. «Il fatto è che quella bambina ero io».
Lei abbassa lo sguardo sulla mia foto. Contrae le labbra, ha la bocca minuscola. Resta in silenzio, si sente solo il ticchettare dei tasti.
«Cosa hai detto che cercavi?» mi chiede.
Guardo sulla carta d’identità, la mia faccia al contrario.
«Certo che non ti stanno bene questi capelli corti,» aggiunge.
Gli occhi mi si inchiodano nei suoi. Lascio andare un lungo sospiro. Dico: «No, non credo proprio di ricordarmi di Lei. Sono passati molti anni». Poi aggiungo: «Comunque, cercavo le richieste di adozione».
«E perché?»
I suoi occhi assenti si infrangono sui miei occhiali scuri. Mi ronza la testa e sento in bocca il gusto amaro della notte insonne.
Dico: «Devo sapere se una certa coppia ha tentato di adottarmi».
«Mh. Che anno?»
«Sono stato qui dal 1985 al 1990».
Si volta e fa per alzarsi, poi si blocca. Il suo sguardo si accende. «A differenza tua, io mi ricordo. Brave persone i tuoi genitori adottivi, ce l’avranno messa tutta per educarti come si deve».
«Le richieste d’adozione, per cortesia» dico.
Non risponde, si alza e se ne va. Allora la chiamo, la rincorro e le spiego che non sto cercando tutte le richieste, ma solo quelle di Paolo Melzi e Veronica Santo, ma comunque se non sono troppe che me le porti tutte, anzi posso accompagnarla, così le do una mano.
Lei dice solo: «Non saranno molte, non preoccuparti».
Aspetto. Mezzo minuto dopo sbuca dalle stanze dietro la segreteria. «Nulla».
Nulla?
«Abbiamo conservato solo i documenti dal ’93 in poi. Gli altri sono già al macero».
Non perde un secondo, la suora. Si siede e riprende a battere veloce sul pc. Sempre appoggiato sul bancone, guardo in alto. Il soffitto è scrostato, sotto il bianco emerge qualcosa di scuro, muffa forse, o colore dato e poi coperto.
«Non ci sono delle copie?», chiedo.
«No». Non alza nemmeno gli occhi.
Di colpo la stanza si restringe. Il soffitto si abbassa, sento l’aria intorno a me scomparire e non resta nulla tra me e i muri, che sono ruvidi e giallognoli, che posso immaginare sulla pelle mentre grattano. Ripenso al politico da incastrare, a Veronica che mi vorrebbe come figlio, a me che muoio dietro a Lola, a tutte queste traiettorie impossibili. Sento i muri addosso e ora non c’è proprio niente che mi protegga.
Allora vado via, non saluto e torno a casa. Non so più da quanto sono sveglio e in giro.
Ora sono di fronte allo specchio. Sono nudo e mi asciugo le lacrime. Mi piacerebbe poter dire che quello che vedo è Zeno. Quello che vedo è un insieme di pezzi che faticano a stare insieme, mi è difficile chiamarlo “Io”. Un singhiozzo mi scuote, e per un attimo lo sento, il corpo, come una cosa unica e viva. Mi tocco la barba e mi passo le mani tra i capelli, le mie braccia sono più spesse a forza di esercizi. Guardo dentro i miei occhi neri. Poi la visuale cade sui capezzoli, sull’addome, sui peli tra le gambe, gambe lunghissime, l’unica parte di me che ho sempre apprezzato. Il mio corpo è fatto di sovrapposizioni, è sempre stato il terreno conteso tra me e il mondo. Lo rivedo piccolo e piatto, ricoperto da vestitini rosa e cappellini, già plasmato a forza dai desideri altrui.
I miei “genitori”. Volevano una bambola, e la cercavano piccola, perché fosse più malleabile, perché potesse poi assomigliare a loro. Ma io, cosa voglio io? Io da solo, Zeno.
Apro l’armadio e tiro giù tutti i vestiti in un colpo. Mi avvicino alla finestra. La città che sto per abbandonare continua a essere un intreccio di rumori e di voci, un teatro per le vite e i dolori della gente. Penso alle mie storie sedimentate sui marciapiedi, sono repliche identiche con personaggi diversi, come se dovessi assistere da protagonista agli errori che continuo a ripetere. Come se dovessi imparare qualcosa, soffrendo come un cane e facendo soffrire. È un muoversi in circoli che sembra non evolvere mai. La mia infanzia, l’orfanotrofio, i genitori, le fughe, il mio modo merdoso di trattare le donne.
Piano piano, inizio a rivestirmi, prima le calze, le mutande, il binder, la maglietta, i pantaloni…
Non ho neanche un biglietto. Mi sono fiondato in aeroporto e adesso sono un babbeo col trolley che guarda a bocca aperta il cartellone PARTENZE, immaginando le mete più esotiche che può permettersi con un volo all’ultimo minuto. La valigia è piena di magliette, camicie, pantaloncini, quindi il mio occhio cerca i nomi che hanno un suono tropicale.
«Dove vai di bello?»
È una donna, a parlarmi. Ha lo sguardo calmo – forse un po’ triste – che scava con curiosità nei miei lineamenti. Arrossisco.
«Non ho ancora deciso».
Si volta a guardare il cartellone e la sua lunga coda compie un arco in aria prima di ricaderle sulle spalle. È piccolina. Torna a guardarmi. Distolgo lo sguardo.
«È da quando avevo sedici anni che voglio farlo», dico io. «Prendere un volo solo andata per il primo posto che mi ispira».
Ho la sensazione che mi stia studiando. Non è certo la prima volta che qualcuno mi guarda, cercando di capire a che sesso appartengo. Ma questa volta sembra diverso. Posso quasi sentire il suo sguardo addosso, eppure non mi fa nessun effetto. Mi volto. La sua valigia è più grande della mia. Ora i nostri occhi si incrociano e io… non faccio nulla. Non provo a sedurre e non mi sforzo di apparire in nessun modo. Tento di coprire il mio sorriso con una mano.
«Pensavo ai Caraibi», dico.
«I Caraibi?». Sembra contrariata. «Perché?»
Alzo le spalle. «Tu dove vai?»
«In Lituania. A fare volontariato. Ma poi conosco della gente da quelle parti, che prende e fa questi viaggi folli raccattando persone per strada. Ci perderemo tra i laghi».
Penso al contenuto della mia valigia e trattengo una bestemmia.
Lei mi sorride, mi allunga la mano. «Sono Greta, comunque».
«Zeno». Cerco di cogliere una qualche reazione ma resta impassibile. Invece mi sorride, mi augura buon viaggio. Strano modo di fare, presentarsi e poi andarsene. La vedo allontanarsi sulle scale mobili. Allora la inseguo, cercando di non correre, ma ho anche paura di perderla nella folla, quindi accelero il passo e il trolley dietro di me fa un frastuono infernale. La chiamo per nome. Lei si volta, si ferma. Dico: «Credi che ci sia posto anche per me?»
Articolo di Giovanni Venturi